Cialtron Quelsal

"Se, alla fin, non hai goduto
del mio scrivere scalcagno,
pensa che pure uno sputo
muove l'acqua dello stagno."

 

 

Vedi, nel grembo d'un lontano dio

RASPERICK

 
HAIKU  CLASSICI HAIKU MONOLETTERALI

PROFETA IN PATRIA

 

 

 

 

 

PROFETA IN PATRIA

 

Non solo versi o prose ritmate,

vi porgo le mie idee classificate,

le mie paturnie, le mie sceneggiate

e tante – troppe - immagini stipate

fra verbi, punti, avverbi e congiunzioni.

Vi somministro torride emozioni

o di coglionamenti ahimé vi impiastro!

Insomma, sto sfogliando un libromastro

ch’io solo, non so come, so sfogliare…

Che vi rimane? Salso odor di mare

e pietre che a leccarle san di sole.

Ma via, contenti, son solo parole,

ciance perse nel vento e tanto basta!

Vado, fra un pò mi buttano la pasta.

 

 

 

 

 

T'adagio sopra l'ali dei gabbiani,

ma tu mi sfuggi, cruda: "Poi, domani...."

Ti dedico poesie, novelle e brani.

Vuoi che li legga? Niente: "Poi, domani..."

Ti cullo fra le sete dei divani,

ma tu mi tieni a bada: "Poi, domani..."

Vorrei sfiorare i tuoi bei seni ispani

tu mi rintuzzi con il: "Poi, domani..."

Son disperato, faccio sogni strani

e tu m'ignori con quel: "Poi, domani..."

Vuoi che t'uccida, dunque, che ti sbrani?!

Tu, come niente fosse: "Poi, domani..."

Ma all'improvviso, sogno o sono desto?,

t'abbandoni e comandi: "Facciam presto."

 

 

Oh, bada: chi fa bene per paura

non vale niente ed assai poco dura.

E sappi che il parlar senza pensare

è come lo sparar senza mirare.

Solo il denaro che vien risparmiato,

non una, ma due volte è guadagnato.

Se agisci con saggezza e con pazienza

a spese altrui raccogli conoscenza.

Chi monta dei cavalli tristi e buoni,

ricordi di spronar con gli speroni

Meglio è patir le insidie d'un nemico

piuttosto che l'invidia di un amico.

Non c'è nel mondo cosa al par peggiore

che in membra vecchie pizzicor d'amore.

 

Sesso sovrano semina sussurri

su serici sentieri serpeggianti

scolpisce seni sodi scoppiettanti

sazio si stende su sofà silenti

sale superbo scale scricchiolanti

scovando sogni stinti, segni spenti

scende sconfitto, senza sentimenti

stupito solfeggiando sibilanti

suoni sinuosi, salmi salmodianti

sardonici sonetti saltellanti.

 

Grandi parole, piccoli pensieri,

sedie di paglia scrocchiano i sederi,

parliamo solamente per parlare,

solo il silenzio resta ad ascoltare.

 

 

 

Rose di seta porgi con le mani

a quei passanti rapidi e ansimanti

fra le botteghe e i treni, pochi istanti

di tregua per soldati e capitani.

Da sconosciuti prendi caramelle,

che poi disciogli nella bocca calda,

sterile grembo di una stirpe salda

nutrita dai silenzi delle stelle.

Conti monete che non puoi portare

a un banco che rilascia ricevuta,

produci merce che non vien ceduta,

solo prestata, vuoto a riciclare.

Lo maledici e il mondo si dà pace,

gli cedi il freddo del tuo manichino,

che è più lontano quanto più è vicino,

che con lo sguardo che non guarda tace.

 

 

Con le parole, quando vuoi, ti scopri

ed anche ti nascondi, al tempo stesso.

Con le parole fai l'arrosto e il lesso,

batti la fiacca quanto più t'adopri.

Parole grasse e secche, lievi e grevi,

che danno da campare e danno stenti,

rimbombano nel capo e non le senti,

ti fan digiuno mentre mangi e bevi.

"Alorap" è "parola" all'incontrario:

vivono insieme, l'una dentro l'altra.

Perché la vita è sciocca quanto è scaltra,

mentre va in scena, tira giù il sipario.

 

Cala la notte, come le mutande

d'una fringuella facile d'umore,

cala come il solerte squartatore

cala la lama e le budella spande.

La notte cala... ma chi se ne cale

se non i piedipiatti ed i guardiani?!

Cala la notte sopra ignavi umani,

cala occhieggiando per dirute scale.

Mi chiederete perché tutto questo

cianciare senza scopo e contenuto.

Fors'avete ragione, vi saluto

e faccio un passo indietro, un passo mesto.

Volevo solo dire che la notte......

ma vedo che nessuno se ne fotte!

 

 

Il giorno è poco, serve per campare.

La vita esplode quando si fa notte!

Poi, la tenebra sfuma in un sussurro...

Io m'alzo spento e mangio pane e burro.

 

 

 

Amore al tossicchiar d'una ciabatta

senza promesse di frutti proibiti

qualche festività con i canditi

folli avventure per un can che gratta.

Ricordi al sugo di naftalina

serbati in fondo al vecchio portafoglio

vicino al boccheggiar d'un quadrifoglio

ch'ella colse con ansia, una mattina.

Abito della festa, profumato,

capelli lustri a onor della famiglia

ch'offre liquori, pasticcini e figlia...

Non bello, ma distinto e reputato.

Sulla bilancia: qui, la promozione.

Sull'altro piatto tutto da eguagliare:

un nonno maresciallo e, a quanto pare,

un cugino imbattibile a scopone.

Niente debiti dopo il ventisette!

Ecco la campionessa del rammendo!

Io do... cosa mi date? Bene, prendo.

Un patto fra gorgògli d'anisette.

 

Cosa vuoi che ti dica "Trullallà"?

Oppure vuoi che faccia piroette?

O forse "Dolce dama, mi permette..."?

Ma cosa? Tu, neh, dici.... Mah chissà.

Conosco un navigante che non torna,

un sarto che non cuce più un vestito,

un saltimbanco mìsero e imbolsito,

una puttana vecchia che s'adorna.

Non te ne frega niente? Cosa importa,

perchè quella che conta è la poesia,

le rime sono lampi di magìa,

il verso scorre ed apre la tua porta.

Ora faccio sul serio: cuore? Amore!

Nemico? Amico! T'odio. Simpatia....

Ora ti dico il vero. O la bugìa.

Son cinico o m'inebrio di stupore!

Trovi scolpito sopra la mia soglia:

"La strada dell'eccesso va al palazzo

della saggezza". Sono savio e pazzo,

mi so privare e brucio dalla voglia.

Sto concludendo, pochi versi ancora,

non so, potrei riempirli di parole

o di silenzi rumorosi. Vuole

dirti la penna.... nulla, mia signora.

 

 

Gianromolo Sorcagno, patrizio di Peluria,

ama la mortadella, la pàprika e l'anguria,

ama le cameriere castane di capelli,

ama i libri di Busi e i film di Monicelli.

Gianromolo Sorcagno patrizio di Peluria:

è questa la sua vita stremata di lussuria.

 

 

 

Facciamo com'io fussi un cavaliero

e che tu fussi virgine a le rocce,

desnudata de' panni e co' le pocce

e co' le gratie tue sanza mistero,

renserrata et avvinta de catene...

Il monstro! Ecco che sguizza da lo flutto,

che già s'avventa, ma lo infilzo tutto

a la mia spada! E che tu me voi bene.

 

 

Il mondo che ti sveglia ogni mattino

per darti un soldo nella mano tesa,

cammina per le strade a gamba stesa

più s’allontana, quanto più è vicino.

 

 

Noi vivemmo felici. Io ti permisi

di rammendar calzini il lunedì.

Tu non dicesti nulla quando misi

quella cravatta a righe rosse e gialle.

Non dissi niente quando il generale

volle pescar nella tua scollatura

la sua dentiera e tu non protestasti

quando mangiai cipolle sul comò.

Cospargesti i miei occhiali con la pece

e non osai di profferir parola.

Anche quando fuggisti con Gondrano

non vi fu screzio per il nostro amore.

Eppure il dramma esplose con violenza,

tanto che m'impiccai con una stringa,

quando (ricordi, cruda?!) non volesti

ch'io ti mettessi a mollo nel vetriolo.

 

 

Sono spiacente, chiudo l'uscio e vado,

vi lascio il mio cappello grigio floscio,

non dico nulla, che sennò v'angoscio,

se non mi salutate, non ci bado.

Coprite quelle scritte sopra i muri.

Ah, per natale manderò gli auguri.

 

 

Non dite che non sono stato ai patti,

ho fatto quanto basta per campare.

E ora, arrivederci, ci ho da fare,

devo tornare dentro, là fra i matti.

La nave resta in secca senza il mare,

il vento asciuga il sangue nelle vene,

non arde il sole senza il kerosene...

Andate e non tornate, ci ho da fare.

 

Chi vuole, sappia: chiedo a questa vita

disinteresse allegro e contagioso,

un letto per godere un buon riposo

e la diritta via, che ho già smarrita.

 

 

E basta con i versi lacerati,

con rime marinate nel limone,

coi drammi a pranzo, a cena e a colazione,

col “meglio essere male accompagnati”.

Ci son modi diversi per parlare

al cuore della gente e alle budella

che reclamano amore e mortadella,

sirene e cozze putride di mare.

Basta: parola magica ed inane,

fine e principio, porta che si chiude

o che sta per aprirsi, che ti illude

e ti delude, se sei preda e cane.

Ho detto “basta”, ma mi son pentito.

Non vale dettar norme alla poesia.

La foglia é larga, stretta é già la via

che mena al dubbio stento e rinsecchito.

 

 

L’inutile pensiero é come il pane

che intingi dentro il sugo della vita.

Ti svuoti, e la giornata é già finita,

ti resta dentro un gracidìo di rane.

 

 

Ballate, il tempo è musica e la vita

son le parole, comiche o struggenti,

è meglio che la danza sia eseguita

con sensi svegli e ottenebrate menti.

Finito il ballo, tutti alla stazione

ad aspettare il treno della sera,

lì siete viaggiatori, non persone

e il tempo è una nojosa tiritera.

 

 

Avanti il tamburino, poi la truppa,

che marcia canticchiando all’obitorio,

credendo che sia invece il refettorio

caldo dei fumi dell’amata zuppa.

Marciano lieti verso triste sorte,

l’uno che fa fracasso coi bastoni,

l’altri che se ne vanno buoni buoni

ben imbrancati nelle aperte porte.

Vengono dietro con le salmerie

i carri traboccanti di puttane,

c’é qualche verità fra le sottane

ed i merletti delle biancherie.

Prima di dire ciao, fra gambe schiuse

si tuffa l’innocente fantaccino,

prende il piacere, poi va al suo destino

che non conosce, verso mete illuse.

Il tamburino batte il tempo, truce,

ed ogni colpo decima la truppa:

nell’aria aleggia grasso odor di zuppa,

pria tacciono i romori, poi la luce.

 

 

Contratterò due gocce d’allegria

da un ceffo che la spaccia sui cantoni,

una risata e fuori dai coglioni,

al braccio della zia Malinconia.

Ma poi, chi ve l’ha detto che la piva

é segno d’un umore terra terra?

Mi sento come un prence d’Inghilterra,

ma senza nave, fermo sulla riva.

Son ricco come un oste annacquatore,

però i quattrini già li ho sperperati.

Son libero d’andare per i prati,

turando bene il naso pel fetore.

Qui ci vuole una chiusa che ammonisca,

che lasci il segno sulla pelle dura

di quei mufloni tronfi sull’altura.

Ma non mi viene, meglio che finisca.

 

 

Faccio la notte a pezzi, poi la incarto

e la regalo a chi non la conosce,

a chi non vive le pacate angosce

confezionate da un crudele sarto,

che cuce carne e trine, che drappeggia

un broccato prezioso e una scorreggia.

 

 

La grande vulva rossa popolana

accoglie capitani e marinai

sull’orlo della sera, quando stai

di fronte al mare e all’isola lontana.

Volgi le spalle all’epopea carnale

che si consuma fra le mura tristi

di luce fioca. Mentre tu rovisti

nei sogni, la marea muggendo sale.

 

 

La strada non aspetta, si allontana

fra case e muri, in cerca d’occasioni,

é una bagascia arguta, una puttana

che gode soprattutto coi birboni.

Stende cenci di cielo, li nasconde,

cammina a testa bassa bofonchiando,

la strada é dove e come, cosa e quando,

se chiedi dove va, non ti risponde.

La strada é una ferita della terra,

che spinge armate pronte per la guerra.

 

 

Far poco o niente ed aspettar che venga

qualcuno a presentare l’ingiunzione,

dare una rimestata al minestrone,

l’aria distratta, non c’é “ma” che tenga.

Restare alla finestra e fare cenni

a chi cammina ancora a testa alta,

accatastar mattoni senza malta,

tenere come motto: “Vidi e venni”.

Contar le pecorelle e restar sveglio

per disegnare fole sul soffitto,

scrivere tutto ciò che non é scritto,

pensare solo al peggio e non al meglio.

Prendere un libro, non importa quale,

leggere le parole alla rinfusa,

riporlo nel cassetto e, a scena chiusa,

interpretar la comica finale.

 

 

Il verso spento non é più poesia,

é un bacio della zia malinconia.

 

 

 

Fra le navate d’una antica chiesa

perdere il senso dell’orientamento

e poi scovare una parola accesa

fra l’ombre cupe dell’ammonimento

che un preticello steccoluto e nero

scaraventa dal pulpito grifagno.

E infine ritrovare quel sentiero

da battere senz’ombra di compagno.

 

 

Frattaglie di racconti, versi astiosi,

morali raccattate, bozzettini,

passioni smozzicate, zuccherini,

pensieri che s’ammucchiano accidiosi.

C’é una piazza a Siviglia e una panchina

caramellata con le mattonelle,

passano altrove chierici e zitelle,

io me ne sto seduto a far manfrina.

La piazza é una ciambella, sto nel buco,

qua e là fiorisce il sole e me lo bruco.

 

 

Guardo il soffitto e cerco ispirazione,

un verso che racconti in qualche istante

una totale assenza di emozione,

la mente sgombra, l’anima esitante.

Gocciola nel silenzio della notte

un simulacro di pensiero liso,

resti di gioventù, parole rotte,

una risata stinta e ancora un viso

che non ricordo più, ma che vorrei

vagasse altrove che negli occhi miei.

 

 

Sai quando sento d'essere più solo?

Quando ripenso a ciò che non ti ho detto.

Ora mi rode l'ansia del mio letto

e mi tormenta l'uggia del lenzuolo.

 

 

Han fatto tutto, tutto é stato detto,

tutto stracotto, tutto masticato,

tutto spremuto, tutto distillato,

tutto stivato a secco o nel guazzetto.

Però il silenzio, quello é sempre nuovo,

dopo un singhiozzo, dopo una risata,

che se ne va da solo o in adunata,

che me lo cerco dentro e non lo trovo.

Nascono nel silenzio le parole

che fanno fresca l’acqua, caldo il sole.

 

 

Io cerco chi mi aiuta a ricordare.

Il tempo é mare, sbriciola gli scogli

della memoria, dopo, togli e togli,

rimane solo il vento a vaneggiare.

Era piccolo o grande, biondo o bruno

e gli occhi: chiari o scuri? Non ricordo.

Il tempo è vecchio, dispettoso e sordo

e non risponde a nulla ed a nessuno.

Io cerco chi mi dice cosa ha fatto,

cosa ha sognato, quando ha detto basta.

Il tempo è monte, tutti ci sovrasta,

da sole, cielo e nuvole è distratto.

Nascondo i miei ricordi in una tasca

d’un pantalone liso e stazzonato,

ma il tempo è ladro, non c’è alcun che nasca

che non ne venga spesso derubato.

Qui siamo in molti per testimoniare

ciascuno una parola, un fatto, un gesto,

così freghiamo il tempo disonesto

e ci aiutiamo a non dimenticare.

 

 

Non ritornar sull’ombre dei tuoi passi,

ci troveresti solo nudi sassi.

 

 

La sogliola limanda a quel paese

e il tordo sordo sardo li stordisce,

quelli che, come te (chi li capisce?!),

non vogliono tornare a fine mese.

Torna, sennò la fregola mi frega

e il cane nel canestro, ahimé, guaisce:

i tipi come te (chi li capisce?!),

pregano pur se fan la messa in piega!

Torna, sennò il notajo nota che manchi,

manco che senza te non si vivesse,

torna perché mi oblige la noblesse,

ritorna pur se rantoli ed arranchi.

Cala la tela sulla mala mela

che sopra il molo d’Imola hai immolato:

diamogli un morso a quel tòrsolo ingrato

e torna, sennò spengo la candela.

I tipi come te, se ci fai caso,

casa non hanno, casomai un casale.

Torna, sennò la torta mi va a male.

Non far torto alla torta, è sadomaso!

Torna! Una terna ghiotta d’occasioni

t’aspetta e pur ti spetta il nonno inane:

tiriamo, orsù, a campar, come campane

che in fosse fesse suonan fessi suoni.

Ma bada, se non torni, il tornio lascio

e lascio il liscio, perché mi sfinisce.

I tipi come te (chi li capisce?!)

mòndano il mondo o il mandano allo sfascio!

 

 

Linee vibranti d'anima e di luce,

unghie di drago temperate al fuoco...

Intridere di grande quel che è poco:

gesto sapiente, che all'idea conduce.

Intuizioni, soste, rapimenti.

Valve socchiuse, labbra di conchiglia

evanescente, mentre il mare impiglia

rivoleggiando sabbie ribollenti.

Ombre sensuali di corposi impasti,

nuvole di colori meditati,

esitanti ricordi e mille fiati

spesi sui monti, sulle pene e i fasti.

Il verso non può dire che un nonnulla,

ma è amico, come un viso di fanciulla.

 

 

La piccola lanterna sopra il colle

ondeggia mite, guida passi lenti,

finché la vedi chiara, dentro senti

il gorgoglìo del tempo che ribolle.

L’occhio del cielo si rivolge altrove

quando un artista varca le sue soglie,

solo si sente un crepitar di foglie

e il ridacchiar del vento che le muove.

 

 

Se voi vendete l’anima al mercato,

andate dritti dritti in paradiso

o giù all’inferno,ma con un sorriso

di grande marca, liscio profumato.

Se dividete tavola ed alcova

con la baldracca più desiderata,

vi guadagnate bene la giornata

e avete ogn’ora una coscienza nuova.

Ma guai se ricercate la morale

in fondo ad ogni storia o se vi date

al fervido rovello: rimediate

solo un'acciuga e pan quaresimale.

 

Quando la mano bianca ti buffetta

sopra la spalla, mentre guardi il sole

distante del tramonto, le parole

con cui l’accogli sono una pappetta

di fole squinternate, di rimpianti

decotti, di ricordi mai accaduti,

gli chiedi ancora tempo pei saluti...

Lei ti sorride, ma ti spinge avanti.

 

 

Viaggiare su un calesse senza ruote

comprare casse vuote e scarpe strette,

contare da diciotto a diciassette,

scrivere partiture senza note,

pesare il vento ed asciugar la pioggia,

spingere le montagne verso il mare,

parlar senza parole e ritornare

a riposarsi vuoti, sulla loggia.

 

 

Seduti intorno a un tavolo a parlare

solo di quello che ci piace dire,

il resto lo lasciamo lì a dormire

come baldracche vecchie al lupanare.

Sopra le frasi belle, grattatine

di cuore e di coscienza, quei tartufi

che fan capire che non siamo stufi,

stracotti dalle birbe e le manfrine.

Seduti ad aspettare che la notte

ci prenda per l’orecchio e ci conduca

ciascuno nel profondo della buca

dove mena i rimproveri e le botte.

Ma passa. Quando bussa il nuovo giorno,

ci ritroviamo a raccontarci balle

nuove di pacca, lucide farfalle

che sbarrano la strada del ritorno.

 

 

Senti, non voglio dir parole nuove,

ma vecchie tiritere mugugnanti,

rosari senza martiri né santi,

tristezza allegra che nel cuor si muove.

Ma tu non senti, non vuoi più parole,

vuoi dardi di cemento contro il sole.

 

 

Uguale a tutti gli altri, sei diverso

come i passi del tango che scandisce

l’intelligenza armonica e distratta

dal gocciolìo dei giorni nella latta,

che lontana nell’erba arruginisce

fra sole e pioggia, fango e vento perso.

 

 

In un giardino che sorride al sole

volteggiano parole cesellate,

antiche e nuove, favole e ballate

nate dal cuore di chi sogna e vuole

andare alle radici della vita. 

 

 

Non ve ne andate senza salutare,

lasciate una parola su un biglietto

o una foto un pò mossa o col berretto

sgrullate l’aria. Ma prima di andare

fate qualcosa, dateci un ricordo,

uno sbiadito segno del passaggio:

che sia della paura o del coraggio

non conta affatto per chi resta a bordo.

Mettete in tasca un conto stropicciato,

dateci l’illusione d’aver dato.

 

Allora, ve ne state un poco zitti?!

Con gli occhi freddi e con le mani in fondo

alla zuppa rovente, mentre il mondo

ozia lontano, coi capelli ritti.

E quindi date un motivetto ai passi,

per farli guazzettare nel sorbetto,

e poi strisciate truci fino al letto,

piagati da ricordi tutti sassi.

E state dietro i vetri, soddisfatti,

ad avvistare lepri fuggitive,

orgasmi astiosi persi sulle rive

di un fiume lungo cento metri esatti.

 

 

Un tavolo, una sedia, un lume acceso,

un foglio bianco che non sa che dire,

un silenzio di gesso, nudo e obeso,

una matita che non vuol dormire,

un odore di nulla, un’altra stanza

calma nell’ombra che sta appesa ai muri,

il fumo del tabacco fa una danza,

una finestra cieca per gli scuri,

un pensiero di gomma nel cervello,

quattro parole futili e graziose,

la goccia che rimbomba nel lavello,

il tempo preso ad elencare cose,

a contar morti, a stendere sudari,

ad inventar preghiere ed epitafi

per albanesi chiusi negli scafi

fatti per stare a galla sopra i mari.

 

 

 

Salmastre mani di costanti eredi,

corde impigliate fra formosi piedi,

dietro non odi, sopra neanche vedi,

salmastre ruote d'incostanti credi.

Gratta la neve gretta in grotte appese

sotto quel sole che rabbercia imprese

su ruvide salite non scoscese,

gotta ha l'abate, schiva maionese.

C'è un tempo per chi canta con la stizza

suoni setosi, putrida e rubizza

è l'illusione di chi scende in lizza

nell'acqua che muggisce, cola, schizza.

Sussurra il saggio armento che il pastore,

sotto la luna mandorlata, sotto

le stelle frammentate, conta l'ore

che mancano a sfornare il pane cotto.

 

 

Prendetevele tutte le parole,

lasciatemi gli avverbi, per favore.

Non chiederò nient’altro alle mie ore,

per dire agli altri tutto quanto c’é.

Sarò il padrone di una lingua nuova,

secca e tagliente, vanitosa e vana,

grulla come una grolla valdostana

o come una civetta sul comò.

 

A volte è saggio starsene un po’ zitti

con gli occhi pigri e con le zampe in fondo

alle tasche roventi, mentre il mondo

ozia lontano, coi capelli ritti.

E’ grullo dare ai passi un motivetto

per farli zompettare chissà dove,

per dopo accompagnarti fino al letto

con un ricordo liso e fuori piove.

E’ insano stare all’erta dietro i vetri

per avvistare lepri fuggitive,

meglio sentirsi persi sulle rive

di un fiume lungo esatti cento metri.

 

 

 

Napoli coi capelli sciolti in mare,

matrona illanguidita, che sta altrove

ad inseguire suggestioni nuove,

sopra la prora di navi corsare.

Guardiano d'ogni tempo, Pulcinella

cerca fra l'altre mille la sua stella.

 

 

Se non un ciuco, ma bensì un cavallo

avessi, di Beltade nel castallo

andrei, sordo a' richiami di Saggezza.

Direile "V'hamo". Lei, di me assai pezza,

concederebbe la sua ambita mano.

Ahimé, non ho un cavallo, ma un ronzano.

 

 

Se hai voglia di impazzire, a un cubo pensa

ch'abbia sei facce ed una al tempo stesso,

le cinque facce che non trovi adesso,

non le ritroverai manco in dispensa,

son tutte dietro quella faccia sola,

che t'occhia torva come una tagliola

(ma se t'agghiaccia, leggi pur "braciola").

 

 

Non so cosa cantare, bella gente,

perciò canto la penna e il calamaio.

Oggi, la penna è ottica, un bel guaio

se è afflitta da miopia, scrivi un bel niente.

E il calamaro? Resta quel mollusco

che te lo mangi fritto all'osteria

con seppie, gamberetti e compagnia,

ti sgorghi con un litro di lambrusco.

Ci resta la matita, la meschina,

ma attenti, può scoppiare, ci ha la mina.

 

Sei la mia danza, sei la villanella

che m'ubriaca d'aria e di sorrisi

teneri, solitari e condivisi,

gioielli scintillanti, che fan bella

la mano che mi tendi ad ogni istante,

come se fosse il primo, il più esultante.

 

Bimbi rognosi, sù, fate la nanna,

strilli e mazzate la balia vi molla,

per stare fermi vi spalma di colla,

se non dormite, son colpi di canna!

Fate la nanna, se vi riesce,

di pepe e ortiche è piena la culla,

non vi muovete, per un nonnulla

vi copre anche di lische di pesce.

Fate la nanna, bimbi rognosi

e cento, mille di questi riposi!

 

 

Tu, Santa Coralìa bianca di sale,

madre dei gorghi, sposa degli scogli,

reliquie di naufragi al litorale

col tuo manto di schiuma lieve togli

e scendi dalla roccia che è il tuo trono

a intrappolar nei lacci del maestrale

chi ci deride e chi ci vuole male,

chi vuole alzarsi, ma rimane prono.

 

Pane fragrante mordo le tue labbra

nell'angolo lontano muro amico

rubi fra i seni le mie mani grosse

l'odore é una cometa tempo antico.

Racconti libri letti storie stanche

camminan negli specchi lampi azzurri

le vetrine imbottite sonno e sogni

scendi per scale ombrate di sussurri.

Lampioni raggrumati vetro freddo

strisce di sole lucido sui passi

manichini di stoppa imbambolati

sassi e parole, solamente sassi.

 

 

O cacciavite mai nessun t'ha fatto

un'ode, una canzone, una poesiola.

Io, finalmente, sì. Se ti consola,

o cacciavite, non son savio o matto,

ma sono - l'hai capito - un mattacchione

che cerca sempre nuova ispirazione.

 

Cogliamo l'occasione di comprare

tre chili di busecche a metà prezzo.

Se non abbiamo i dindi, c'è pur mezzo

d'avere la busecche: sgraffignare

il borsellino al ciula zio Diomede,

quello che dei suoi beni mi fé erede.

Ah, se volete, c'è un'altra occasione:

di fare giusto 'sto mondo birbone.

 

Le margherite tacciono nei prati,

i rospi stan tranquilli negli stagni

e noi pontifichiamo stralunati

dall'alto delle tazze, dentro ai bagni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

HAIKU  CLASSICI

 

 

Prima di andare,

nel mio grembo che resta

poni il tuo fiore.

 

Narra la notte

risate inebriate         

di stelle e mare

 

Tempo e tempeste,      

ciò che l’amor ci diede

niente ci toglie

 

Freddo dovunque,

ma il cuore della neve

caldo è di pane.

 

Calma un'idea

fra le pieghe del manto

scosso dal vento.

 

Cade una goccia

Nella pioggia scrosciante

Ed io la sento.

 

Piedi di marmo

Ha il viandante perduto

Su strade ostili.

 

 

Tremila passi

Mancano alla tua casa

Ed è già notte.

 

 

 

 

 

HAIKU MONOLETTERALI

 

All’alba amica

alitano alisei

antichi adagi.

 

Bugie banali

burbero burocrate

beve beato.

 

Con commozione

ci copre calda carne,

cara compagna.

 

Danza discreto

dentro donne divine

dolce domani.

 

Eterna estate,

esilio edulcorato,

eremo eletto.

 

Fresca fontana,

festosa favoleggi

fluide frasi.

 

Gesti gentili

giocano giudiziosi

gentiluomini.

 

Immensi istanti

Illusioni  immutate

Ispiri inverno

 

Lustrate luci

Lampeggiano Lanterne

Laghi Lontani

 

Mille mattoni

Mancano muratore

Magione monca.

 

Non navigare

nella notte nebbiosa

Nere novelle

 

Sasso smarrito

scricchiola sotto suola

suoni stupiti.

 

 

 

RASPERICK

 

(versione nostrana dei limerick , ma più graffiante,

perché è tale la raspa nei confronti della lima)

 

In un baule un asino imbriago

cela la sua criniera color spago.

Poiché dei nodi sodi ci ha paura,

la mette a mollo dentro una tintura

per sei secondi e trentasette ore,

poi scopre che l’intruglio è ahimé incolore!

Il ciuco ciucco se ne meraviglia

e torna ad attaccarsi alla bottiglia.

 

 

Un carrarmato con la meningite

vuole donare molle e viti avite

ad un trattore agricolo, suo amico,

che incontra ogn’anno alla Sagra del Fico.

Ma quando le scartoccia, va a scoprire

che le molle son molli e, manco a dire,

che le viti lo evitan sdegnose.

Dona al trattore i cingoli e altre cose.

 

 

Silenzio fatto solo di parole,

di frasi fatte, urlate a piena gola.

Rumore fatto con una mandòla

senza le corde, ad una mano sola.

Cammino senza passi, senza piedi,

senza viandanti, pure senza vie.

Stasi movimentata, quando vedi

chi dice di dir vero e son bugìe.

 

 

Una casetta di periferia

non vuole più abitare sulla via,

ma in un appartamento proletario,

quattro stanze e servizi, più un solario.

Per rimediare i soldi dell’affitto,

a un angolo di strada resta dritto

per tutto il giorno ad elemosinare,

a casa sol ci dorme o va mangiare.

 

 

Un modulo stampato per le tasse,

scopre con rabbia che ha le chiappe basse.

Una modula medica avventizia

gli fa notar la cosa, con malizia.

Va a Casablanca il modulo in patema

e tenta di risolvere il problema:

un pò di righe nuove fa stampare

sotto le chiappe, per poterle alzare.

 

 

Un vasetto di senape si incazza,

e va a fare ginnastica in terrazza.

Un pigiama guardone si intromette

e gli sbircia, sbavando, fra le tette.

La senape se ne esce da ‘sta storia,

va con un osso lesso a far baldoria.

Resta a sbirciare il nulla quel pigiama,

bollato da disdoro e malafama.

 

 

Un orologio isterico montava

venti lancette: stava esagerando?

No, quella baraonda gli garbava,

errava l’ore, una non l’errando.

Conobbe una clessidra all’osteria,

con la scabbia alla sabbia, che tormenti!

Non vedea l’ora di filare via,

l’isterico orologio, via coi venti.

 

 

Un ragioniere spesso ragionava

d’aver ragione nei ragionamenti,

un lattoniere che latte trincava

giocava al lotto a letto: l’otto e il venti.

Un sedentario saltellava ossesso

se sulla sedia c’era un sedimento.

Se non c’era, sedeva, ma lo stesso

era parecchio triste e un pò scontento.

 

 

La cerbottana è uno strumento antico,

vuoto di dentro, fuori riflessivo.

Non legge, ma conosce un transitivo

od un avverbio o un motto assai pudìco.

La cerbottana non paga le tasse,

passa di bocca in bocca, è chiaccherata.

La cerbottana un giorno l’ho invitata

a bere birra, quattro o cinque casse.

 

 

Un bivio ambiguo, ad una sola via,

stava davanti a un verme solitario,

che sferragliava su una ferrovia

buona sol per andare, a un sol binario.

Per il ritorno, non si sa che dire:

si chieda ad un corsaro o a un caseificio

o a un bonzo o ad un fuochista d’artificio

o a un oste che non sa cosa imbandire.

 

 

Un tamburino suona il contrabbasso

non soltanto da fermo, ma anche a spasso.

Un sarto mette punti e fa puntate

su corse di cavalli assai truccate

da un’estetista che fa cose losche

pure per corse di batraci e mosche.

Un medico accurato fa le spese

pei suoi non più pazienti per le attese.

 

 

 

 

 

 

 

Vedi, nel grembo d'un lontano dio
c'è quello che possiedi e perderai.
Non dirmi: "Non ci credo". Tu non sai,
non puoi sapere, né lo posso io.
E allora? Niente. Ci diciamo cose
per dircele soltanto, non ti basta?
Ho messo nella pentola la pasta,
nel canterano le mie idee tignose.
Quando fa scuro, resta solo il letto
per riposarsi di cotanti affanni,
di tanta noja che ci sbrindella gli anni,
della bambagia tronfia nel farsetto.
Qui basta, sennò il verso sorte greve,
cisposo e masticato, non si deve.
 

 

 

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