CIO’ CHE PER SENNO NON VA’ D’ASSENNO
Ogni più recondito pensiero è l’eterno illudersi d’un nuovo sogno. Giaco o spento sole, che per più disillusi attimi vedesti il perdono, che per più vaganti sentieri patisti l’addio.
Perché rincorri il tuo sogno inesorabile, perché non taci all’ombra del silenzio, perché bisbigli l’allodola del tempo, perché tramonti com’a l’alto bisbigliar di luci.
Fine, verrai al giorno del tuo triste nascere assente, divorando del passato l’alto colle ove più increduli ruscelli dissetano il loro cammino, raccontando al silenzio la voce d’un proprio sogno. Al dunque, o fuoco, che l’eterna cenere bruci di mio sol sospiro, dominerai la sete d’un anelito ch’a cuor di suo ghiaccio non riscalda né animo, né il suo abbraccio?
All’anima, all’anima, all’anima, pietà per l’anima, per l’anima, per l’anima, pietà della mia anima ancora. Non un silenzio tace, né più sospir ne giace di ciò ch’occulto andar per sonno avrà mirato altrove, lungo un mirante dove.
Afosa l’estate, piango la preghiera della notte.. Sorridi o cielo, fiato del mio perduto oceano, sorridi tra lacrime spente d’accesi sentieri, ove nebbia mia strinse la pace, ove vista tua dichiarò il perdono. Sperai per un attimo che il tempo fosse un gregge e noi il proprio pastore, che la vita fosse una bugia e noi il proprio ricordo, che il vento fosse un’anima e noi il proprio respiro. Erano gli attimi d’un vago ricordo per più scordato pensiero, che d’animo perdon la luce e di cuore ciò che dice; erano gli attim’andanti per buio in notte; eran cespugli per scure selve fitte. Or m’imploran sì gli angeli amanti del mio nessuno, chiedon de l’angosce l’errante buio alcuno, ch’a bisbigliar l’amare liti renda fortezza, ch’addormentar l’orrendi fiati giovi stanchezza.
Quanto l’umana carne tace il suo abbandono, tanto il morir di spiro chiede perdono.
Di sguardi sublimi e silenziose voci che possano il ciel toccare, il mare espandere, la pioggia asciugar con sete, l’anima mia si riveste:
di te, amor che mi nutri, l’anima si riveste.
Dai forti, talvolta fragili, nascosti piedi al sommo tuo onnipotente capo, ove d’oro più elegante dolci, incantevoli tue parol, si fondono al loro verdetto di lode, amanti del pallido specchio rivolto a meridione:
in te, amor che mi nutri, l’anima si specchia.
E ancor velluto, velluto e infinito, supremo riguardo a quelle fragili, angeliche mani ingenue di speranza mai arresa, più d’ogni lampada accesa, calor, clemenza e fuoco aimè, al mio illusore volto, donan conforto: con te, amor che mi nutri, l’anima si conforta.
E sicché tuo potente, lieve, gelido vento atroce mi dona tremante andar a giovani membra, ansimanti mi s’occultan fiato e sospiro, mio declinare incerto:
per te, amor che mi nutri, l’anima sospira.
E infine luce, potente luce e abbagliante sole, soltanto di sol mi s’affanna or più vista, che spifferi di ombra desideroso il mio pensier smarrito cerca:
su di te, amor che mi sostieni, l’anima si disperde.
Disumana avventura: calore di un’indegna preghiera che scendi a imprigionar mio pensamento nascosto che temo: ogni fuoco si spegne, ogni ghiaccio vien meno, creato e infinito intero meraviglioso, ancor s’inchina a gran sete di parole, tu, capolavoro d’amore, solente nascendo vai per lugubri, effimeri giorni.
Nulla potè del mio sguardo celar con che di umano in cuor non appaia.
Osar non nuoce, in amor più nulla tace.
D’incanto il ciel dipinto, mio animale istinto, Dio nemmeno a tentazion non cede a firmar con brigo mio eterno castigo, mia sentenza d’orrore, mia condanna d’amore.
Quale natura mi privò del mio più sublime destino d’amore?
La fuga del tempo nostro più sperduto, o cari mortali, in tal, codesto istante ci rammenta la voce di chi, per mio nascosto viver, nutre la propria lode col fardello della giustizia più ingrata. Ne ombra, miracolo o castigo, ne più dolente incanto v’è tra miei sperduti versi d’annego. Miti, le piogge più sottili del mio immutato eco, ciban d’apparenza chi ama del regno suo il proprio nascere.
Inesorabilmente ingenuo è tale il sentimento mio, ché più vani canti d’effimere voci, possan continuare a donar proprio nascere per questo o l’altro foglio del mio dolente vivere incerto. E non vi sarà tempo che con sua di maschera ne rovinerà la propria bellezza, ma ogni raggio di luce più incantevole, sarà di giovani regnanti l’alto sommo, che porta a più tacere Suo volere.
Silenzio del tuo silenzio in mio più spietato silenzioso essere, oggi tremi delle parole più celesti, diman, per tua divina terra, imparerai a leggere.
Quale natura mi privò del mio più sublime destino d’amore? … che più silenziosi passi del tempo, possano celare del sentimento mio anima e corpo.
Quando sonno ha già catturato la tua dolcezza e di velato, ingenuo sorriso il tuo ripetuto volto invoca la quiete, allor mio fiato cessa l’affanno. Per ogni mio danno di dubbi, d’error, di silenzi in fragili parole al vento, ora la mia anima vinta di attesa diviene pura. E se per istanti dovessi mutar tuo fisso volto per questo o l’altro fianco del tuo guanciale, reliquia in me d’incantevole profumo, balza d’un tratto mio assorto sguardo in timor di tuo destare presente sospiro allo sconforto. Ma tutto ritorna addietro, tutto riprende forma, tutto ridipinge la tua immagine, quella fragile, forte immagine in mio trovato cuor, che mi vela degli anni tuoi gli orgogli, d’ansie mie gli sbagli. Attimo assoluto è questo o dunque, in cui totalmente possa desiderio mio, concedere grazia di sol timidamente sfiorare, col freddor di mie dolenti mani, l’argenteo luccicar di tuoi adorabili capelli, ch’ad angelico esser tuo donan incessante lode.
Questo ed altro contemplar ed altro viver di tua vita donasser premio al mio patir di cammino giovane e assorto, che in se osò d’amore: mia gioia nel dolore. Ma real di tuo più inganno in mio nascere s’addentra, lento, profondo fiato d’ardente tremolar si spiega, ché mio destin non tace, ché mio soffocar non giace, ché mio più lento sognar non trova pace.
Siamo solo io e te, soli, in questo nascosto paradiso fuggente, ucciso e tartassato dal pensiero e la speranza senza polvere di saper ciò che si spera se in verità lo è. Siamo soli io e te, tu ed io, necessariamente noi a pianger solitudine con lacrime di falsa gioia e fragili convinzioni vane.
In vita nulla è errore, tutto è lecito, tutto è scontato. Siamo solo il frutto del nostro vivere, figli di esperienze che buone o cattive portan le menti a ragionare.
Amiamoci dunque gentili uman persone, stacchiamoci dal cielo, dal respirar di gente. Amiamoci dunque oppure odiamoci, sappiamo ora unire vita con vita, bene con male, mano con mano, bacio con bacio. Poiché lontani, dal nostro quieto vivere dimoriamo e di relazioni in senno cultura nostra più dolente portiamo a nascere. Leggi sopra leggi, montagne di fogli e versi, di capitolo in capitolo leggendo solo vista rendiamo meno al nostro ben di vivere.
Siamo soli io e te in quest’adorabile terra gioiosa. Siamo soli io e te; nessuno ci guarda; nessuno ci osserva; nessuno ci giudica. Poiché:
In vita nulla è errore, tutto è lecito, tutto è scontato. Siamo solo il frutto del nostro vivere, figli di esperienze che buone o cattive portan le menti a ragionare.
Amiamoci dunque oppure odiamoci, viviamo con tutti noi stessi, anche se miei di lamenti e vostre più forti sofferenze sono solo i muri più pesanti della voce di tutti quanti. Ma noi sappiamo ora distinguere vita da vita, morte da morte, voce da sorte. Siamo padroni con noi stessi, siamo solo noi stessi. Sappiamo ora vivere senza rimorsi e senza pensamenti, senza chiedere risposta da richiesta mai provata, senza troppi pregiudizi di forzata, ma vivendo solo i nostri più nascosti piacimenti, senza animo nel buio ma solo quiete, poiché:
in vita nulla è errore, tutto è lecito, tutto è scontato. Siamo solo il frutto del nostro vivere, figli di esperienze che buone o cattive portan le menti a ragionare.
Cantate e annunciate quest’inno, soprattutto voi o donne in tempo di vostra doppia vita prossima nascente, affinché creature senz’ancor parola non avessero degli altri il fiato in gola. Poiché anche per costoro:
In vita nulla è errore, tutto è lecito, tutto è scontato. Siamo solo il frutto del nostro vivere, figli di esperienze che buone o cattive portan le menti a ragionare.
Siamo soli io e te, tu ed io, necessariamente noi che offriamo a questa terra una falsa-vera concezione del male e del bene, del presente e del futuro, del concreto e dell’ignoto; che strappiamo anime da anime e non proviamo se nostri desideri sentimentalmente umani, avessero un valore per noi e per chi provati li abbiamo.
Impariamo ora l’arte del difenderci col parlare e col bastonare cosicché nessuno possa fermarci, poiché saremo il nascere di noi stessi, ciò che CHI vita ci donò ha sempre voluto da noi e noi, cercando il suo volere, abbiamo tralasciato donandoci solo sofferenza.
In vita nulla è errore, tutto è lecito, tutto è scontato. Siamo solo il frutto del nostro vivere, figli di esperienze che buone o cattive portan le menti a ragionare.
Non è possibile che un abito ci renda potenti, che dei fogli ci rendano sapienti, che delle poltrone ci rendano importanti, ma solo qualcuno grande o piccolo, forte o debole ma di nostra stessa razza, può d’ora in poi donarci l’arte del conoscere il nostro stesso vivere.
In vita nulla è errore, tutto è lecito, tutto è scontato. Siamo solo il frutto del nostro vivere, figli di esperienze che buone o cattive portan le menti a ragionare.
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Mai guarderai sì a fronte o per petalo nascosto li vermigli oltraggi di speranza, che docili per fior de la fragranza, godranno, un dì di arresa, la luce, la sorpresa.
In man di chi non tarda a rimembrar dolente morte, si posi un tal soave sogno per il qual sì verde mi ritrovo cogli anni e a seguitar, su di me, piangano braccia d’assedio ch’a genio, umilmente, siano trapassar d’amor fiorente. Codest’è selva o ignavi, è noia, scongiuro, tortura più adorabile in riflesso, è l’espandersi d’un cupo verso stesso, che Dio me ne convien di rado col pensiero, ciò che diman sarò, ciò ch’al mio lutto n’ero.
Tremano al freddo gennaio fragili rose a lor vento ch’al bischero mirar di proprio appassito dolore, rendono delizia all’alto core di chi l’osserva andante muto di pioggia calante. Per Cristo, che croce trafisse in cuore, nel petto e nell’ombre in pensiero, sia nostro ricordar per que’ futuri anni di quanti tremanti passi avanzeran l’un l’altro in sommo patibol d’onore. Mio vanto, mio culto, mio sdegno, mio umile cuor di pensamento indegno, vaghi per venti o per sperduti cieli, ma mai giunga ad orecchie di chi m’intende ben li averi; or che dilemma compare, or che mio animo muore, or che mia vita non tace nell’ore.
Mai godrai sì a fronte o per petalo nascosto li vermigli oltraggi di speranza, che docili per fior de la fragranza, godranno, un dì di arresa, la luce la sorpresa.
Per sol di vaga luce, o folle dardo, fu fier mio trapassarmi lento e assorto, che suon d’uman devoto, mio riserbo noto, ad alitar più incanto nostro mai sia ignoto. A chi più ne convien venga d’assedio in proprio ardito genio senza l’itelletto, a soffocare ancor mio amaro detto, per chi, a talor gradito, n’abbia l’udito. E tu, ch’ancor m’avanzi in ferrea punta, per più corrotte menti de’ volti miei, concedimi per quel fiorent’oltraggio d’un misero soffio tuo: l’abbraccio.
Di qual soave inganno l’anima ora s’avvede, per cosa mesta, in festa che fragile, dunque, riposa? Triste ‘l nobil tempo di suo vagar sì amabile sospiro, non tace; chè soffio di vita più illusa per oblio d’incanto, il sorriso dipinto, ogni cuor velerà di grandezza: lenti i flagelli miei in loro anderar sì quieto.
O folle, che mio gelato cuor m’induci folle. Più intense, l’armi tue, sfioreran qual luce all’ombra? Ferir più infermo corpo in esser mio, spirane, arreso, per gioia e per dolor dell’armi affrante sia speranza e per ch’illude ancor: gioviale danza.
Immacolato.
Celeste incanto del mio segreto pensare, a te, giungano le corrotte ossa del mio tempo, che miti avanzano in onor di tuo pellegrinaggio, al santuario dell’amore più sublime. Ardente devozione codesta è tale ad eterna bellezza, che per ogni verso d’incantata preghiera (angelico riflesso di tua divina persona) immensa, la mia mortale anima, si disperde.
Immacolato.
Immacolata la tua presenza, or dunque in terra santa dimoriamo: che li volgari indegni piedi di nostr’andare, cedano il posto all’umili ginocchia di lor seguitare mite.
Quattro son di vita le stagioni ed io: nacqui all’ultima; chi fosti tu, dio del più immortale sguardo, ad ereditarne la prima?
V’era, tra più sperduti passi di mio dolente essere, anelito di luce effimera. V’era, infinita di pace c’era. C’era, la dipingesti ancor.
Se mai giovinezza abbracciasse le lunghe ore del suo tempo, come spiegar dovrei mia illusion di pensamento? Non di suo tremolare arreso, ne’ di più soave carezza velata al proprio rancore, udii voce alcuna in tuo rimembrare assente; ma gelida la linfa tua vermiglia d’assedio, che con agile destrezza del lento mio vivermi ignoto si ciba, sia il ritornar per fragili terre, in mio tormentoso nascere assente, che banal, di propria speranza, rivive la sconfitta degli anni più cari.
Amor, che lento induci il cuore mio verso la propria morte, narrami di tuo germogliar per valli, lacrimar per volti, ulular per gelide lune fragili del loro imbrunire incerto, ciò ch’a lungo andar divide calor da proprio vento. Dolce, ti ritrovo per amari ricordi; di vani pensieri, oscuri del proprio ripetersi, sei la gloria più assoluta; ecco, padre del mio velato oceano ad esservi t’appresti, dove un tempo annegai ed ora voglio tornare.
Immacolato.
…possa il sentimento mio gelar la voce al grido dell’alba.
Entrai… per una dimora oscura entrai. Entrai, incisi il mio posto.
Tutti fecero parte di quella dimora, tutti dimorarono, tutti dimoreranno quella dimora.
Vana di ricordi, muta di doveri, arsa di battaglie: codest’è la terra d’astuti danni, la quale sotto al mio peso, oggi giace del lento nostro calpestare incerto, che fragile in sua fortezza, tenero in sua potenza, gioioso in suo sconforto mi rammenta un venerabile manto, ove miei più tremanti piedi stesero il loro cammino. E se avanti, per quel risuonar d’avanzare mite, il gentil volere mio timido s’appresta, non si sollevi volto che degno d’amabile vista al bianco d’un pargolo candore, possa germogliar in prossimi istanti del suo tempo mio incantevole ricordo. Ma ecco, tutto tace, tutto bisbiglia, tutto al cuor mio illuso ora somiglia. E sicch’io perdono vagamente chiedo a fragili, ingenue parol che d’umano istinto rimembrate al nostro dunque coloreranno d’esitante luce un prossimo domani, voce di chi la causa fu di tant’adunar di genti mente il proprio ascolto, ché miser’anche sol velato abbaglio d’asciugar mie più profonde ferite mai non si conosca.
Colpa, senza alcun voler: mia colpa, del mio narrante amor fatto di vuoto e ipocrisia, d’agghiacciante calore alla sprovvista, in mio nascosto tremolar timido e incerto.
Quale onore a tanto angelico andar di sue membra? Qual più fortunata vista di prescelta, nobil sorte ad accoglier in suo divino sguardo meritevole v’è d’apprestarvi riguardo? Quale mente più degna d’ospitar suo incantevole pensiero fra comuni mortali, in terra oggi a viver s’adempie? O triste sole, ingenuo di mio lucente inessere, donami di sol rimpianto in questa dimora, l’inutile speranza di nascer fra giovani sorrisi, ché mio apparente infinito obbedisce a sua presenza colma di più sublime gioia in sua purezza.
Col freddor dei tuoi anni piango l’assenza d’uno smarrito sogno.
…possa il sentimento mio gelar la voce al grido dell’alba.
Creato del ciel creato in mio creato capo.
Eterno ed infinito in mio finito a dire.
Vita vivente prossima in mio più vano credere.
Natura, di natural pensare, castigo o premio divino ci dai da mangiare.
Viviamo per un istante, immaginiamo intensamente.
Non un illustre inchino, ne più nobile saluto degno mai sia d’anche un sol tuo misero riguardo sfiorare nemmeno. O splendor di più soave immacolat’abbaglio, che per tuo prestigioso essere: doni grazia di vedere a ciechi, gioia d’ascoltare a sordi, pace di sognare a chi sperpera le proprie notti, ecco, per te, s’apron le porte celesti e melodiosi cori di angeli intonano il proprio inno, in onor di tua adorabile creatura: tu sei l’angelica dimora in cui l’amore più sublime vi ha preso affitto. Indegni gli occhi miei a tanto divino splendore, oggi ridon della sorte più leggiadra, ciò ch’ogni uman persona aspira come carezza: il saper di tua dolcezza.
Le mani tue godono della bellezza più suprema. O padre dei miei dunque, madre dei miei averi, che in grembo portasti la luce di chi non erra la propria salvezza, non merita, mi dico, tua divina persona d’esser trascritta per volgari fogli, indegni del loro stesso bianco, ma ogni più minuto lineamento tuo, possa risplendere, soave come stella, nell’oro più prezioso.
Così narrano di te i più nascosti versi nei silenziosi giorni del mio tempo, ove voce, di mio prestigioso passato, rimembra al suo dolente nascere, l’ombra d’un incerto cammino. O lacrima, dunque, del mio più mesto piangere, angelo del mio più vano credere, frase dei miei ripetuti versi: abbandona le giovani terre infeconde della loro bellezza, e vita rendi a coloro che stravolti, dalle rovine d’un lento appassire mite, oggi dormon dell’eterno spegnersi.
L’età che più cara mi fu d’accostar mio perduto inganno a fragili pensieri, che mente che mente offuscano e respiro annegano, col proprio lento andare, oggi rivivono il prodigio del loro triste adempimento, quand’ad adunar non nuoce in suo ricordo.
Non voglio che domani sia domani, che un’altra volta i raggi del sole donino respiro a più disillusi giorni, restino invece le tenebre del mio silenzio; e il buio, del lento suo trapassarmi forte, venga a liberarmi da questo corpo perduto di speranza.
Cercami in un sogno quello che mai conoscesti, quello che i più bugiardi passi del mio vivere, scolpirono nel silenzio.
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