"Se, alla fin, non hai goduto del mio scrivere scalcagno, pensa che pure uno sputo muove l'acqua dello stagno." |
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Non solo versi o prose ritmate, vi porgo le mie idee classificate, le mie paturnie, le mie sceneggiate e tante – troppe - immagini stipate fra verbi, punti, avverbi e congiunzioni. Vi somministro torride emozioni o di coglionamenti ahimé vi impiastro! Insomma, sto sfogliando un libromastro ch’io solo, non so come, so sfogliare… Che vi rimane? Salso odor di mare e pietre che a leccarle san di sole. Ma via, contenti, son solo parole, ciance perse nel vento e tanto basta! Vado, fra un pò mi buttano la pasta.
T'adagio sopra l'ali dei gabbiani, ma tu mi sfuggi, cruda: "Poi, domani...." Ti dedico poesie, novelle e brani. Vuoi che li legga? Niente: "Poi, domani..." Ti cullo fra le sete dei divani, ma tu mi tieni a bada: "Poi, domani..." Vorrei sfiorare i tuoi bei seni ispani tu mi rintuzzi con il: "Poi, domani..." Son disperato, faccio sogni strani e tu m'ignori con quel: "Poi, domani..." Vuoi che t'uccida, dunque, che ti sbrani?! Tu, come niente fosse: "Poi, domani..." Ma all'improvviso, sogno o sono desto?, t'abbandoni e comandi: "Facciam presto."
Oh, bada: chi fa bene per paura non vale niente ed assai poco dura. E sappi che il parlar senza pensare è come lo sparar senza mirare. Solo il denaro che vien risparmiato, non una, ma due volte è guadagnato. Se agisci con saggezza e con pazienza a spese altrui raccogli conoscenza. Chi monta dei cavalli tristi e buoni, ricordi di spronar con gli speroni Meglio è patir le insidie d'un nemico piuttosto che l'invidia di un amico. Non c'è nel mondo cosa al par peggiore che in membra vecchie pizzicor d'amore.
Sesso sovrano semina sussurri su serici sentieri serpeggianti scolpisce seni sodi scoppiettanti sazio si stende su sofà silenti sale superbo scale scricchiolanti scovando sogni stinti, segni spenti scende sconfitto, senza sentimenti stupito solfeggiando sibilanti suoni sinuosi, salmi salmodianti sardonici sonetti saltellanti.
Grandi parole, piccoli pensieri, sedie di paglia scrocchiano i sederi, parliamo solamente per parlare, solo il silenzio resta ad ascoltare.
Rose di seta porgi con le mani a quei passanti rapidi e ansimanti fra le botteghe e i treni, pochi istanti di tregua per soldati e capitani. Da sconosciuti prendi caramelle, che poi disciogli nella bocca calda, sterile grembo di una stirpe salda nutrita dai silenzi delle stelle. Conti monete che non puoi portare a un banco che rilascia ricevuta, produci merce che non vien ceduta, solo prestata, vuoto a riciclare. Lo maledici e il mondo si dà pace, gli cedi il freddo del tuo manichino, che è più lontano quanto più è vicino, che con lo sguardo che non guarda tace.
Con le parole, quando vuoi, ti scopri ed anche ti nascondi, al tempo stesso. Con le parole fai l'arrosto e il lesso, batti la fiacca quanto più t'adopri. Parole grasse e secche, lievi e grevi, che danno da campare e danno stenti, rimbombano nel capo e non le senti, ti fan digiuno mentre mangi e bevi. "Alorap" è "parola" all'incontrario: vivono insieme, l'una dentro l'altra. Perché la vita è sciocca quanto è scaltra, mentre va in scena, tira giù il sipario.
Cala la notte, come le mutande d'una fringuella facile d'umore, cala come il solerte squartatore cala la lama e le budella spande. La notte cala... ma chi se ne cale se non i piedipiatti ed i guardiani?! Cala la notte sopra ignavi umani, cala occhieggiando per dirute scale. Mi chiederete perché tutto questo cianciare senza scopo e contenuto. Fors'avete ragione, vi saluto e faccio un passo indietro, un passo mesto. Volevo solo dire che la notte...... ma vedo che nessuno se ne fotte!
Il giorno è poco, serve per campare. La vita esplode quando si fa notte! Poi, la tenebra sfuma in un sussurro... Io m'alzo spento e mangio pane e burro.
Amore al tossicchiar d'una ciabatta senza promesse di frutti proibiti qualche festività con i canditi folli avventure per un can che gratta. Ricordi al sugo di naftalina serbati in fondo al vecchio portafoglio vicino al boccheggiar d'un quadrifoglio ch'ella colse con ansia, una mattina. Abito della festa, profumato, capelli lustri a onor della famiglia ch'offre liquori, pasticcini e figlia... Non bello, ma distinto e reputato. Sulla bilancia: qui, la promozione. Sull'altro piatto tutto da eguagliare: un nonno maresciallo e, a quanto pare, un cugino imbattibile a scopone. Niente debiti dopo il ventisette! Ecco la campionessa del rammendo! Io do... cosa mi date? Bene, prendo. Un patto fra gorgògli d'anisette.
Cosa vuoi che ti dica "Trullallà"? Oppure vuoi che faccia piroette? O forse "Dolce dama, mi permette..."? Ma cosa? Tu, neh, dici.... Mah chissà. Conosco un navigante che non torna, un sarto che non cuce più un vestito, un saltimbanco mìsero e imbolsito, una puttana vecchia che s'adorna. Non te ne frega niente? Cosa importa, perchè quella che conta è la poesia, le rime sono lampi di magìa, il verso scorre ed apre la tua porta. Ora faccio sul serio: cuore? Amore! Nemico? Amico! T'odio. Simpatia.... Ora ti dico il vero. O la bugìa. Son cinico o m'inebrio di stupore! Trovi scolpito sopra la mia soglia: "La strada dell'eccesso va al palazzo della saggezza". Sono savio e pazzo, mi so privare e brucio dalla voglia. Sto concludendo, pochi versi ancora, non so, potrei riempirli di parole o di silenzi rumorosi. Vuole dirti la penna.... nulla, mia signora.
Gianromolo Sorcagno, patrizio di Peluria, ama la mortadella, la pàprika e l'anguria, ama le cameriere castane di capelli, ama i libri di Busi e i film di Monicelli. Gianromolo Sorcagno patrizio di Peluria: è questa la sua vita stremata di lussuria.
Facciamo com'io fussi un cavaliero e che tu fussi virgine a le rocce, desnudata de' panni e co' le pocce e co' le gratie tue sanza mistero, renserrata et avvinta de catene... Il monstro! Ecco che sguizza da lo flutto, che già s'avventa, ma lo infilzo tutto a la mia spada! E che tu me voi bene.
Il mondo che ti sveglia ogni mattino per darti un soldo nella mano tesa, cammina per le strade a gamba stesa più s’allontana, quanto più è vicino.
Noi vivemmo felici. Io ti permisi di rammendar calzini il lunedì. Tu non dicesti nulla quando misi quella cravatta a righe rosse e gialle. Non dissi niente quando il generale volle pescar nella tua scollatura la sua dentiera e tu non protestasti quando mangiai cipolle sul comò. Cospargesti i miei occhiali con la pece e non osai di profferir parola. Anche quando fuggisti con Gondrano non vi fu screzio per il nostro amore. Eppure il dramma esplose con violenza, tanto che m'impiccai con una stringa, quando (ricordi, cruda?!) non volesti ch'io ti mettessi a mollo nel vetriolo.
Sono spiacente, chiudo l'uscio e vado, vi lascio il mio cappello grigio floscio, non dico nulla, che sennò v'angoscio, se non mi salutate, non ci bado. Coprite quelle scritte sopra i muri. Ah, per natale manderò gli auguri.
Non dite che non sono stato ai patti, ho fatto quanto basta per campare. E ora, arrivederci, ci ho da fare, devo tornare dentro, là fra i matti. La nave resta in secca senza il mare, il vento asciuga il sangue nelle vene, non arde il sole senza il kerosene... Andate e non tornate, ci ho da fare.
Chi vuole, sappia: chiedo a questa vita disinteresse allegro e contagioso, un letto per godere un buon riposo e la diritta via, che ho già smarrita.
E basta con i versi lacerati, con rime marinate nel limone, coi drammi a pranzo, a cena e a colazione, col “meglio essere male accompagnati”. Ci son modi diversi per parlare al cuore della gente e alle budella che reclamano amore e mortadella, sirene e cozze putride di mare. Basta: parola magica ed inane, fine e principio, porta che si chiude o che sta per aprirsi, che ti illude e ti delude, se sei preda e cane. Ho detto “basta”, ma mi son pentito. Non vale dettar norme alla poesia. La foglia é larga, stretta é già la via che mena al dubbio stento e rinsecchito.
L’inutile pensiero é come il pane che intingi dentro il sugo della vita. Ti svuoti, e la giornata é già finita, ti resta dentro un gracidìo di rane.
Ballate, il tempo è musica e la vita son le parole, comiche o struggenti, è meglio che la danza sia eseguita con sensi svegli e ottenebrate menti. Finito il ballo, tutti alla stazione ad aspettare il treno della sera, lì siete viaggiatori, non persone e il tempo è una nojosa tiritera.
Avanti il tamburino, poi la truppa, che marcia canticchiando all’obitorio, credendo che sia invece il refettorio caldo dei fumi dell’amata zuppa. Marciano lieti verso triste sorte, l’uno che fa fracasso coi bastoni, l’altri che se ne vanno buoni buoni ben imbrancati nelle aperte porte. Vengono dietro con le salmerie i carri traboccanti di puttane, c’é qualche verità fra le sottane ed i merletti delle biancherie. Prima di dire ciao, fra gambe schiuse si tuffa l’innocente fantaccino, prende il piacere, poi va al suo destino che non conosce, verso mete illuse. Il tamburino batte il tempo, truce, ed ogni colpo decima la truppa: nell’aria aleggia grasso odor di zuppa, pria tacciono i romori, poi la luce.
Contratterò due gocce d’allegria da un ceffo che la spaccia sui cantoni, una risata e fuori dai coglioni, al braccio della zia Malinconia. Ma poi, chi ve l’ha detto che la piva é segno d’un umore terra terra? Mi sento come un prence d’Inghilterra, ma senza nave, fermo sulla riva. Son ricco come un oste annacquatore, però i quattrini già li ho sperperati. Son libero d’andare per i prati, turando bene il naso pel fetore. Qui ci vuole una chiusa che ammonisca, che lasci il segno sulla pelle dura di quei mufloni tronfi sull’altura. Ma non mi viene, meglio che finisca.
Faccio la notte a pezzi, poi la incarto e la regalo a chi non la conosce, a chi non vive le pacate angosce confezionate da un crudele sarto, che cuce carne e trine, che drappeggia un broccato prezioso e una scorreggia.
La grande vulva rossa popolana accoglie capitani e marinai sull’orlo della sera, quando stai di fronte al mare e all’isola lontana. Volgi le spalle all’epopea carnale che si consuma fra le mura tristi di luce fioca. Mentre tu rovisti nei sogni, la marea muggendo sale.
La strada non aspetta, si allontana fra case e muri, in cerca d’occasioni, é una bagascia arguta, una puttana che gode soprattutto coi birboni. Stende cenci di cielo, li nasconde, cammina a testa bassa bofonchiando, la strada é dove e come, cosa e quando, se chiedi dove va, non ti risponde. La strada é una ferita della terra, che spinge armate pronte per la guerra.
Far poco o niente ed aspettar che venga qualcuno a presentare l’ingiunzione, dare una rimestata al minestrone, l’aria distratta, non c’é “ma” che tenga. Restare alla finestra e fare cenni a chi cammina ancora a testa alta, accatastar mattoni senza malta, tenere come motto: “Vidi e venni”. Contar le pecorelle e restar sveglio per disegnare fole sul soffitto, scrivere tutto ciò che non é scritto, pensare solo al peggio e non al meglio. Prendere un libro, non importa quale, leggere le parole alla rinfusa, riporlo nel cassetto e, a scena chiusa, interpretar la comica finale.
Il verso spento non é più poesia, é un bacio della zia malinconia.
Fra le navate d’una antica chiesa perdere il senso dell’orientamento e poi scovare una parola accesa fra l’ombre cupe dell’ammonimento che un preticello steccoluto e nero scaraventa dal pulpito grifagno. E infine ritrovare quel sentiero da battere senz’ombra di compagno.
Frattaglie di racconti, versi astiosi, morali raccattate, bozzettini, passioni smozzicate, zuccherini, pensieri che s’ammucchiano accidiosi. C’é una piazza a Siviglia e una panchina caramellata con le mattonelle, passano altrove chierici e zitelle, io me ne sto seduto a far manfrina. La piazza é una ciambella, sto nel buco, qua e là fiorisce il sole e me lo bruco.
Guardo il soffitto e cerco ispirazione, un verso che racconti in qualche istante una totale assenza di emozione, la mente sgombra, l’anima esitante. Gocciola nel silenzio della notte un simulacro di pensiero liso, resti di gioventù, parole rotte, una risata stinta e ancora un viso che non ricordo più, ma che vorrei vagasse altrove che negli occhi miei.
Sai quando sento d'essere più solo? Quando ripenso a ciò che non ti ho detto. Ora mi rode l'ansia del mio letto e mi tormenta l'uggia del lenzuolo.
Han fatto tutto, tutto é stato detto, tutto stracotto, tutto masticato, tutto spremuto, tutto distillato, tutto stivato a secco o nel guazzetto. Però il silenzio, quello é sempre nuovo, dopo un singhiozzo, dopo una risata, che se ne va da solo o in adunata, che me lo cerco dentro e non lo trovo. Nascono nel silenzio le parole che fanno fresca l’acqua, caldo il sole.
Io cerco chi mi aiuta a ricordare. Il tempo é mare, sbriciola gli scogli della memoria, dopo, togli e togli, rimane solo il vento a vaneggiare. Era piccolo o grande, biondo o bruno e gli occhi: chiari o scuri? Non ricordo. Il tempo è vecchio, dispettoso e sordo e non risponde a nulla ed a nessuno. Io cerco chi mi dice cosa ha fatto, cosa ha sognato, quando ha detto basta. Il tempo è monte, tutti ci sovrasta, da sole, cielo e nuvole è distratto. Nascondo i miei ricordi in una tasca d’un pantalone liso e stazzonato, ma il tempo è ladro, non c’è alcun che nasca che non ne venga spesso derubato. Qui siamo in molti per testimoniare ciascuno una parola, un fatto, un gesto, così freghiamo il tempo disonesto e ci aiutiamo a non dimenticare.
Non ritornar sull’ombre dei tuoi passi, ci troveresti solo nudi sassi.
La sogliola limanda a quel paese e il tordo sordo sardo li stordisce, quelli che, come te (chi li capisce?!), non vogliono tornare a fine mese. Torna, sennò la fregola mi frega e il cane nel canestro, ahimé, guaisce: i tipi come te (chi li capisce?!), pregano pur se fan la messa in piega! Torna, sennò il notajo nota che manchi, manco che senza te non si vivesse, torna perché mi oblige la noblesse, ritorna pur se rantoli ed arranchi. Cala la tela sulla mala mela che sopra il molo d’Imola hai immolato: diamogli un morso a quel tòrsolo ingrato e torna, sennò spengo la candela. I tipi come te, se ci fai caso, casa non hanno, casomai un casale. Torna, sennò la torta mi va a male. Non far torto alla torta, è sadomaso! Torna! Una terna ghiotta d’occasioni t’aspetta e pur ti spetta il nonno inane: tiriamo, orsù, a campar, come campane che in fosse fesse suonan fessi suoni. Ma bada, se non torni, il tornio lascio e lascio il liscio, perché mi sfinisce. I tipi come te (chi li capisce?!) mòndano il mondo o il mandano allo sfascio!
Linee vibranti d'anima e di luce, unghie di drago temperate al fuoco... Intridere di grande quel che è poco: gesto sapiente, che all'idea conduce. Intuizioni, soste, rapimenti. Valve socchiuse, labbra di conchiglia evanescente, mentre il mare impiglia rivoleggiando sabbie ribollenti. Ombre sensuali di corposi impasti, nuvole di colori meditati, esitanti ricordi e mille fiati spesi sui monti, sulle pene e i fasti. Il verso non può dire che un nonnulla, ma è amico, come un viso di fanciulla.
La piccola lanterna sopra il colle ondeggia mite, guida passi lenti, finché la vedi chiara, dentro senti il gorgoglìo del tempo che ribolle. L’occhio del cielo si rivolge altrove quando un artista varca le sue soglie, solo si sente un crepitar di foglie e il ridacchiar del vento che le muove.
Se voi vendete l’anima al mercato, andate dritti dritti in paradiso o giù all’inferno,ma con un sorriso di grande marca, liscio profumato. Se dividete tavola ed alcova con la baldracca più desiderata, vi guadagnate bene la giornata e avete ogn’ora una coscienza nuova. Ma guai se ricercate la morale in fondo ad ogni storia o se vi date al fervido rovello: rimediate solo un'acciuga e pan quaresimale.
Quando la mano bianca ti buffetta sopra la spalla, mentre guardi il sole distante del tramonto, le parole con cui l’accogli sono una pappetta di fole squinternate, di rimpianti decotti, di ricordi mai accaduti, gli chiedi ancora tempo pei saluti... Lei ti sorride, ma ti spinge avanti.
Viaggiare su un calesse senza ruote comprare casse vuote e scarpe strette, contare da diciotto a diciassette, scrivere partiture senza note, pesare il vento ed asciugar la pioggia, spingere le montagne verso il mare, parlar senza parole e ritornare a riposarsi vuoti, sulla loggia.
Seduti intorno a un tavolo a parlare solo di quello che ci piace dire, il resto lo lasciamo lì a dormire come baldracche vecchie al lupanare. Sopra le frasi belle, grattatine di cuore e di coscienza, quei tartufi che fan capire che non siamo stufi, stracotti dalle birbe e le manfrine. Seduti ad aspettare che la notte ci prenda per l’orecchio e ci conduca ciascuno nel profondo della buca dove mena i rimproveri e le botte. Ma passa. Quando bussa il nuovo giorno, ci ritroviamo a raccontarci balle nuove di pacca, lucide farfalle che sbarrano la strada del ritorno.
Senti, non voglio dir parole nuove, ma vecchie tiritere mugugnanti, rosari senza martiri né santi, tristezza allegra che nel cuor si muove. Ma tu non senti, non vuoi più parole, vuoi dardi di cemento contro il sole.
Uguale a tutti gli altri, sei diverso come i passi del tango che scandisce l’intelligenza armonica e distratta dal gocciolìo dei giorni nella latta, che lontana nell’erba arruginisce fra sole e pioggia, fango e vento perso.
In un giardino che sorride al sole volteggiano parole cesellate, antiche e nuove, favole e ballate nate dal cuore di chi sogna e vuole andare alle radici della vita.
Non ve ne andate senza salutare, lasciate una parola su un biglietto o una foto un pò mossa o col berretto sgrullate l’aria. Ma prima di andare fate qualcosa, dateci un ricordo, uno sbiadito segno del passaggio: che sia della paura o del coraggio non conta affatto per chi resta a bordo. Mettete in tasca un conto stropicciato, dateci l’illusione d’aver dato.
Allora, ve ne state un poco zitti?! Con gli occhi freddi e con le mani in fondo alla zuppa rovente, mentre il mondo ozia lontano, coi capelli ritti. E quindi date un motivetto ai passi, per farli guazzettare nel sorbetto, e poi strisciate truci fino al letto, piagati da ricordi tutti sassi. E state dietro i vetri, soddisfatti, ad avvistare lepri fuggitive, orgasmi astiosi persi sulle rive di un fiume lungo cento metri esatti.
Un tavolo, una sedia, un lume acceso, un foglio bianco che non sa che dire, un silenzio di gesso, nudo e obeso, una matita che non vuol dormire, un odore di nulla, un’altra stanza calma nell’ombra che sta appesa ai muri, il fumo del tabacco fa una danza, una finestra cieca per gli scuri, un pensiero di gomma nel cervello, quattro parole futili e graziose, la goccia che rimbomba nel lavello, il tempo preso ad elencare cose, a contar morti, a stendere sudari, ad inventar preghiere ed epitafi per albanesi chiusi negli scafi fatti per stare a galla sopra i mari.
Salmastre mani di costanti eredi, corde impigliate fra formosi piedi, dietro non odi, sopra neanche vedi, salmastre ruote d'incostanti credi. Gratta la neve gretta in grotte appese sotto quel sole che rabbercia imprese su ruvide salite non scoscese, gotta ha l'abate, schiva maionese. C'è un tempo per chi canta con la stizza suoni setosi, putrida e rubizza è l'illusione di chi scende in lizza nell'acqua che muggisce, cola, schizza. Sussurra il saggio armento che il pastore, sotto la luna mandorlata, sotto le stelle frammentate, conta l'ore che mancano a sfornare il pane cotto.
Prendetevele tutte le parole, lasciatemi gli avverbi, per favore. Non chiederò nient’altro alle mie ore, per dire agli altri tutto quanto c’é. Sarò il padrone di una lingua nuova, secca e tagliente, vanitosa e vana, grulla come una grolla valdostana o come una civetta sul comò.
A volte è saggio starsene un po’ zitti con gli occhi pigri e con le zampe in fondo alle tasche roventi, mentre il mondo ozia lontano, coi capelli ritti. E’ grullo dare ai passi un motivetto per farli zompettare chissà dove, per dopo accompagnarti fino al letto con un ricordo liso e fuori piove. E’ insano stare all’erta dietro i vetri per avvistare lepri fuggitive, meglio sentirsi persi sulle rive di un fiume lungo esatti cento metri.
Napoli coi capelli sciolti in mare, matrona illanguidita, che sta altrove ad inseguire suggestioni nuove, sopra la prora di navi corsare. Guardiano d'ogni tempo, Pulcinella cerca fra l'altre mille la sua stella.
Se non un ciuco, ma bensì un cavallo avessi, di Beltade nel castallo andrei, sordo a' richiami di Saggezza. Direile "V'hamo". Lei, di me assai pezza, concederebbe la sua ambita mano. Ahimé, non ho un cavallo, ma un ronzano.
Se hai voglia di impazzire, a un cubo pensa ch'abbia sei facce ed una al tempo stesso, le cinque facce che non trovi adesso, non le ritroverai manco in dispensa, son tutte dietro quella faccia sola, che t'occhia torva come una tagliola (ma se t'agghiaccia, leggi pur "braciola").
Non so cosa cantare, bella gente, perciò canto la penna e il calamaio. Oggi, la penna è ottica, un bel guaio se è afflitta da miopia, scrivi un bel niente. E il calamaro? Resta quel mollusco che te lo mangi fritto all'osteria con seppie, gamberetti e compagnia, ti sgorghi con un litro di lambrusco. Ci resta la matita, la meschina, ma attenti, può scoppiare, ci ha la mina.
Sei la mia danza, sei la villanella che m'ubriaca d'aria e di sorrisi teneri, solitari e condivisi, gioielli scintillanti, che fan bella la mano che mi tendi ad ogni istante, come se fosse il primo, il più esultante.
Bimbi rognosi, sù, fate la nanna, strilli e mazzate la balia vi molla, per stare fermi vi spalma di colla, se non dormite, son colpi di canna! Fate la nanna, se vi riesce, di pepe e ortiche è piena la culla, non vi muovete, per un nonnulla vi copre anche di lische di pesce. Fate la nanna, bimbi rognosi e cento, mille di questi riposi!
Tu, Santa Coralìa bianca di sale, madre dei gorghi, sposa degli scogli, reliquie di naufragi al litorale col tuo manto di schiuma lieve togli e scendi dalla roccia che è il tuo trono a intrappolar nei lacci del maestrale chi ci deride e chi ci vuole male, chi vuole alzarsi, ma rimane prono.
Pane fragrante mordo le tue labbra nell'angolo lontano muro amico rubi fra i seni le mie mani grosse l'odore é una cometa tempo antico. Racconti libri letti storie stanche camminan negli specchi lampi azzurri le vetrine imbottite sonno e sogni scendi per scale ombrate di sussurri. Lampioni raggrumati vetro freddo strisce di sole lucido sui passi manichini di stoppa imbambolati sassi e parole, solamente sassi.
O cacciavite mai nessun t'ha fatto un'ode, una canzone, una poesiola. Io, finalmente, sì. Se ti consola, o cacciavite, non son savio o matto, ma sono - l'hai capito - un mattacchione che cerca sempre nuova ispirazione.
Cogliamo l'occasione di comprare tre chili di busecche a metà prezzo. Se non abbiamo i dindi, c'è pur mezzo d'avere la busecche: sgraffignare il borsellino al ciula zio Diomede, quello che dei suoi beni mi fé erede. Ah, se volete, c'è un'altra occasione: di fare giusto 'sto mondo birbone.
Le margherite tacciono nei prati, i rospi stan tranquilli negli stagni e noi pontifichiamo stralunati dall'alto delle tazze, dentro ai bagni.
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Prima di andare, nel mio grembo che resta poni il tuo fiore.
Narra la notte risate inebriate di stelle e mare
Tempo e tempeste, ciò che l’amor ci diede niente ci toglie
Freddo dovunque, ma il cuore della neve caldo è di pane.
Calma un'idea fra le pieghe del manto scosso dal vento.
Cade una goccia Nella pioggia scrosciante Ed io la sento.
Piedi di marmo Ha il viandante perduto Su strade ostili.
Tremila passi Mancano alla tua casa Ed è già notte.
All’alba amica alitano alisei antichi adagi.
Bugie banali burbero burocrate beve beato.
Con commozione ci copre calda carne, cara compagna.
Danza discreto dentro donne divine dolce domani.
Eterna estate, esilio edulcorato, eremo eletto.
Fresca fontana, festosa favoleggi fluide frasi.
Gesti gentili giocano giudiziosi gentiluomini.
Immensi istanti Illusioni immutate Ispiri inverno
Lustrate luci Lampeggiano Lanterne Laghi Lontani
Mille mattoni Mancano muratore Magione monca.
Non navigare nella notte nebbiosa Nere novelle
Sasso smarrito scricchiola sotto suola suoni stupiti.
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RASPERICK
(versione nostrana dei limerick , ma più graffiante, perché è tale la raspa nei confronti della lima)
In un baule un asino imbriago cela la sua criniera color spago. Poiché dei nodi sodi ci ha paura, la mette a mollo dentro una tintura per sei secondi e trentasette ore, poi scopre che l’intruglio è ahimé incolore! Il ciuco ciucco se ne meraviglia e torna ad attaccarsi alla bottiglia.
Un carrarmato con la meningite vuole donare molle e viti avite ad un trattore agricolo, suo amico, che incontra ogn’anno alla Sagra del Fico. Ma quando le scartoccia, va a scoprire che le molle son molli e, manco a dire, che le viti lo evitan sdegnose. Dona al trattore i cingoli e altre cose.
Silenzio fatto solo di parole, di frasi fatte, urlate a piena gola. Rumore fatto con una mandòla senza le corde, ad una mano sola. Cammino senza passi, senza piedi, senza viandanti, pure senza vie. Stasi movimentata, quando vedi chi dice di dir vero e son bugìe.
Una casetta di periferia non vuole più abitare sulla via, ma in un appartamento proletario, quattro stanze e servizi, più un solario. Per rimediare i soldi dell’affitto, a un angolo di strada resta dritto per tutto il giorno ad elemosinare, a casa sol ci dorme o va mangiare.
Un modulo stampato per le tasse, scopre con rabbia che ha le chiappe basse. Una modula medica avventizia gli fa notar la cosa, con malizia. Va a Casablanca il modulo in patema e tenta di risolvere il problema: un pò di righe nuove fa stampare sotto le chiappe, per poterle alzare.
Un vasetto di senape si incazza, e va a fare ginnastica in terrazza. Un pigiama guardone si intromette e gli sbircia, sbavando, fra le tette. La senape se ne esce da ‘sta storia, va con un osso lesso a far baldoria. Resta a sbirciare il nulla quel pigiama, bollato da disdoro e malafama.
Un orologio isterico montava venti lancette: stava esagerando? No, quella baraonda gli garbava, errava l’ore, una non l’errando. Conobbe una clessidra all’osteria, con la scabbia alla sabbia, che tormenti! Non vedea l’ora di filare via, l’isterico orologio, via coi venti.
Un ragioniere spesso ragionava d’aver ragione nei ragionamenti, un lattoniere che latte trincava giocava al lotto a letto: l’otto e il venti. Un sedentario saltellava ossesso se sulla sedia c’era un sedimento. Se non c’era, sedeva, ma lo stesso era parecchio triste e un pò scontento.
La cerbottana è uno strumento antico, vuoto di dentro, fuori riflessivo. Non legge, ma conosce un transitivo od un avverbio o un motto assai pudìco. La cerbottana non paga le tasse, passa di bocca in bocca, è chiaccherata. La cerbottana un giorno l’ho invitata a bere birra, quattro o cinque casse.
Un bivio ambiguo, ad una sola via, stava davanti a un verme solitario, che sferragliava su una ferrovia buona sol per andare, a un sol binario. Per il ritorno, non si sa che dire: si chieda ad un corsaro o a un caseificio o a un bonzo o ad un fuochista d’artificio o a un oste che non sa cosa imbandire.
Un tamburino suona il contrabbasso non soltanto da fermo, ma anche a spasso. Un sarto mette punti e fa puntate su corse di cavalli assai truccate da un’estetista che fa cose losche pure per corse di batraci e mosche. Un medico accurato fa le spese pei suoi non più pazienti per le attese.
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Vedi, nel grembo d'un lontano dio |
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