"Il Navarrese" 

 

 

1973





Il treno fece il suo ingresso in stazione verso le nove del mattino dopo una lunga e irritante sosta
a poche centinaia di metri dal terminal , sotto il sole già cocente ed abbagliante di quella mattina
di agosto del 1973 .
Avevo diciassette anni e tantissimi anni dopo mi sarei soffermato a pensare a come sarebbe diversa
la vita di ciascuno se potesse scattare un segnale, un avvertimento di qualsiasi tipo , ogni qualvolta
veniamo a trovarci in un luogo , una situazione , o al cospetto di persone , ancor più se sconosciute,
che , senza minimamente sospettarne , finiranno per rappresentare un anello di quella inestricabile catena di casualità e causalità attraverso cui si dipana la nostra vita , ed io a quel punto e soprattutto
quell’anno , di segnali avrei già dovuto riceverne abbastanza. Certo non saremmo mai in grado di interpretarli , questi segnali , non potremmo mai sapere il perché le persone che ci stanno davanti , il luogo in cui ci troviamo o la situazione che si sta determinando, andranno a costituire un nodo cruciale della nostra vita , uno di quegli incroci del fato che serve solo a rimandarci ad un altro incrocio , e ad un altro ancora , fino alla fine ; forse la paura avrebbe in noi il sopravvento su qualsiasi altro impulso, forse tenderemmo a proiettare la nostra vita nel futuro con maggior consapevolezza di quanta ne abbiamo di solito ; la smetteremmo , finalmente , di vivere pensando di essere eterni , e sicuramente la finiremmo di attribuire importanza, e perciò concentrare in esse attenzioni e tensioni inusitate , a cose o persone che hanno scarso interesse nel nostro presente , e rilievo alcuno nel nostro futuro.
Già la sagoma del Vesuvio ,oltre i tetti dei brutti palazzi e le raffinerie dei quartieri meridionali , lattiginosa e sfuocata nella foschia del mattino , aveva preannunciato il sospirato ritorno , ma fu solo quando riuscii a scendere dal treno , sospinto a terra da una valanga di valige e bambini già precocemente incazzati , che urlai un vaffanculo di sollievo attirando , per un attimo , l’attenzione degli astanti , del tutto ignari di quanti e quali moti di liberazione quel grido fosse gravido : innanzitutto era finito quel viaggio da incubo iniziato la sera prima nella stazione di Cremona , e durato dodici lunghissime ore , trascorse rannicchiato a terra , nel corridoio , forzatamente costretto in quella posizione per tutta la notte , annichilito dal caldo , dal sonno , dai cattivi odori e da barzellette cretine , e altresì tormentato dall’andirivieni di un gruppo di bambini in preda a continue stimolazioni diuretiche ; finalmente , poi , ero tornato a Napoli e avrei potuto godermi qualche giorno di mare dopo un inutile e vuoto peregrinare nel profondo nord , che aveva devastato in me ogni barlume di identità nazionale , riportando indietro di cent’anni l’orologio della Storia ; e finalmente , ma non necessariamente ultimo in ordine di importanza , tra poco mi sarei liberato di Gennaro , il mio compagno di viaggio.
Parlare di Gennaro è difficile come parlare del niente : prendete una persona , spogliatela di ogni forma e sostanza , estraetene , fino all’ultima stilla , aspirazioni e sentimenti , accertatevi che non
vi sia la più remòta traccia di cervello o qualsivoglia attività cerebrale , e quando alla fine avrete verificato l’inutilità di ogni tentativo di stimolare in essa una benché minima reazione umana ,
allora sarete riusciti a clonare Gennaro.
Egli dunque non era propriamente mio amico , era stato Mario , lui si mio amico e compagno di
scuola , che vattelappesca dove , come e perché l’aveva conosciuto , e da allora , un paio d’anni circa , Gennaro finiva , di tanto in tanto , col rotolare nei miei pomeriggi.
Il verbo rotolare è l’unico che mi viene in mente dovendo descrivere un qualsiasi movimento che
lo riguardasse , e non perché fosse grasso , anzi era piuttosto mingherlino , ma perché non avevo mai scorto in lui niente di volontariamente determinato. Rotolava , appunto , come una pallina ,
sospinto da forze a lui ignare , e ancor più ostili quando lo smuovevano dal suo naturale punto
d’inerzia che era costituito dal divano del salotto di casa sua.
Gennaro era una specie di gatto , rincoglionito dalla sua stessa inutilità , e proprio come un vecchio gatto rincoglionito egli depositava la sua esistenza/inesistenza su quel divano , ma anche in ciò mi
era difficile pensare che vi fosse , alla base , una sua volontà precisa e non piuttosto una forza di
attrazione elettromagnetica , che obbedendo ad un’ineludibile legge della Fisica lo teneva inchiodato a quel divano : impossibile distinguerli l’uno dall’altro , erano diventati un insieme
inquietante.
E proprio la visione di quell’insieme che , inevitabilmente , ci trovavamo davanti quando andavamo a casa sua ; a volte si rendeva necessario l’intervento dell’intero stuolo di fratelli
e sorelle ( non so quanti fossero , non sono mai riuscito a censirli ) per svegliarlo e tirarlo
giù , e in quel preciso istante era possibile , grazie ai diversi strati di polvere depositati , non
solo riconoscere la sagoma di Gennaro sui cuscini del divano , come stimmate , ma anche da
quanto tempo vi stesse giacendo.
Lunghi riccioli biondi ossigenati ( a causa di uno shampoo sbagliato , sosteneva lui ! ) , piccoletto
ma nell’insieme gradevole , Gennaro era solito stringere la propria inconsistenza in un vestire
attillato che rendeva ancor più effimera e scivolosa la sua impresenza , ed il fenomeno era particolarmente visibile/invisibile nell’affollatissimo autobus che , inutilmente , lo portava a scuola
la mattina , quando si insinuava come ectoplasma nei rari interstizi di quella colossale calca e attraversava , da cima a fondo , il mezzo , senza che nessuno se ne accorgesse . Nessuno che lo salutasse , nessuno che lo conoscesse .
Aveva tre o quattro anni più di noi , ma non erano certo sufficienti ad accreditare , come vere ,
tutte le cazzate che raccontava di sé , soprattutto in fatto di ragazze e batteria ( altra sua immaginaria passione ) ; era , insomma , un contaballe, e del resto i soli punti di riferimento nella sua vita/non vita eravamo noi e il divano : quando non era con noi era sul divano , e quando non era sul divano era con noi , perciò non capivamo quando, e come, potessero materializzarsi le sue storie . A ben vedere , tutta la sua casa era come un microcosmo in cui ciascuno era smosso da oscure forze gravitazionali dal proprio punto di inerzia . Non c’erano volontà determinate , in quella
famiglia , ma tutto si muoveva secondo un moto perpetuo casualmente innescatosi , e a volte , scherzando , io e Mario provavamo ad immaginare cosa sarebbe successo se si fosse determinata un’improvvisa e malaugurata situazione di stallo : la casa si sarebbe trasformata immediatamente nel castello della “Bella Addormentata “ , con ben poche possibilità di transito ( al sesto piano ! ) per principi azzurri e consimili . Da parte mia , se mi fosse toccata la parte del principe azzurro , avrei svegliato con un bacio , solo Rossella : un graziosissimo volteggio bruno , unica impalpabile traccia d’umana consistenza in quella casa . Troppo poco , comunque , per potermene innamorare.
Ci pensasse Mario a svegliare , con un bacio , Gennaro : in fondo era stato lui che l’aveva conosciuto e me l’aveva trascinato fra i piedi.





Mario l’avevo conosciuto , invece , quattro anni prima , nel 1969 : il primo giorno di scuola
all’istituto tecnico. Compagno di banco , e nello stesso identico momento in cui ci trovammo a sedere di fianco sarebbe dovuto scattare, per me , un primo importantissimo segnale , un avvertimento di cui , comunque , non avrei potuto coglierne la portata. Non so attraverso quale
cervellotico criterio fummo assegnati alla stessa classe , in fondo provenivamo da scuole diverse e
da zone diverse della città , ma fu sicuramente un intricatissimo groviglio di coincidenze , di minuti
e secondi che s’incastrarono e sovrapposero , a determinare l’ordine d’arrivo in classe di noi tutti ,
facendo sì che io e Mario finissimo seduti allo stesso banco . Se solo un’inezia ,come uno starnuto del cielo , fosse intervenuta a modificare la casualità che aveva dato origine a quell’evento , allora
tutta la mia vita avrebbe avuto un altro corso.
Mario era un tipo magro, un po’ più alto di me , scuro e occhi azzurri , era il primo di tre fratelli che, unitamente ad un padre estremamente egocentrico , costituivano l’unica ragion d’essere della
mamma , assolutamente priva di una propria identità . Timido e riservato , egli si muoveva nella
vita di tutti i giorni badando accuratamente di rimanerne ai bordi. Mario viveva ai bordi di tutto ,
come attento e arguto testimone non protagonista.
Non avevamo molto in comune , ma a tredici anni non sono tante le cose che si possono avere in comune , di certo ci accomunava l’assoluta inadeguatezza e il disagio che provavamo in quella
scuola , data la mia naturale avversione per gli studi tecnici e la naturale avversione di Mario per gli studi in genere.
Quella mattina eravamo arrivati entrambi con il vestitino buono , i capelli corti e la faccia della
domenica, in più Mario portava , all’occhiello della giacca , un distintivo dell’Azione Cattolica.
Da quel momento diventammo inseparabili , dividemmo tutto , compreso un intero anno scolastico
passato più in mezzo al mare che al nostro banco di scuola , fino a quel giugno del 1973 quando ,
in seguito alla rovinosa crisi che travolse l’azienda del padre , Mario si trasferì a Firenze con tutta
la famiglia .
Egli era stato il mio primo vero amico , fino a quel momento , nella mia vita di bambino avevo avuto come unica compagnìa la mia fantasia , mi ero costruito un mondo tutto mio , speciale ,una
sorta di monolocale dell’immaginazione nel quale non c’era posto per altri , e d’altra parte nessuno avrebbe potuto partecipare a quei giochi inanimati che si sviluppavano solo nella mia mente.
Ma ora stavo crescendo , ben oltre i miei tredici anni . All’inizio di quel 1969, fu una terribile notizia , appresa dal telegiornale , che arrivò a turbare la mia coscienza di bambino e , probabilmente a segnare in maniera netta , decisa come il taglio della ghigliottina , il confine fra
un’infanzia mai stata tale fino in fondo , e un’adolescenza già precocemente attraversata da inquietudini adulte.
Si chiamava Yan Palak ed era uno studente di Praga , quando in una fredda giornata di gennaio
aveva inondato di benzina i suoi vent’anni e s’era acceso come un carro di fuoco lanciato contro
i cani sovietici che stavano sbranando la sua Nazione , i suoi fratelli cecoslovacchi e la sua giovinezza . Ma questa è solo una successiva rielaborazione di un ricordo che in quel momento mi
turbò profondamente perché per la prima volta mi proponeva l’incomprensibile e angosciante idea
della morte , benché fino a quel momento ai miei occhi e alla mia mente di bambino , la Morte non
fosse mai stata risparmiata in ogni sua manifestazione e nelle truculenti rappresentazioni , pagane ,
che ne facevano mia nonna e le sue sorelle nei loro deliranti racconti , sempre animati da morti
che andavano e venivano dalle loro tombe , spiriti , ora maligni,ora benigni , che inquietavano
le notti dei vivi. Ma stavolta era diverso , e la Morte , per la prima volta non mi appariva come
un osceno gioco da adulti , ma come un concetto , un’idea , assolutamente inesplicabile , come
un vortice terrificante nel quale si disperdevano , straziati dal vuoto di un’incommensurabile
solitudine , i frammenti dell’umana e vana esistenza. Quale razionale meccanismo dissolutorio
potevo mai associare all’idea della Morte , e come potevo comprendere il senso del gesto col
quale il giovane Yan aveva posto fine alla sua vita ? Potevo solo provare orrore .
Insomma , fu la scoperta della Morte prima di ogni altra cosa a portarmi via l’infanzia.
Un’altra morte violenta giunse , poco dopo , ad oscurare ancor più i miei pensieri , fu quella di
Margherita : Margherita era una prostituta e la scena della sua fine non fu la Grande Storia ,
ma un oscuro e tetro basso dei Quartieri Spagnoli , posto all’angolo più oscuro del vicolo più
tetro. Come un budello dell’inferno.
C’era solo un lampione, appeso ad un filo teso fra due palazzi , ad illuminare , si fa per dire , il vicolo , ma quando nelle sere d’inverno il vento soffiava un po’ più forte , allora il lampione dondolava come una campana e insolitamente finiva con il proiettare più luce , sia pure ad
intermittenza , nel basso di Margherita : ora la luce , ora il buio , la luce , il buio , la luce , come
un gioco d’effetti sul palcoscenico delle sue notti , come un rintocco di morte sul suo letto a ore ,
e anche quella notte Margherita doveva averlo sentito . Dai suoi angoli di luce , lei aveva sempre
estratto , per me , una carezza e un sorriso ; ora Margherita non c’era più , ma non c’era più
neanche quel bambino bene educato che tanto la inteneriva , e chissà perché.






I riverberi sessantotteschi di quell’autunno avevano ben presto strappato i nostri vestitini buoni ,
allungato i nostri capelli e sporcato le nostre facce della domenica , e di lì a poco prendemmo a frequentare il circolo maoista animato dal nostro professore di chimica : due stanze disadorne
e fredde al piano terra di un edificio fatiscente di via Oberdan , illuminate solo dal faro del
Grande Timoniere e della sua Rivoluzione Culturale , qualche manifesto alle pareti e pochissimi
libri su uno scaffale , di tanto in tanto arrivava , via Londra , una copia della rivista “Nuova Cina”
che nessuno leggeva perché scritta in inglese , un paio di volte era arrivata persino in cinese ,
il che faceva lo stesso. Ben poco sapevamo , allora , di cattivi maestri e avanguardie rivoluzionarie ,
però in quelle stanze , mentre prendevamo lezioni di rivoluzione , fumammo la nostra prima sigaretta e una sera , era la prima volta , prendemmo a parlare dell’ “altra metà del cielo “.
Eravamo ormai pronti a iniziare l’esplorazione di quell’universo a noi completamente sconosciuto
e meravigliosamente misterioso : dalla scoperta della Morte a quella dell’Amore , erano passati mesi di strani malesseri , durante i quali si erano smaterializzati , uno dopo l’altro gli ultimi feticci
del mio vecchio mondo bambino.
Da quella sera imparai , ed ogni giorno di più , ad apprezzare ed ammirare le donne , oltre che ad
amarle , ma nulla dirò su quegli occhi che , per primi , cambiarono la mia pelle di serpente.
Mario era timido e impacciato con le ragazze , come in tutte le cose , concentrava sempre un grande
entusiasmo che sembrava dovesse proiettarlo chissà dove , ma rimaneva sempre lì : coltivava sogni
che non osava inseguire . Io invece mi innamoravo un giorno si e l’altro pure , e i sogni rappresentavano , per me , il vento che teneva costantemente tese le mie vele.
Passarono in fretta quei quattro anni che divisi con Mario , fino a quella primavera del ’73,
quando partì lasciandomi un crampo allo stomaco e Gennaro in eredità.






L’idea di andare a Firenze a trovare Mario era stata di Gennaro , dopo avremmo proseguito per Cremona dove vivevano due sue sorelle ( altre due ! ) . Aveva pensato lui a tutto , e questo mi
preoccupava ; più volte gli chiesi dei biglietti e degli orari , nonché degli accordi presi con Mario.
Sembrava tutto a posto , e comunque avevo deciso ormai di rinunciare alle vacanze al mare e partire con lui in una sera di fine luglio .
Ero partito senza salutare Angela , la mia ragazza. L’avevo conosciuta qualche mese prima alla festa di compleanno di Antonella , mi piaceva molto ma questo non era sufficiente a tenere a freno
la mia voglia di correre lontano , sempre da un’altra parte , ovunque un soffio di vento potesse scuotere la vita . Avevamo litigato , anzi era lei che aveva litigato : mi rimproverava di essere
incostante , d’avere la testa sempre da un’altra parte e di dimenticarmi , persino , di lei .
Aveva ragione.
Partimmo alle nove di sera da Napoli ( che sciocchezza! ) ed arrivammo a Firenze alle quattro del
mattino . Stazione di S.M.Novella , Piazza della Stazione . Un turbinìo di fuochi d’artificio non
sarebbe valso , in quel momento , a farmi capire come quei luoghi mi sarebbero presto diventati
familiari : il buffet della stazione dove avrei mangiato tante volte , persino una sera di Natale ,
la fermata dell’autobus davanti al bar Deanna , il palazzo del PCI in via Alamanni ; quella città
sarebbe presto diventata la mia nuova città , e ancora non lo sapevo , segnando , ancora una
volta con un taglio netto , il confine fra adolescenza ed età adulta . Quattro anni dopo , in quella
città , avrei sposato un meraviglioso pancione con gli occhi blu.
Gennaro saltava come un grillo , instupidito dal freddo insolito di quella mattina , da un angolo
all’altro della piazza , mentre io rimasi seduto sui gradoni della stazione ; aspettavamo la partenza
della prima corsa dell’autobus , e intanto trovammo anche il modo , in un forno di Borgo Ognissanti, di farci mandare a quel paese dal fornaio che lo presidiava .
La prima corsa dell’autobus partì , puntuale , alle sei . Alle nove eravamo già su un altro treno
diretto verso il nord : semplicemente , Mario non c’era . Era venuto a Napoli a trovare noi .
Questo , era Gennaro ! La delusione e la rabbia erano tali che avrei voluto subito tornarmene a
Napoli , ma vuoi per il complicatissimo biglietto chilometrico che Gennaro aveva comprato ( e
che sembrava dovesse tenerci uniti per il resto dei nostri giorni , o dei chilometri ) e un po’ per
la curiosità di spingermi per la prima volta tanto a nord , decisi di continuare il viaggio .
Non scambiammo più una parola , d’altronde non avevamo molto da dirci visto che in due anni
l’avevo sentito articolare pochissimi pensieri compiuti , ma in compenso confusi , e comunque
riducibili ad un unico assioma secondo cui le donne sono tutte puttane , tranne naturalmente la
mamma e le sorelle.
Il nervosismo e la tensione non gli impedirono di dormire durante tutto il viaggio , nove ore circa ,
compreso il tempo dei vari cambi che dovemmo effettuare.
Di quel trasferimento ricordo solo il tratto sul trenino che da Fidenza ci portò a Cremona , attraverso
i campi assolati della Bassa Padania . Il treno era deserto , tutto il mondo era da un’altra parte e noi
stavamo andando nella direzione opposta , Gennaro dormiva sdraiato lungo i sedili di fronte a me
ed io guardavo , sorpreso , quel paesaggio per me inconsueto, non avevo mai visto niente di simile , se non al cinema , quella vastità di campi che si perdeva a vista d’occhio e un orizzonte senza mare o montagne , solo un’inutile linea di confine fra la terra e il cielo ; non so quando fosse cominciata
quella visione , sicuramente dietro ad una curva perché , sempre , tutto quello che non riusciamo neanche ad immaginare , si svela improvvisamente dietro una curva .
Cominciavo a rimpiangere di non essere tornato a Napoli , e pensavo ad Angela: ero sinceramente dispiaciuto d’essere partito in quel modo , e forse sapevo già che non l’avrei ritrovata al ritorno.
Era molto bella , capelli e occhi nerissimi , intensi e trasparenti come la notte in fondo al mare ,
fisico atletico e teso come l’arco di Ulisse , sguardo dritto e sicuro , imponeva la sua “presenza”
con la sicurezza e la disinvoltura di donna già adulta . In lei mi ero innamorato , forse , di una
idea già matura dell’amore ma , è buffo , di quella storia ricordo solo l’inizio e la fine , e più niente.
Aveva ragione , ero troppo assente e a volte mi dimenticavo persino , di lei . Il fatto è che Angela
era una bellissima nave da crociera che viaggiava sempre lungo rotte riparate e sicure , quando
non rimaneva saldamente legata agli ormeggi , ed io un catamarano con le vele perennemente spiegate al vento.

Alle sei del pomeriggio arrivammo a destinazione dopo un ultimo trasferimento in pullman da
Cremona a Farfengo , frazione di Grumello .
Farfengo era poco meno di una virgola polverosa , anch’essa dietro una curva , in mezzo a quel deserto infuocato di campi e campi . Come un errore di punteggiatura di uno scolaro poco diligente.
Una grande fattoria , tre case ,un’osteria , e una chiesetta in fondo all’unica stradina .
C’erano più abitanti a casa di Gennaro che in quel villaggio . Poche anime , si sarebbe detto ,
pochissime , dicevo io , giacchè non ero certo che tutti ne possedessero una .
Non ci aspettavamo un comitato di accoglienza , anche se i parenti di Gennaro erano più che sufficienti ad allestire una parata , ma nemmeno ci attendevamo tutta l’ostilità che in breve tempo
dovemmo scoprire , e che nasceva , ci spiegò Tina , la sorella maggiore , da una singolare situazione
che era venuta a crearsi e della quale lei stessa ne era indirettamente responsabile : Tina aveva sposato , e non so proprio come e dove si fossero conosciuti , il fattore dell’azienda agricola del villaggio , e alla festa di matrimonio sua sorella aveva conosciuto e poi sposato il postino/meccanico del medesimo villaggio , altra festa di matrimonio ,dunque , altri incontri ,
altri matrimoni , altre feste e così via ; in poco tempo si era formata una colonia di ragazze napoletane sposate ai giovanotti locali , gettando nella più nera disperazione tutte le ragazze in
età da marito e condannandole allo zitellaggio eterno per esaurimento della più preziosa fra
le materie prime , un marito !
Ma cosa potevamo farci noi , che certamente non avremmo rubato mariti a nessuna ?
Anzi , potevamo rappresentare l’occasione per prendersi qualche rivincita ; ma non ci
furono rivincite e quei giorni passarono nella noia , per me depressiva , più totale.
Ci avevano sistemato nella grande casa di Tina , in una camera che affacciava sull’aia ,
e nella quale penetrava un forte e nauseante puzzo di stalla , oltre che zanzare grandi come
pipistrelli , e pipistrelli grandi come aquile , per non parlare dei muggiti del bestiame , del gallo
che cantava a tutte le ore , e il controcanto di galline ,oche e di chissà quanti e quali altri animali .
So che è un’eresia , ma com’era dolce , e ne avevo già nostalgia , il rumore del traffico e persino
quel puzzo di piscio e ferraglia nelle vecchie stazioni della metropolitana !
Gennaro cadde subito in letargo e rimaneva sveglio , ormai , solo durante i pasti , la qual cosa
se da un lato mi faceva piacere , dall’altro non mi procurava particolare sollievo da quella noia mortale e dal senso di inutilità , che avvertivo , di quella situazione.
A volte facevo delle lunghe e sterili chiacchierate con la mamma di Gennaro , anche lei lì per
assistere l’altra figlia in procinto di partorire ; inutilmente cercavo di scambiare qualche battuta
con i vecchi del villaggio , gli unici che fosse possibile incontrare , ma questi comprendevano solo il loro dialetto ; le poche ragazze erano inavvicinabili e piuttosto antipatiche , e questo spiegava
molte cose , tutte tranne una , l’unica che mostrasse interesse per le mie attenzioni , ma fui prontamente ammonito dal marito di Tina , il fattore , che sorvegliava ogni mio movimento , a lasciar perdere : la ragazza era “molto chiacchierata” , mi disse , e lì non eravamo in città , io presto me ne sarei andato ma le “chiacchiere” sarebbero rimaste nella “sua casa “. Non capivo , ma per non torturare ulteriormente i pensieri del mio premuroso ospite , lasciai perdere .
Provai , allora , ad ammazzare i lunghi pomeriggi con delle passeggiate in bicicletta , dimenticando
che per me era più facile affrontare un toro scatenato piuttosto che quelle strane bestie a due ruote,
e difatti ne venivo sistematicamente disarcionato , a volte danneggiandole e suscitando l’ira del
malcapitato che me l’aveva prestata. Dopo un po’ non trovai più una bicicletta in tutto il villaggio.
La mia cultura metropolitana si scontrava sempre di più con quella realtà nella quale , mio malgrado, mi trovavo immerso , e il senso di insofferenza aumentava di giorno in giorno .

Se la solitudine dei campi aveva ispirato generazioni di poeti e poetanti , lì capii che non avrei
mai potuto fare il poeta .
A rompere l’ossessiva monotonìa di quelle giornate intervenne , finalmente , la nascita del nipotino
di Gennaro , e come ad un novello Gesù Bambino , ci apprestammo a rendergli visita , ma siccome
nessuna cometa apparve nel cielo di Lombardia , finimmo col perderci nel grande ospedale di
Cremona e arrivammo alla Santa Grotta quando l’orario delle visite era ormai passato.
Anche alla cerimonia del Battesimo , che ebbe luogo nella chiesetta a otto metri in linea d’aria
dalla nostra camera , riuscimmo ad arrivare solo mentre tutti ne uscivano : era stata , quella , la prima volta in due anni che mi ero ritrovato da solo con Gennaro , giurai a me stesso che sarebbe stata l’ultima .
Fra sofferenze e insofferenze , trascorsero anche quegli ultimi giorni a Farfengo senza che nulla
della cultura contadina oltrepassasse l’impenetrabile cortina di pregiudizi che avevo eretto fin dal
mio arrivo , avevo imparato solo , dal fattore , a tagliare il vino con la birra e qualche volta ancora
lo faccio. Appresi alla radio che la Canottieri Napoli aveva finalmente vinto ,dopo tanti anni , il
campionato di pallanuoto , e questa notizia ebbe su di me un effetto benefico sicuramente spropositato , semplicemente perché mi restituiva l’idea che al di là di quell’esilio polveroso ,
esisteva ancora un mondo fatto di palazzi , mare , traffico caotico , strade affollate , facce e
lessico familiari , e che sarebbe bastato prendere un treno per raggiungerlo . Il difficile era
svegliare Gennaro , ma quel treno , finalmente , una sera lo prendemmo .







Gennaro fu l’ultimo passeggero a scendere dal quel vagone , dopodiché ci incamminammo in
silenzio , come eravamo quasi sempre stati , verso la stazione degli autobus di Porta Capuana ,
da dove lui sarebbe ritornato a casa , sul suo divano , mentre io avrei preso il pullman per
Castelvolturno dove avrei raggiunto i miei che stavano lì trascorrendo gli ultimi spiccioli di
vacanze . Fu quando passammo sotto l’arcata della porta , che un tempo rappresentava l’ingresso
principale in città , che mi ricordai di nuovo di Angela , salutai allora , in tutta fretta , Gennaro , ed
entrai in un bar per chiamarla : non so neanche cosa le avrei detto se avesse risposto ,
ma non c’era , era andata al mare col suo ragazzo , mi disse la voce che rispose al telefono .
Avrei voluto dire che il suo ragazzo ero io , ma non dissi nulla , salutai educatamente, riattaccai
e mi avviai verso la fermata del pullman .
Con la fronte appoggiata al vetro del finestrino cercavo di dormire , mentre il pullman usciva dalla
città attraverso i Campi Flegrei , erano ormai ventiquattr’ore che non dormivo , ma non ci riuscii
neanche in quel momento , continuavo a pensare ad Angela e a com’erano andate le cose , con un
filo di tristezza ma anche con una gran voglia di arrivare presto a Castelvolturno dove mi aspettava
Carlo e il resto della tribù , come la chiamavo io.
Con Carlo si chiudeva il quartetto : abitava al piano di sopra a quello di Gennaro ed era per questo che l’avevamo conosciuto ; le nostre famiglie , la mia e la sua , strinsero subito una forte amicizia ,
ben prima di noi stessi , tanto da passare insieme le vacanze , unitamente ad altre tre famiglie di
loro parenti . Noi ragazzi eravamo una quindicina , con età variabili dai dodici anni della piccola Luisa e del suo gemello , e i diciannove di Maria ,la “vecchia” del gruppo , ma a prescindere dalla
età ci muovevamo quasi sempre tutti insieme , come una tribù nomade occupando tutti gli spazi ,
quasi seguendo il principio di entropia dell’espansione dell’universo.
Io e Carlo non avevamo interessi in comune se non il gusto d’avventura che ci avrebbe accomunati
soprattutto nei due anni successivi , frequentavamo scuole diverse e avevamo amici diversi per questo non ci frequentavamo molto durante il tempo della scuola , ma passavamo insieme , via di
casa , tutta l’estate , tranne quell’intermezzo di vacanze che le nostre famiglie trascorrevano insieme. Importante punto in comune fra noi , era l’insofferenza per Gennaro.
La prima a venirmi incontro al mio arrivo , fu Antonella , sorella di Carlo e amica di Angela ,
mi abbracciò e mi chiese subito di Angela : feci finta di niente e passai a salutare gli altri , ma
prima ancora che ebbi finito il giro , avevo già notato , nel gruppo , una faccia nuova . un bel viso
di ragazza che , in disparte , osservava incuriosita tutto il trambusto che il mio arrivo aveva
suscitato. Prima ancora che me la presentassero era già scattato qualcosa e di sicuro era già
svanito quel filo di tristezza che mi aveva lasciato Angela .

Non ricordo più né il nome né il volto di quella ragazza , solo l’indirizzo , stranamente , lo ricordo
ancora . Passammo insieme il resto della giornata e l’intera notte , nessuno dormì quella notte ,
era la festa di fine vacanze ; degli altri non mi occupai più e nessuno osava disturbarci , a parte
la piccola Luisa , che per me stravedeva e , di tanto in tanto , veniva a rompere le scatole saltandomi
sulle spalle : un paio di bacini e filava via come uno scoiattolo .
Rimanemmo tutta la notte sullo chalet della spiaggia , a ridere e a bere , a ballare e fumare fra frutti
di mare e fiumi di birra , e forse fu l’effetto della birra ma ad un certo punto mi disse una cosa che
mi fece particolarmente ridere , mi disse che assomigliavo a Byron o a qualche altro poeta inglese
dell’ottocento . Figurarsi , io che passavo almeno un’ora al giorno a pensare a come sarei stato nel
duemila !
La notte ha la strana caratteristica di sembrare interminabile quando è ancora giovane , poi , nel
breve volgere d’un battito d’ali , a tradimento , è già finita , e prima ancora di rendermi conto di
essermi innamorato , lei era già partita in una nuvola di polvere sul viale che attraversava la
pineta , lasciandomi una gran pena dentro e il suo indirizzo : via George Sorel , 7-Roma.
Chissà perché lo ricordo ancora , a quell’indirizzo non ho mai mandato neanche una cartolina .

Poche ore dopo partimmo tutti , e al momento dei saluti qualcuno mi fece notare che non l’avevo
nemmeno salutato al mio arrivo , ma eravamo davvero tanti !
Anche mio padre , in macchina , mi disse che non aveva ancora avuto “l’onore” di parlare con me ,
e figurarsi se quello era il momento : stavo malissimo , ero distrutto , incapace persino di fare progetti sul come fare per andare a trovarla a Roma , che non era poi così lontana , ma sentivo già
l’inutilità di qualche visita sporadica , era altro quello che volevo ; erano ormai più di sessanta ore
che non dormivo .
A casa dormii per più di quindici ore consecutive , ma al risveglio stavo peggio di prima .
Non mi ero mai sentito così , e non sapevo proprio cosa fare per scuotermi da quello stato di
prostrazione nel quale ero piombato a peso morto. Cosa potevo fare ? Correre a Roma ? E poi ?
Decisi allora che la miglior cosa da farsi era quella , intanto , di levare di nuovo le tende , anche perché non ne potevo più delle insistenti e fastidiose domande di mia madre , e andare a rifugiarmi
per un po’ a casa di mia zia , sui Quartieri Spagnoli .
Fino a qualche tempo prima avrei detto a casa di mia nonna , ma la nonna era morta all’inizio
di quell’anno.



Dal paesaggio collinare del Vomero , lungo le pendici a valle del Corso Vittorio Emanuele , e giù
fino a Toledo , sono i Quartieri Spagnoli , raggiungibili dall’alto del corso attraverso strade e
gradinate che costituivano l’originario collegamento fra città murata e casali e borghi rurali ,
creati con l’ampliamento vicereale e inizialmente destinati all’acquartieramento delle truppe
spagnole.
Una volta Pasolini ebbe a dire che Napoli è l’unica città araba a non avere un quartiere occidentale ,
era una sciocchezza o una provocazione intellettuale , tuttavia è difficile non riconoscere nei Quartieri , la medina di una qualsiasi città araba , attraversata dal grande souk di Taverna Penta che
scende dritto come un fuso , dalle prime rampe del corso , dov’era la nostra casa , fino a Toledo.
Un percorso quotidiano attraverso gli odori , i colori e le voci di quella varia umanità che ne popolava le strade , i bassi e le botteghe , come un unico afflusso di sangue che quell’antico
cuore di tufo si ostinava a pompare nelle vene della città .
Sangue popolano , sangue reietto di ladri e contrabbandieri , di puttane e truffatori.
Sangue e voci di donne a rincorrere figli , troppi ; una litania lunga come il giorno e dolente
come il lamento del vento , autentiche protagoniste della scena di quel teatro , eroine di quella quotidiana fatica di vivere figlia di un inganno scellerato e sposa di un destino svelato in un mazzo
di carte truccate .
Taverna Penta , come il meridiano di Greenwich , dettava il tempo e tutte le cose sembravano animarsi intorno ad essa come seguendo un movimento astrale di corpi celesti , dallo sbattere di
una porta fino all’alternarsi del sole con la pioggia , e gli odori che , in una sequenza unica e irripetibile come un codice genetico , impregnavano l’aria da un incrocio all’altro , ciascuno dominante nel suo tratto : quello acre e pungente del cuoio e del mastice della bottega di scarpe
posta all’inizio della strada , poi l’odore dolce e intenso del pane di Saverio , quello del caffè tostato
della “Bruna” e delle pizze fritte della “Rossa” ( che in realtà era un travestito ) , poi il vapore delle
patate e delle pannocchie bollite , i banchi della frutta di Mimì fra l’odore forte del vino di Giovanni
e i banchi del pesce nel profumo di lavanda dei detersivi di Finizio , e ad ogni incrocio , come una virgola o una pausa dei sensi , sigarette e prostitute facevano mostra di sé , appena confuse fra i colori della frutta di stagione .
Ad uno di quegli incroci c’era stata Margherita , che nel tempo libero dalla sua principale professione vendeva pizze fritte , sigarette di contrabbando e numeri del lotto clandestino ,
e spesso , nel pomeriggio , il suo basso , come tanti altri , si trasformava in bisca .
Insomma , ogni incrocio come l’eterno crocevia fra il bene ed il male , lecito ed illecito , come una carambola di dadi perennemente sospesa fra miseria e fortuna.

Oscar Wilde amava ripetere che “ tutto quello che può rendere piacevole la vita , o è illegale ,
o è immorale , o fa male alla salute “ ; sui Quartieri tutto ciò che fosse illegale , immorale o
nocesse alla salute ( la propria o quella altrui ) , era spesso indispensabile per campare , e del
resto lo stesso confine fra bene e male , lecito ed illecito , era così labile da apparire inesistente .
Nelle sere d’estate , il caldo soffocante dei bassi vomitava nelle strade quell’autentica corte dei
miracoli , che tanto assomigliava alle anime del purgatorio così ingenuamente raffigurate nei mille tabernacoli votivi che costellavano i vicoli , e di notte ferivano il buio con le loro incerte fiammelle
rosse , quasi ad evocare in quella primordiale rappresentazione , la quotidiana lotta di quella gente
fra dannazione e salvezza , fra la vita e la morte .
E questa era la mia gente , quella che più di ogni altra sentivo vicina . Non c’era angolo , vicolo o
alito dei Quartieri che io non amassi e sentissi profondamente parte del mio essere . Da tanti anni
ormai non vi abitavo più , ma nel nuovo quartiere non mi ero mai ambientato , e tutta l’infanzia
avevo trascorso oscillando fra casa mia e quella di mia nonna , che mi adorava , preferendo senza
ombra di dubbio quest’ultima , che era posta nella sommità più alta dei Quartieri , al piano più
alto del palazzo più alto . In quella casa ero nato , e prima di me erano nati mio padre e mia zia ,
e in quella casa passavo tutto il tempo libero dalla scuola , trovandovi un senso di affetto , di protezione e di identità che non sentivo a casa mia.
Sentivo davvero protezione , in quell’umanità che passava attraverso i panni stesi da palazzo a
palazzo e gli odori familiari delle cucine che invadevano i vicoli , attraverso le voci degli ambulanti
che scandivano , col loro passare , le ore della giornata e persino nelle bestemmie che tuonavano
dai vortici di vino dell’osteria di Giovanni .
Amavo quello spicchio di cielo che s’affacciava oltre l’orizzonte delle nostre finestre , un metro quadrato di cielo sopra la Certosa di S.Martino , che avrei riconosciuto in tutta la vastità dell’universo , persino l’odore delle botteghe artigiane era rassicurante nella sua inconfondibile
unicità . Odori e voci , luci, speranze , gioie e dolori , lì si condensavano in un unico inafferrabile
attimo di vita , e non v’era niente al mondo che valesse tanto .
Amavo quelle puttane che dai loro letti , ancora caldi d’amore , s’alzavano la mattina per friggere
pizze e bomboloni , dolci e speciali come il loro sorriso.
Non so , non ricordo , se i miei nonni fossero originari dei Quartieri , forse si , o provenissero da
altre zone della città , ma in quella casa andarono a stabilirsi appena sposati , nei primi anni venti.
Nel 1917 mio nonno , insieme al fratello , era partito per la guerra , così come il fratello di mia nonna e i mariti e i fidanzati delle sue sorelle : tornò solo mio nonno e quest’evento sta sicuramente all’origine del caso che io sia qui a scrivere , il fatto che fosse tornato solo sta invece all’origine di
quella galleria di vecchie zie che , mai più sposatesi , finirono col gravitare , per oltre mezzo secolo,
intorno alla casa e alla famiglia di mia nonna , seguendo un antico costume della società napoletana,
e non solo , secondo il quale i congiunti più stretti che non avevano una propria famiglia , venivano
di fatto “assorbiti “ da quella più immediatamente vicina . Esse comparivano poco dopo l’alba e sparivano al primo buio della sera , discretamente partecipando alla vita familiare in tutte le sue
manifestazioni , provvedendo ad una serie di commissioni e , soprattutto , all’intrattenimento di noi
bambini , io e i miei cugini , così come avevano fatto , prima di noi , con i nostri genitori . Solo zia
Maria , la più vecchia , non si muoveva dalla propria casa perché in lite con mia nonna e le altre sorelle , per chissà quali futili motivi . La zia Maria aveva sempre avuto un particolare affetto per mio padre che dopo la mia nascita trasferì su di me , io costituivo l’unico momento di contatto
fra lei e il resto della famiglia. Il destino volle che queste quattro sorelle morissero , una dopo
l’altra , ciascuna all’insaputa delle altre , nella più totale solitudine .
Mio nonno , che si chiamava come me , era un noto artigiano , anche se non ho mai capito cosa
facesse di preciso , credo qualcosa che avesse a che fare con le tartarughe e le belle signore del tempo , o almeno questa era l’associazione di concetti che ne facevo io ; ma purtroppo per lui ,
mio nonno era anche noto alla Questura fascista di Napoli , come “fervente socialista e agitatore
politico “. In realtà mio nonno non aveva la benché minima intenzione di nuocere a Mussolini e
al suo regime , non ne sarebbe stato capace , e neanche al più infido cane della sua stramaledettissima canaglia , ma la premura dei questurini nulla concedeva a simili considerazioni,
e puntualmente , alla vigilia di ogni più o meno importante manifestazione del regime , mio nonno veniva prelevato dalla sua bottega e , insieme a tanti altri , trattenuto in questura per tutto il tempo.
Via via che la macchina propagandistica del regime andava intensificando le proprie celebrazioni ,
mio nonno finì col passare più tempo in questura che in bottega, e la sua attività andò in malora ;
fu per questo che alla fine della guerra iniziò la sua nuova attività di tassista , a bordo di una Fiat
Millecento , verde e nera e più lunga del “Duca degli Abruzzi “, e fu proprio a bordo di quel piroscafo con le ruote che , nella settimana di Pasqua del “56 , stretto fra le braccia di mia madre , arrivai per la prima volta in quella casa. Ero nato la domenica precedente , il 25 marzo , domenica delle Palme .Una strana domenica di primavera , visto che la città era attanagliata dal freddo e sotto una coltre di neve mai vista prima e mai più rivista dopo .
A diciassette anni , non avevo ancora tagliato del tutto il cordone ombelicale con quella casa .




Mia nonna era morta a gennaio , preceduta nel viaggio da mio nonno e le altre sorelle. La sua morte permise l’introduzione di qualche novità in quella casa , altrimenti rimasta uguale a se stessa malgrado l’incedere del tempo e del progresso : vi entrarono , finalmente , il frigorifero , la lavatrice e il ferro da stiro elettrico. Fino a quel momento solo il televisore e il telefono ( badando bene a staccarlo quando rimaneva sola in casa ) portavano la data del ventesimo secolo.
Ma soprattutto , mia nonna si portò via con sé tutto quel carico di morte che a volte sembrava avvolgere la casa ,tutti quei fantasmi che la popolavano , più dei vivi. Troppi morti , è vero , ma
anche tanta macabra e pagana ostinazione nel volerli tenere in vita. Il comò di mia nonna sembrava un camposanto , un’apparecchiatura di morte fatta di fotografie sbiadite e ricordi di ogni tipo , persino una ciocca di capelli religiosamente custodita in una teca .
Durante i temporali , che lassù facevano davvero paura ,tutta questa apparecchiatura veniva trasferita sul davanzale della sua finestra , doviziosamente raccolta intorno a un busto in bronzo raffigurante S.Gennaro , affinché proteggesse la casa dalla forza distruttrice della natura , e ad ogni
più fragoroso tuono , saliva il tono e il ritmo delle implorazioni di mia nonna , che invocava e chiamava , attorno a sé , tutte le divinità , santità e beatitudini celesti di cui il Cielo potesse disporre,
e , ove non bastasse , tutte le anime dei defunti di cui non mancava mai di enumerarne , a giusta guisa , opere e virtù . Cessata la tempesta , l’intera folla di anime beate veniva premurosamente riportata a suo posto , provvedendo a ringraziarle e baciarle ad una ad una , e ciascuna con una personalissima formula che , di nuovo , ne enunciasse le virtù .
Solo in India , molti anni dopo , mi sarebbe di nuovo capitato di assistere ad un simile spettacolo.
Di notte , il camposanto da camera era illuminato da piccole lampadine che proiettavano sulle pareti della stanza ombre che assumevano di volta in volta le forme più inquietanti , e che non mi facevano dormire , specie se durante il giorno avevo ascoltato i deliranti racconti ( di morte ! )
delle vecchie zie. Queste erano appena alfabetizzate e i loro racconti potevano solo essere stati appresi attraverso la trasmissione orale di antiche leggende popolari , che sicuramente avevano subito variazioni e distorsioni ogni volta legate alla fantasia e allo stato d’animo del narratore ,
e loro stesse non mancavano di mettercene di proprio conto ; di tanto in tanto qualche rara e sorprendente escursione nella letteratura ottocentesca serviva solo ad evidenziare , una volta di più ,
la loro vocazione al martirio : “Sangue romagnolo “ , dal “Cuore” di De Amicis , era un classico esempio della loro inflessibilità pedagogica , ma sulla assoluta fedeltà al testo non giurerei.
Non mancavano , naturalmente , i racconti inventati sulla Grande Guerra , che per loro rappresentava un’autentica epopea per come ne aveva determinato il destino , e qui i morti si contavano a migliaia , ma degni di nota erano solo quelli che di notte avevano l’abitudine di lasciare
le proprie sepolture per ritornare sul campo di battaglia in cerca della gamba o del braccio che vi avevano lasciato. Il tutto era sempre condito da una dovizia di particolari ( vermi , carni putrefatte ,
cavità oculari insanguinate , eccetera ) che ne costituiva un vero valore aggiunto , e se poi si provava ad ambientare siffatta truculenza nelle notti lugubri dei Quartieri , allora l’effetto era di
prim’ordine .
Ma il mio quotidiano andirivieni dal mondo dei vivi a quello dei morti , non si esauriva certo in questo , c’erano infatti tutte le occasioni in cui ero tenuto , maggiore fra i nipoti , ancorché bambino,
ad assistere ed onorare la Morte in tutti i suoi riti : dalle veglie funebri alle sepolture , e finanche alla riesumazione di cadaveri ormai incartapecoriti e perciò pronti per essere deposti nelle nicchie murarie. Ricordo ancora quello di mio nonno che , estratto dalla bara e spolverato , assomigliava tanto a quei vecchi manichini di cartapesta che vedevo nelle botteghe dei sarti .
Tutto questo , per la verità , non sembrava turbarmi più di tanto e anzi , a parte qualche mezza nottata di sonno perso , eccitava ed alimentava la mia curiosità , un po’ morbosa , di spiare la Morte
come attraverso il buco di una serratura .
Particolarmente suggestivi , poi , erano i pomeriggi che passavo a casa di zia Maria , altra vedova bianca della Grande Guerra , “la strega “ , come la chiamavano le sorelle a causa dei suoi trascorsi giovanili di medium e cartomante ; la sua casa era un museo dell’occulto anche se i vecchi arnesi
del mestiere servivano ormai solo nei comuni impieghi domestici , come il bellissimo tavolino a tre
gambe , formato da un piano ricavato da un tronco d’ulivo e tre grossi rami intrecciati che lo reggevano. A questo punto della propria vita , la zia Maria volgeva le proprie attenzioni verso le
Alte Volte Celesti , rinnegando le antiche superstizioni , ma non resisteva alla tentazione , con la scusa di farmi giocare , di prendere un mazzo di carte , un normale mazzo di carte da gioco perché non voleva che io guardassi e toccassi le beffarde raffigurazioni dei tarocchi , e disporle in maniera tale da scoprirvi cosa in “quel momento” stesse facendo lo zio Romeo ; lo zio Romeo era un suo nipote che era andato a vivere con lei dopo la separazione dalla moglie , e in “quel momento “ , di solito , lo zio Romeo era a lavoro : cosa mai poteva fare ?
In realtà , più che un gioco era un’ossessione , la sua , e in quelle carte cercava solo di intravedere i pericoli che , sotto le mentite spoglie di grazie femminili , potessero insidiarlo.
Cercava una donna in quelle carte , ma non vide mai quella che di lì a poco si sarebbe portato via lo
zio Romeo : la Morte.
E non l’aveva intravista nemmeno nei tarocchi che , avevo scoperto , usava ancora ; l’avevo capito perché sempre , di nascosto , quando ero da lei , andavo a cercare il mazzo dei tarocchi in fondo ad un cassetto , e tutte le volte ne estraevo la carta che più mi affascinava riponendola poi all’inizio del mazzo : un grande scheletro avvolto in un lungo mantello nero , seguito da un cane , e che recava una grande falce sullo sfondo di un campo di grano . Era la carta che rappresentava la Morte , e tutte
le volte non la ritrovavo dove l’avevo riposta . Ero dunque stato io a scombinare le carte nel destino dello zio Romeo ?
In conclusione , per tutta la mia infanzia , la Morte aveva rappresentato niente di più e niente di meno di uno strano gioco , che aveva come fine ultimo le sue innumerevoli raffigurazioni e rappresentazioni simboliche . Certo , quelli che morivano sparivano sul serio , ma questo era per me un dettaglio assolutamente trascurato . Fu l’orribile morte di Yan Palak a darmene , per la prima volta , una percezione diversa : vent’anni dopo avrei portato dei fiori sulla Vençlansko Namesty , sotto il monumento a S.Venceslao , là dove Yan era morto .

Quell’anno avevo già passato una decina di giorni sui Quartieri , era stato in occasione della morte di mia nonna , allorché la zia Rita mi aveva chiesto di trasferirmi qualche giorno da lei per allontanare , aveva detto , quel “senso di morte “ dalla camera di mia nonna ; quei giorni mi erano serviti per concentrarmi un po’ di più nello studio , e per rendermi conto che quella casa , senza mia nonna , non era più la stessa , anche se mia zia era per me una seconda madre ed io per lei come un terzo figlio , spesso preferito , e non ne faceva mistero , ai suoi due figli veri . In realtà ero io che ero cambiato e inutilmente cercavo di percepire ancora le sensazioni di un tempo .
Anche in quel momento , mentre affrontavo faticosamente la salita di Taverna Penta , che sembrava dovesse portare direttamente in Paradiso tanto era irta e lunga , avevo la sgradevole sensazione di non “sentire” più quei luoghi , quegli angoli ,di non riconoscere più niente e nessuno. Ma non ero lì per questo : continuavo ad essere sopraffatto da un senso nuovo di smarrimento , e a pensare a quella nuvola di polvere nella pineta .
Appena arrivato accolsi subito l’invito di mia cugina a passare il pomeriggio al mare , sulla nostra spiaggia di Posillipo , dimenticando che da un po’ di tempo era impossibile uscire con lei senza portarsi dietro il codazzo di alcune sue amiche , insulse e fastidiose come le vespe .
L’appuntamento con loro era alla fermata dell’autobus di via Verdi , fra piazza Municipio e il Teatro S.Carlo . Anche quella fermata , quell’autobus , e la spiaggia di Posillipo , incastonata fra la costa e il Palazzo Donn’Anna , faceva parte dei ricordi dei miei giorni sui Quartieri , ancora recenti nello scorrere del tempo ma già lontani mille secoli nello scorrere dei miei pensieri .
Quante giornate di giugno e luglio , sotto la vigile sorveglianza della zia Rita , in quei ricordi ; giornate tutte uguali e tutte ugualmente dolci , consumate in un rituale liturgico di incombenze e abitudini , scandite con precisione cronometrica dalle stesse liti , discussioni e raccomandazioni che la zia dosava con straordinaria sapienza lungo l’arco della giornata. Nelle mattine in cui l’aria era particolarmente limpida , era un susseguirsi di emozioni che invadevano gli occhi e gonfiavano il
cuore , durante il tragitto , veder sfilare le immagini di quella straordinaria città : dal Maschio Angioino , con l’arco di trionfo di Alfonso d’Aragona , al Teatro S.Carlo , gloria della Napoli settecentesca, dal Palazzo Reale