Giuseppe Luigi

Poesie

RICORDI ESTIVI

 

 

 

RICORDI ESTIVI

 

Se gli si chiedesse qual è la prima cosa che gli torna in mente di quell’estate ed in particolare di quel posto sperduto nel deserto della Tunisia, Giuseppe risponderebbe, quasi sicuramente: <Luce e calore>.

E luce e calore sono i particolari predominanti, insieme ai colori, che un ragazzino di 13 anni può ricordare, a distanza, di un posto del genere.

La luce del sole, mai stata così abbagliante, era accresciuta dai riflessi di laghi salati e dalla sabbia; non aveva mai visto una <spiaggia> così immensa e ancora adesso non saprebbe dire come ci si sia trovato in mezzo, non si è accorto di quando, attorno a lui, hanno cominciato a sparire le piante, gli alberi, la vita; si è trovato a guardare distese di sabbia dal finestrino della macchina nuova di suo padre, senza neanche chiedersi come potesse essere accaduto.

Erano partiti, alla fine del mese di luglio, da Roma, diretti a Trapani per imbarcarsi su di una nave che li avrebbe portati in Tunisia.

Erano in quattro: padre, madre, fratello e lui.

Salirono sulla nuova Ford Scorpio comprata quattro mesi prima, giusto il tempo per rodarla e per assicurarsi che fosse adatta a quel tipo di viaggio, resa più incantevole o buffa a seconda dei casi, da quel portabagagli chiuso montato sul tetto e notato l’anno prima su altre auto incrociate durante il viaggio in Scandinavia.

Dopo i primi quattro giorni di mare passati poco distanti da Cartagine, o quello che il tempo ha permesso che ne restasse, e dopo quegli incredibili giorni passati sull’isola di Djerba in cerca di segni lasciati dai mangiatori di loto, si erano addentrati nel deserto per raggiungere il luogo dove uno sfortunato Saint-Exupéry cadde con il suo aereo, ma soprattutto per scoprire quale fosse quella sorpresa che aspettava Giuseppe e il fratello ad El Djem. La loro madre non aveva voluto dire loro nulla, aveva solo accennato ad una piacevole sorpresa che li attendeva una volta arrivati in quel piccolo paese. Inutili si erano dimostrati i tentativi di Giuseppe, durante i preparativi del viaggio, di ricevere delucidazioni da suo padre. Così l’attesa si era accresciuta, ma si era anche affievolita nei primi giorni, tanto che i due ragazzi non pensavano più cosa li aspettasse, ma al primo cartello stradale <per chiamarlo così ci vuole un bel coraggio> pensò il padre, la curiosità di Giuseppe si ridestò in tutta la sua grandezza: sentiva che se non fossero arrivati entro i successivi due minuti sarebbe esploso.

Intorno a lui qualcosa era e stava ancora cambiando in continuazione: era il paesaggio, si era fatto stranamente giallo, secco arido e capì, forse grazie alle parole di sua madre, che si trovavano nel deserto tunisino, piccola parte di quella immensa distesa di sabbia nota come Sahara.

Lo spettacolo che gli balzava agli occhi aveva fatto dimenticare ai due genitori tutte le preoccupazioni sui possibili pericoli che un viaggio fai-da-te come quello che stavano affrontando potevano sorprendere la famiglia.

Entrarono in questo villaggio che sulle mappe appare come un puntino con accanto le parole El Djem, Giuseppe era il navigatore dato che soffriva a sedere sul sedile posteriore e dato che il livello di sopportazione tra i due fratelli a così stretto contatto era molto basso, quindi sedeva accanto a suo padre, cosa che lo rendeva anche assai felice essendo molto legato e affascinato dalla figura paterna. Fu lui quindi che lo vide per primo, fu un attimo: stavano seguendo le indicazioni di un signore a cui la mamma aveva chiesto in francese, tra i quattro era l'unica che non parlava inglese, ma anche l’unica che sapesse parlare francese, come raggiungere un certo posto, molto probabilmente il centro del paesino, e mentre guardava a destra e a sinistra senza sapere cosa voleva vedere, attraverso un vicolo tra due abitazioni vide una parte di una costruzione di colore diverso rispetto alle altre case, si accorse che per farla era stata usata la pietra nuda e si accorse che aveva dei buchi ovali, ma non vide di più. Poco più avanti svoltarono e si trovarono in una piazza, grande per le dimensioni del villaggio, al centro della quale si ergeva un anfiteatro. Per chiunque la vista di quella costruzione poteva risultare naturalmente molto interessante, ma per un ragazzino che veniva da Roma la cosa era impossibile da accettare; Giuseppe si ritrovava di fronte ad un Colosseo e non si trovava in via dei Fori Imperiali, ma in Africa, in un paese che con la sua "capitale" aveva pochissimo in comune".

Stava seduto a bocca aperta e guardava e non si era accorto che si erano fermati e che suo fratello era già sceso. Guardava e non pensava, o forse pensava ma non capiva i suoi pensieri, finché la madre non li chiamò e non gli disse: "Vi piace la sorpresa?", "Si può entrare?" fu la risposta.

Si avviarono verso l’entrata e si accorsero che questo anfiteatro era del tutto simile, nella forma, al suo gemello molto più famoso, era meno antico, ma soprattutto era più piccolo e meglio conservato, era quasi tutto intero ed era bellissimo perché ciò che lo circondava gli conferiva una sorta di mistero. Giuseppe e Leonardo passarono ore a girare e a giocare facendo finta di essere gladiatori o calciatori, salirono ovunque, guardarono ogni buco, scesero nei sotterranei, videro la sala delle armi, il palchetto principale e, purtroppo, non ebbero quindi molto tempo da dedicare alla piazza esterna in cui erano in bella mostra serpenti cobra, scorpioni, vasi, e ogni sorta dì souvenir.

Ma a loro non importava dato che così lontani da casa loro, in un paese tanto diverso, avevano trovato qualcosa che gli ricordasse la loro città, da quel momento nei giovani ragazzi crebbe l'amore per quel paese ricco di bellezza ed il ricordo che ne portano non si è guastato neanche dalla brutta esperienza dei giorni trascorsi attraverso l’Algeria, un paese sporco, pieno di pericoli, per raggiungere il Marocco dove, invece, passarono altri quindici giorni fantastici, ma questa potrebbe essere un'altra storia.

 

 

 

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