Rosario Alfano


Voyer

L’unica che hai!! Una goccia d’acqua

 

Voyer

La avvicino fingendo di esserle distante. Le mie parole la recintano. E la bestia bellissima e divina non oppone resistenza, come se aspettasse da sempre il suo padrone.

Vorrei scoprirla, conoscerla come non ho mai conosciuto me stesso: proprio in quel modo!

Vorrei tuffarmi in una delle sue pupille e percorrere  i suoi corridoi, le sue stanze, annusarne i vizi, i desideri serpentini del suo corpo. Vorrei che mi sentisse dentro, nell’abisso della sua cerne, nelle profondità corporali che neanche lei sapeva di avere.  Vorrei  esploderle dentro, e disperdere i miei frammenti sul terreno del suo già stato, così che essi ne vengano assorbiti come acqua, fino a nutrirne le radici, fino a  diventare  anch’io una sua radice.

Vorrei cadere in lei, vorrei cadere con lei… e che  in una notte senza ragione i nostri muscoli e i nostri occhi aprissero una danza senza fine su di un letto di inebriante solitudine, congelati da un vento che  ci  avvicina alla morte,  avvicinandoci nella morte.

Eppure appena  un suo gesto arriverà a commuovermi tutto sarà finito, tutto sarà mai stato, ed io risalirò velocemente dalle sue radici,  su verso l’esterno, schizzando fuori dalle sue pupille ridissolvendomi nel buio dietro la SIEPE, cacciatore che non sa cibarsi della preda, voyer che teme di toccare la vita e soprattutto… di esserne toccato.

 

 

 

L’unica che hai!!

Ti conosco per quello che sei, ti vedo senza filtri e senza il limite della mia morale. Ti darò non quello che mi chiedi, ma ciò che intimamente vuoi, e che spaventa ancora la tua mente.  Credi di amare la sicurezza e un uomo che ti stimi, ma vibri solo sull’orlo dell’abisso, quando precaria ti aggrappi a un ramo che speri che si spezzi. E cerchi un uomo che ti faccia espiare, che ti stordisca con parole amare,  e che di dolce ti dia ad assaggiare solo le gocce del suo sangue e il seme da succhiare.

Cerchi l’offesa, l’urto, lo spavento, le mani forti ed il dolore dentro. Cerchi chi sappia inginocchiarti davanti a sé, offrendoti il piacere nella coppa dell’umiliazione.

Cerchi chi ha scorto in te, dietro le ali e quello sguardo che rimanda a Dio, la coda, il vizio, e il fuoco che ti alberga in ventre. Cerchi la scossa, e un complice tremendo, che sia maestro nel darti sensazioni che la tua pelle a malapena regga, e che ti porti in alto e poi ti scaraventi in basso e prima dello schianto ti porti ancora su, fino alla vertigine  del più interdetto, inammissibile, proibito piacere.

Cerchi un uomo che osi governarti, che non si faccia scrupoli ad usarti, cerchi lussuria in atmosfere  e situazioni dannate, per quanto sanno dare il brivido che parte dalla schiena e sboccia  dentro l’inguine, portando un fiume in piena  nel mezzo delle anche, lì dove conservi l’anima,… l’unica che hai!.

 

 

Una goccia d’acqua giaceva in un punto magico della terra, nell’ineffabile confine fra Sud e Nord e fra Est e Ovest.

Invece di  trasformarsi in rigagnolo, poi in torrente, poi in fiume, scorrendo in una delle direzioni, restava lì, immobile, a tremare su se stessa per i venti che le giungevano da tutte e quattro le direzioni, mentre il sole, il sole non giungeva  mai fino a lei, da nessuno dei quattro punti cardinali; la goccia, nella sua indecisione era troppo distante da ognuno di quei punti, affinché da uno di essi potesse giungerle qualche raggio di sole.

 Un giorno un bambino dagli occhi lucidi e colmo di emozioni senza una meta, passò per quel punto magico in cui la goccia scontava il suo tempo d’indecisione.

Il bimbo parlò alla goccia, la esortò a farsi trasportare via da quel luogo posto al di quà di ogni dove. Ma la goccia non rispose. Il bambino allora le disse che sarebbe tornata  la mattina del giorno dopo per avere una risposta. Ma quando tornò , la goccia si era trasformata in un piccolissimo punto di ghiaccio, era come un minuscolo pianeta di solitudine, luccicante e assente, era come una minuscola lacrima cristallizzata, come un frammento di specchio  che ormai non catturava in sè alcuna espressione, nè tristezza nè felicità.

Anni dopo, su un altro confine, quello fra la notte e il giorno, giaceva uno sguardo, così profondo da poter ingoiare tutto ciò che finiva per incrociarne la forza d’attrazione,  e ogni cosa poteva diventare satellite intorno ad esso, ed ogni uomo poteva esserne divorato...se solo in quel luogo, sul confine fra giorno e notte, ci fosse stata qualche cosa....o almeno qualche uomo....

Un giorno però.... passò da lì un uomo....dagli occhi lucidi e con dentro ancora qualche emozione senza meta e un ricordo doloroso. Questo uomo, sentita tutta la potenza di questo sguardo, gli chiese di poterlo portare con sé, così che esso potesse posarsi sulle bellezze infinite del mondo, sui colori dei vari cieli della terra e sui vari tramonti, da quello di Venezia a quello cinese. Ma lo sguardo disse che non poteva muoversi da lì, che doveva decidere se guardare la notte, la luna, le stelle, l’interiorità delle cose, il volto della malinconia, o guardare verso il giorno, il sole,la gente che si sveglia e i girasoli che avevano fatto impazzire Van Gogh per la loro bellezza....

Intanto però lo sguardo non guardava da nessuna parte, era aperto, ma non rivolto a nulla. L’uomo dagli occhi lucidi gli disse che sarebbe ritornato il giorno dopo per una risposta. Il giorno dopo trovò soltanto un paio d’occhi eternamente chiusi sulla vita, occhi che non avrebbero visto più niente e che ancora niente avevano visto, nonostante fossero già tanto stanchi.

Molti anni dopo, su un altro confine, quello fra la luce e il buio, passò un vecchio dagli occhi lucidi un’emozione superstite e senza meta e due ricordi dolorosi.

Il vecchio scorse lì, sul filo del confine, un fiore, bellissimo, ma dall’aspetto debole, morente. Era di una specie sconosciuta, di un odore commovente e di una morbidezza imbarazzante e fragile, troppo fragile forse, per le mani rugose e dure del vecchio. Il fiore era così debole perché non si nutriva di luce, era indeciso se crescere in direzione della luce, dove però mani avide di bellezza avrebbero potuto sciuparlo, o adagiarsi nel buio, lì dove nessuno l’avrebbe visto , lì dove nessuno sguardo ne avrebbe abusato. Il vecchio aprì la bocca come per chiedere al fiore qualcosa....ma poi non disse niente e si avviò oltre...con in mano quel fiore, che aveva delicatamente sradicato da quel confine per piantarlo al centro del suo cuore, al centro della sua ultima emozione, che adesso aveva una meta.

 

 

 

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del mondo, sui colori dei vari cieli della terra e sui vari tramonti, da quello di Venezia a quello cinese. Ma lo sguardo disse che non poteva muoversi da lì, che doveva decidere se guardare la notte, la luna, le stelle, l’interiorità delle cose, il volto della malinconia, o guardare verso il giorno, il sole,la gente che si sveglia e i girasoli che avevano fatto impazzire Van Gogh per la loro bellezza....

Intanto però lo sguardo non guardava da nessuna parte, era aperto, ma non rivolto a nulla. L’uomo dagli occhi lucidi gli disse che sarebbe ritornato il giorno dopo per una risposta. Il giorno dopo trovò soltanto un paio d’occhi eternamente chiusi sulla vita, occhi che non avrebbero visto più niente e che ancora niente avevano visto, nonostante fossero già tanto stanchi.

Molti anni dopo, su un altro confine, quello fra la luce e il buio, passò un vecchio dagli occhi lucidi un’emozione superstite e senza meta e due ricordi dolorosi.

Il vecchio scorse lì, sul filo del confine, un fiore, bellissimo, ma dall’aspetto debole, morente. Era di una specie sconosciuta, di un odore commovente e di una morbidezza imbarazzante e fragile, troppo fragile forse, per le mani rugose e dure del vecchio. Il fiore era così debole perché non si nutriva di luce, era indeciso se crescere in direzione della luce, dove però mani avide di bellezza avrebbero potuto sciuparlo, o adagiarsi nel buio, lì dove nessuno l’avrebbe visto , lì dove nessuno sguardo ne avrebbe abusato. Il vecchio aprì la bocca come per chiedere al fiore qualcosa....ma poi non disse niente e si avviò oltre...con in mano quel fiore, che aveva delicatamente sradicato da quel confine per piantarlo al centro del suo cuore, al centro della sua ultima emozione, che adesso aveva una meta.

 

 

 

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