dalla sua opera " Forse questo buio"
Una fiamma silenziosa
Fuori le perle argentee della pioggiaposate sui rami della betulla io posseggo un quadrato modesto di cielo opaco vorrei stare su una nuda collina la pelle secca del viso bagnata dall’acqua battente con un sorriso appena accennato come tenera luce della mia anima
Sotto il cielo ghiacciato dell’inverno non sono in grado di dire quanti anni sono passati ma sono certo che una fiamma silenziosa ha bruciato pensieri e cose ha bruciato quasi tutto ha distrutto le retrovie
Il profumo della pioggiache cade lenta, tenace, silenziosa che abbevera le ultime rose vive nell’inverno. Il colore della pioggia che lucida la lava della città mette a nudo il pineto dei pensieri o forse solo dei sentimenti. Il fantasma del vento che non fa dimenticare le pene le agita come fiori in attesa di mattini e sere sempre meno veri. Vorrei parlarti di pianure con grande tenerezza vorrei parlarti del cuore agitato dalle onde del sangue dei vecchi desideri.
Ho perdurato nella mischianegli occhi nuvole o macchie d’eternità dalla bocca sfuggono parole senza senso, molte volte si è levato il sole su questa muta sofferenza ogni volta ho usato parole dure contro il grembo sterile del dubbio ho passato volutamente gli stretti sono andato periodicamente dall’altra parte per vedere la vita, ho solo riportato saggi pensieri sulla morte ho visto il tuo corpo di neve dissolversi nel meriggio a caso non ho disegnato alberi genealogici né sognato dinastie, i rami neri in questa dura stagione sono stati solo percorsi muti del nostro perderci vano. Molte volte il sole è morto.
Io so cos’è la tenerezzail segreto di un testo dimenticato che riappare, fresco, vibrante non c’entra la nostalgia la tenerezza mi aiuta a non parlare solo sentire come il ricordo impressionante della tua voce delle tue mani. Io so che ogni giorno è una freccia che sale l’aria diretta ad un bersaglio che non c’è, poi ricade. Io so che l’ansia non muore sorella magra, con occhi chiari della speranza.
Ah! Le fragili giuntureche connettono l’essere e il divenire mentre mi stancano gli sprechi dell’apparenza. Si, la tua voce ha registri inediti Come venature di ricordi carnali in bilico febbrilmente tra orgoglio e pietà. L’aria d’autunno è venata di echi percorsa da una luce che piega erbe e fumi poi precipita in piogge che odorano d’eternità. Ah! Le mie corse a perdifiato per le pendici del cuore, lungo i filari infelici dell’inappartenenza
1 Se il nostro ragionamento dovesse morire, cadrebbero le pareti della nostra vita (certo uno dei luoghi più strani del mondo) per cui a volte mi chiedo se non devo fin d’ora dare l’allarme, alzare almeno la mano dell’inquietudine. Ma guardando quelle facce non mi sfuggirà una parola. Se ci penso ho davanti a me migliaia di pagine sconosciute non conosco i particolari della mia anima
2 quest’afa subdola che mi costringe a forzati ozi e a squarci di ragionamenti bozze di parole sudate e pungenti come gomene lanciate per l’attracco sopra un mare blu profondo
un disgusto sottile nella tensione che s’allenta forse paura
mi porto inutilmente frasi lungo le strade qualcosa accade di nuovo mentre tutto si smarrisce e io sto seduto al limitare di un bosco, con l’anima fiacca turbata da un fruscio tenera e brancolante
3 Al di là del confine dove il tempo rallenta ricordo e desiderio una cosa importante che emerge, mentre le altre cose arretrano sempre più mute e morte sgretolate dal mio sguardo. Nessun inserviente viene ad accendere lumi (la casualità dei nostri rari riposi malinconici eppure risoluti)
4 Tutta la vita mi appare remota divento sempre più leggero e più chiuso mi resta solo un tono d’indulgenza nelle parole: sotto c’è uno spazio vuoto. Una sofferenza asciutta di fronte alla velocità della vita che impedisce di ascoltare le voci
5 L a fuga verso il futuro unica speranza metodologica numeri immaginari della mia matematica rudimentale la fuga è un sentimento un cielo azzurro pieno di nuvole percorso di salvezza, improvviso viaggio solitario verso altri momenti, altre voci. L’estraneità al presente è la molla.
6 Non so se adesso ogni altra parola è superflua, sono ancora vivo ma il fenomeno non interessa le scienze naturali Dovresti portarmi una lampada ho scritto fino ad ora, poi ho alzato adagio lo sguardo: mi interrompo e mormoro “scommetto”.
7 L’acqua è arrivata con la notte mentre sull’oscura riva indugia pigramente il calore del giorno, il mio. Emergono facce sconosciute la sensazione d’essere stato diverso. Un oscuro taglio sanguinante indugia sotto la pioggia arriva la stanchezza come l’acqua di notte emergono sensazioni diverse. In questo momento ognuno se ne va per conto suo senza aggiungere altro. Un corpo pigro, molle e greve non basta più a trovare alleati. Un bagliore s’agita confusamente nel buio, soffia anche un vento violento.
Non serve la mia ostinazionenel mantenere il segreto resta il fatto familiare da me solo conosciuto che s’annida tra la partenza degli ospiti e il corrompersi della situazione
le schegge dell’io per casa negli scaffali prove di persuasione questa ininterrotta meditazione resa sopportabile dalla stanchezza
una fuga alta e stretta da un giorno all’altro senza la sosta di un abbraccio
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Pasqua
Ancora il buio, la pioggia qualche voce scriteriata all’uscita dal bar il sepolcro sembra irremovibile in attesa che l’alba trattenga il mistero ma cancelli l’oscurità. Da domani i corpi dei morti saranno tesi le ossa disordinate percorse dalla febbre della speranza Da queste tenebre dure, definitive stanno per irrompere nuovi cieli nuove terre, non ci sono più relitti.
sotto le foglie d’inverno le primule di cera segnano il bosco austero: nel cielo i falchi girano girano, come se rispondessero con calma come se si infiltrassero nel mio passato
l’oscurità ammanta i fondali dello spirito, come una soglia uno spiraglio che mi permette d’inoltrarmi la terra è informe e vuota io sento parole che mi lasciano sbalordito
ho certe domande sull’universo ma quelle più dure sono su di me, sulle persone incontrate, e temo il lupo che balzi da un mucchio di foglie per magiare il mio cuore
tu lascia per un attimo i grandi dolori, e dalle labbra umide d’insolita luce prova a profanare brandelli di giorni, ridicolizzando il futuro
ribellati alla tirannia della notte gridando il gelo dell’assenza irridendo alla sconfitta con occhi asciutti e rosse vene
non annegare nell’alcool i progetti di volo i mille ritorni a pochi attimi di gioia, allora piovuti dal nulla o forse regalati dal Dio sconosciuto
guarda il sasso che giace sperduto sotto il cristallo acuto dell’acqua ascolta i villaggi defunti ove sillabano i morti, o forse solo guardano tu sei capace di questo racconto d’inverno
ASPETTO
aspetto non so che cosa alla catena della sera fatta di promesse a mezza voce col fiato caldo del pianto aspetto senza vento il viaggio del fiume nella dura gola del mondo fra rive d’erbe schiacciate dalla neve, il viaggio lieve prima di perdersi in altro fiume aspetto in preghiera nella notte intirizzita nuovi cieli e nubi e uccelli soprattutto nuovi alberi per ricordare le tue foglie le tue voglie tenere e fiammeggianti
peripezie di rocce terre aride ecco merletti nel sole e nuvole su questo bisogno di convertirsi
correndo siamo saliti fino a raggiungere l’altipiano ansiosi di sciogliere la gonfia aria in pugno in una scelta consapevole
ho creduto in tutte le comunicazioni visitando città di pietra sognando acque azzurre nell’attesa che tu venissi dolcemente
La carica visionaria circuito stellare nostalgia dei luoghi la ricerca vana dell’elemento degli elementi
i vostri sogni algebrici mi lasciano indifferente, io ho capelli d’anguille e occhi d’alabastro: pullulo di gente
anche i fiumi al mattino vengono svegliati dalle voci nel caleidoscopio dell’aria l’acqua da grigia si fa argentea come percorsa da brividi
Kyrie Eleison rami spogli, bisogni cammino come in sogno so che esiste una speranza infinita ma non per me
Si spezza ogni trama di compatibilità se non d’armonia si sciolgono a tratti certi nodi d’impotenza, non a vedere, a sentire, ma a capire, e poi a dire
elementi corali e individuali del desiderio ma comunanza di stagione poi gli altri corrono si disperdono nel vento a me resta il silenzio pacato della domenica il silenzio che è il freddo il silenzio che è il vuoto
vagabondando tra le rovine di altri poemi raccolgo frammenti senza tregua (un filo, un progetto) perché basta un niente (ma quale?) per spalancare l’abisso temporale sulle cose. Attendo l’ora della riconoscibilità, attendo una momentanea salvezza da ciò che ho perduto
QUESTE IMMAGINI
queste immagini velate di tenerezza su strade appena primaverili nelle pieghe quest’ansia di sapermi vivo
al tavolo del bar l’oblio, come un libro arrotolato, un filo di vento forse di mare o solo il filo di un aquilone davanti all’ombra degli occhi
pista di sabbia che il tempo logora l’obolo ha un Dio coincidente l’olifante il sole distante i pali desolati di un mattino neutro
solo il viaggio è vero falso il percorso e il tempo, vere le ore, non le stagioni, le ombre i fiumi gorgoglianti in gola le rive umide e incerte il silenzio, voce della storia interiore la sorgente del cuore
ma, forse, sono vere anche le fiabe dei capelli la passione che trema nella voce l’incancellabile memoria
la terra è avara di gesti ma dal pozzo di casa salgono parole e vento preghiere selvatiche, dubbi
alzo gli occhi nella sera non vedo il confine mobile
ora sono ispirato da un risentimento antico (è per questo che stringo le mandibole) navighiamo verso le rive dell’inganno nulla è integro apparenze e ricordo sono contigui siamo nel teatrino del tempo estetico risuonano in noi le voci di coloro che sono ammutoliti telegrafica è la verità le parole sono depositi di rapporti cosmici sono il nostro destino
questa amara speranza che s’interroga si smarrisce ma resta fedele alla sua incerta chiarezza nel belato del freddo oltre il sigillo delle apparenze
si sposta il limite i livelli più alti li raggiunge l’intuizione, avanzando allo scoperto mi sfugge sempre di più la totalità e, assurdamente, non ne sono spaventato
Coloro che scomparvero chiudendo le persiane della nostalgia non hanno camminato tanto sono spazi e penombre, parole accenti di parole dette e ridette nei magici pomeriggi estivi d’una struggente vitalità.
Anni inquieti, voglia di smarrimento e resurrezione, esperienze private mai credute punto unico di fuga eppure così definitive, irrinunciabili. Dalla luce all’ombra il passo è veloce forse incomprensibile gira la pagina di una storia segreta Il magmatico assemblarsi/dissolversi di tante voci, tante mani, tanti sguardi in un percorso ininterrotto dall’eternità all’origine la percussiva partenza, suggestiva degli scomparsi, affonda nel mio corpo nel mio tempo, nel ritmo del mio respiro, ricordandomi il deserto che non c’è.
Sul far della sera affiorano confessioni brucianti, molte domande attraversano il romanzo, seducono con l’incanto duro e tagliente delle voci, generano il bisogno di scambiare il respiro scendendo giù lungo il cielo.
Le sillabe nella penombra superano l’accaduto inchiodano il tempo alle sue responsabilità
Quale lingua vibratile e duttile potrà descrivere gli addii, seduta contro un fondo d’ombra, la fuga dell’aquilone dalla cordicella spezzata, l’impercettibile fermarsi del tuo impercettibile respiro (mentre la carne ottusa grida della perdita). L’alone dei significati è visibile, ma è un alone.
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Umbria segreta
Sempre più spesso l’infimo mi fa intravedere le grandi verità in questa quotidiana esplorazione dell’invisibile, segreto e mutevole. Le voci sono polverose non sanno spiegare la storia dura, rettilinea, la crudeltà della luce, l’estraneità divenuta metafisica. Neppure il cielo è libero velato com’è di nostalgia nutrito di orari ferroviari, la coscienza di vivere dentro. Attorno non ho oggetti ma rivelazioni, l’annaffiatoio pieno a metà, metafore sontuose senza possibilità di fuga. Il tenue vento della poesia può nascere dalla desolazione, voce piena di crepe frantumi sanguinanti.
Grotte di Frasassi
poi di colpo ci troviamo abbandonati e cadiamo nella malinconia poi la veggenza generata dal dolore l’anima fermenta le idee si ricomincia a sperare
mi scopro pensare a che serve portare frammenti di luce nella grande ombra agitata dell’oceano: finché ancora una volta mi ricordo che serve a me
Todi
le cose logore sopravvissute antiche la triste forza del tempo il ritmo del remo esitazioni pentimenti luce sparsa e mutevole non c’è più niente né passato né futuro la malinconia della tenerezza l’immaginazione visionaria le separazioni terribili la catena di rapporti gabbiani volati fuggiti la folla confusa dei pensieri dei desideri delle inquietudini la collera che sceglie le scorciatoie la voce pura lontana perduta il caffè la penna l’irrevocabilità dell’assenza i libri, i libri il dialogo inesorabile con me stesso gli ingorghi gli impegni gli obblighi i figli, ragione del cuore gli occhi la voce smarrita.
Todi.
gli ulivi sparuti e forti movimenti umani cupi e trasparenti con ai piedi rocce silenziose
una istantanea di luoghi che non rivedrò più: il cancello aperto su un prato abbandonato lungo la costa di un monte abbandonato. Il cancello aperto sulla solitudine del destino, sul tempo noioso e inutile, certo straniero
questo restauro del 1611 menzogna e polvere la celebrità, malattia mortale rapida sepoltura d’oblio
l’alone del sacro non salva il fuoco degli animi, non ha fiamme spinate e scriccanti, ha ruggine e muffa non trattiene quasi mai l’irrealtà del sogno solo vagamente la speranza esclusivamente l’abbandono
il cancello aperto sulla menzogna del tempo sugli ulivi umani piedi istantanei costa abbandonata
il cancello aperto sul celebre restauro da restaurare sulla malattia dell’oblio l’alone ruggine degli anni
il cancello spalancato sul vuoto sparuto e forte su destino abbandonato lungo la costa del tempo
il cancello che mi fa entrare a ciò che salva, al Dio che non capisco
Todi
dove le lampade non possono, illusorie e inconsistenti, dove i gesti sono contrazioni muscolari i monti sono parole le nuvole voci, non c’è una verità sola
c’è la febbre e il sonno, l’inconscio il sogno, le voci perdute
c’è la notte la camera il ridicolo farfugliare degli oracoli, l’aria fredda di gennaio iniziato, rigata di voci perdute
Todi
C’è qualcosa di strano in tutto questo è come un segnale un grido lontano che solo io so percepire, e dal quale non ho la forza di fuggire. I morti, quelli veri, non nutrono la speranza dei vivi né compaiono in sogno per spiegare il filo logico del quotidiano sterminio. La sabbia di dicembre, più muta che mai il ventre del mare più pieno/vuoto che mai i tuoi occhi più chiari che mai una vela trasparente all’orizzonte. I vetri sono muti dopo il tempo della cena mentre indugia il camino Anche se non trema il vento fuori corre a perdifiato, ma temo si perda per strada. Mi tolgo, allora, quest’abito triste, e mi corico mentre tutto diventa memoria. C’è qualcosa di strano in tutto questo, un grido lontano che solo io
Narni
la cosa più sconvolgente, dopo tanto tempo è che non è mai cessato d’essere un desiderio, per diventare un ricordo certo, adesso tutto è più difficile, m’affatico nel quotidiano per non pensare, per non contare i giorni. devo avere molta pazienza: chilometri e chilometri di spiagge non si sfogliano come un’immagine magari distrattamente la mia certezza di non dovermi voltare indietro di dover solo camminare, misurando passi parole, un piede davanti all’altro avvezzo al dolore, chiuso in colori sfumati una lettera in mano
Narni
Poi i ricordi si fanno confusi, forse rari, ma un giorno un’emozione non prevedibile mi restituisce movimenti e parole, addirittura la memoria terribile dei suoni così accetto il rischio, m’abbandono all’imprevedibile – quel tempo, quello spazio – in questo fragile tempo in questo angusto spazio. Un viaggio duro e impercettibile non importa passi scolpiti nel silenzio dei rumori nella solitudine estrema dei molteplici rapporti. Ostaggio del caso, dopo il dolore urlato non sono più capace di disappunto. Covare per anni tenere in mano le chiavi, pregustandone il potere, la marea nasconde, cancella segni non voci.
Narni
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GLI OCCHI DEI BAMBINI, I TUOI
Alla fine vorrei dormire in pace nel cimitero di Montevecchio davanti al fiume e ai dolci monti che ho conosciuto
Vorrei attendervi lì quando verrete di tanto in tanto, a portarmi un fiore e a dire una preghiera per me al Cristo della misericordia che ha provato il dolore e la morte
Vorrei fingere di essere tranquillo di non volervi disturbare di non aspettarvi con ansia: ma non ne sono capace oggi e non lo sarò domani; tranquilla sarà solo la terra immobile sopra di me, ma la mia anima sarà in giro per i boschi come capriolo, cinghiale, volpe, scoiattolo. Lascerò tracce lievi, spesso incomprensibili, come la poesia.
tu sei nel mio paese, io nel tuo. Il percorso doppiato contrassegna il nostro operare: un ripiegarsi CEES NOOTEBOOM
Spazi di luceforse sentiericantano, senza misure come sabbia tra le cose anche l’eco di parole passate antifone, pensieri.
quanti occhi mi scrutano guardano fuori di me dentro di me a divinare il passato mentre temo il futuro d’ombre tra i ventagli del giorno
non ho perduto le lettere, le cartoline, le ho nascoste lungo un percorso doppiato col dubbio di non muovermi d’un passo, in questo scenario d’asfalto, solo uno scalpello per rigare il muro di luce e d’ombra, oltre questa casa senza porte e finestre ricca di silenzi
il rischio della vita rosso sbiadito dal brusio delle idee, o forse solo delle parole che fanno da sottofondo all’alto pianto del corno inglese ( non torno a casa ci sono sempre rimasto in attesa del singhiozzo dell’evento)
al cancello vuoto parola e mondo il ragno che tesse il quotidiano umido di rugiada nel primo mattino poi arido nel sole che prepara semi e semi sugli alberi della speranza desideri non ancora accatastati solo bisbigli
eppure in questa quiete sento bussare ( avevo creduto al fruscio dei remi sull’acqua) passi leggeri di bambini nel cortile: sto fermo perché non si rompa qualcosa, forse sperando di non sentire (ma avanza la ruggine della nostalgia)
rondini con ali trasparenti solcano il cielo inginocchiato senza il cruccio del perché, rigano i rumori cosmici col coltello degli stridi: non sanno del nostro silenzio tumultuoso, dei nostri occhi doppi, delle nostre orecchie a serbatoio
ho smarrito sogni e altri frammenti preziosi forse sul sedile di un’auto forse in un ufficio squallido di tribunale, nel sorriso muto della logica corrente, ma le frasi sanno di bruciato di sguardi persi nell’aria dolce dell’estate.
Sotto la veranda cieca l’inverno soffia lento le luci diventano sussurri lontani ammiccamenti
Prime a morire sono state le ombre mentre le vacche bianche sul pendio tirano a ruminare senza angoscia.
Non so se ci siano posti dimenticati da Dio, certo ci sono sogni sogni miei soli nel tramonto vicini all’acqua o forse sott’acqua come fondali.
Cerco ricette per la memoria questa mia interna mormorazione cheta questa instancabile macchina per vaste malinconie, questa riproposizione che, sola, ha come risposta l’abbandono
il sole che scompare, pian piano dietro le nuvole invernali assidue come spessi vetri come malattie lunghe da curare la memoria, ah! la memoria, scende al pontile, guarda l’acqua s’incanta al dondolio di una barca di una corda mentre il silenzio è teso racchiude voci mute, occhi d’estate, quiete mattine. venti anni fa, come oggi, piangevo
Un ascolto impercettibile, quasi sordo attento a spente sonorità la tua voce che giunge attraverso lo spazio chiuso e opaco di una memoria esclusiva e segreta, solo mia. La segreta magia di questa corsa di questa sera rapida che copre un’attesa dolorosa, svela l’inquietante contiguità del passato e della morte. Una linea pesante e inesistente tra un prima e un dopo.
Bisogno di verità e di testimonianza nella chiusa sera di cadaveri freschi, sera di contatti, non di evocazioni. Sguardi dolci, penetranti, amari, straniti e beata nebbia che dissolve distanze. Forse il buio mi custodisce, mentre mi difende l’indifferenza, ma chi è il padrone del buio? Vorrei scrivere un dolce manifesto di fede contro gli imbrogli di ogni morte.
questa tua figura fragile che mi tiene sospeso quasi spiando i millimetri della tua crescita umana, e questi occhi sognanti, apparentemente distratti ma con profondi dirupi in cui mi sporgo a guardare con stupore, a volte con paura. questa voce decisa, roca gridata, entusiasta, triste che mi ha fatto ridere in tutti questi anni, fino alle lacrime, che mi fa sentire il futuro, quando le mie appassionate arringhe taceranno, mute. in questo inverno scontroso fatto di vento cupo, di fatica, la mia notte piovigginosa ha semi grazie a te.
E penso a me e ai miei compagni, al rotto conversare con quelle anime in pena di una vita che quaglia poco, al perdersi del loro brulicare di pensieri in cerca di un polo MARIO LUZI, “MA DOVE”
Come un viaggiatore notturno sul treno che lo porta lungo un percorso invisibile ignorando la distanza dalla meta non conosco i nomi di questo mondo ignoto so solo di frammenti
La luce d’agosto finito sbiadisce il paesaggio brucia le ombre mentre invento parole per parlare dell’assenza
Questi boschi hanno valore per ciò che credo di amare qui mentre le parole s’infrangono sull’arida spiaggia della pagina
Tormentato dalla fame non dissimulando la mia età elenco i princìpi che governano la natura m’assale il fascino sottile di iperboli incontrollate mentre la memoria è luogo miracoloso di volti che non si lasciano controllare
Solo il falco è custode dei miei misteri le voci, il vento, il pianto il falco alto sul delirio della terra mentre soffia il silenzio sulla memoria incancrenita dalla solitudine l’aria fine e morta.
Il cielo è terso, ma gonfio d’autunno, come l’alito del tempo che muore sulle rive della mia vita troppo breve, volatile.
Il litorale è chiaro, solenne ancora tiepida la spiaggia, ma la linea della battigia linea di confine è spaccata da un grido
un pensiero fisso, in alto trattenuto sopra il tempo del disordine sopra il fiume di giorni misteriosi sopra la parola incancrenita dalla solitudine
vedo lontano stendardi di polvere ma forse gli occhi sono ossidati sotto i corti capelli di sogno davanti al palcoscenico della vita oscura
vorrei andarmene, ma non so dove ci sono spiragli come mi conferma il cigolio della porta con il vento vorrei restare, ignorando l’odore delle abitudini
attorno è l’esilio dei libri saggezza rattrappita e impotente nulla che faccia piangere. sono solo un pensiero, in alto trattenuto.
la memoria, questa invincibile, discreta compagna porta via le nubi e il tempo soffia nel giorno sorvolando il silenzio che si raggruma sull’affanno della città giace mansueta e ardente sul tavolo suscita una fiamma nel cervello assonnato per bruciare questo estenuante pomeriggio popolato di geniali idee monche
“In foraminibus petrae, in caverna maceriae” (1) stanno particelle volatili di verità per me affaticato lungo il sentiero infinito della speranza senza i passeri dell’estate fuggiti altrove, con il mio cuore infreddolito, il passato che bisbiglia nel vento gelato. L’intimità della stanza aiuta e protegge provoca la riflessione balbuziente la pretesa di circoscrivere l’infinito spiegando questo o quel mistero battente crepitio nell’oscurità. Il pensiero del Dio lontano è un pugnale nel fianco “lancea latus eius apéruit, et continuo exivit sanguis et aqua” (2)
(1) Cant. 2,14 (2) Jo. 19,34
ripongo la mia speranza nel cielo non nella disponibile, mortale terra a volte, ed è già notte, cerco insistentemente schiacciato ai vetri verso il buio in cammino dentro, la lampada modesta della nostra fierezza e della nostra chiarità
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