Renzo Montagnoli

Le sue poesie

      Il giorno dopo

Acqua ferma

A futura memoria

Gioco d'amore

L'alpino nella neve

La prima volta

Il più bel giorno della mia vita Giorni di scuola Sinfonia d'autunno L'albero della cuccagna Piccolo racconto di Natale  

 

 

Piccolo racconto di Natale

 

“E’ una festa meravigliosa, amore mio; da quando siamo insieme ho imparato il vero significato della parola felicità.” e guardava estasiato la donna che aveva portato all’altare da appena sei mesi.

“Non parlare; parlo io, aggiungo solo che sono felice.” E fece per abbracciare l’amata, allorché avvertì netta, devastante, una stilettata al cuore. Barcollò, strabuzzò gli occhi e vide il pavimento avvicinarsi sempre di più; poi la corsa in ambulanza, mani febbrili che si agitavano sul suo petto, il pianto straziante della sua donna. E l’anima scivolò fuori dal corpo ormai esanime. “Non è possibile, morire proprio oggi che è Natale” urlò questa frase che nessuno sentì. Lentamente, eterea,

l’anima salì al cielo, dove un compassionevole Iddio l’accolse.

“Se tu veramente comandi il mondo, non staccarmi così da lei; fa che io almeno possa restarle accanto.”

Un cenno della mano ed ecco che lo spirito si trasformò in un canarino che veloce scese a terra.

Nevicava, a larghe falde, e sbattendo le ali per il freddo si posò sul davanzale della finestra della camera da letto. Con il becco picchiettò sul vetro; la donna, stravolta dal dolore, era distesa sul letto e volse lo sguardo. Quel piccolo essere intirizzito in quella giornata di morte le sembrò meritevole di soccorso e lo fece entrare. Nei giorni successivi gli diede anche una casetta, una piccola gabbia di metallo che troneggiava in cucina accanto alla pendola.

Il tempo passava e lei non si risposò; lavorava tutto il giorno ed alla sera quando rincasava si sentiva rincuorata dalla presenza del canarino, che la fissava sempre e sembrava pendere dalle sue labbra. Aveva provato a trovargli una compagna, ma lui non l’aveva voluta; se ne stava ore ed ore zitto a guardare la donna affaccendata nei lavori domestici.

E venne un altro Natale. “Certo che come canarino non canti per niente; te ne stai sempre lì muto, a fissarmi, come se mi volessi dire qualche cosa. Che cosa ti frulla in quella testolina?”

Ed il canarino cominciò a cantare una melodia strana, che lasciò stupefatta la donna.

“Ma questa, questa è la canzone che ci piaceva tanto, che il mio povero marito definiva la melodia del nostro amore!” e le lacrime cominciarono a sgorgarle dagli occhi. Il canarino si interruppe e ridivenne nuovamente muto. Per quanti sforzi, quante preghiere, quante lusinghe la donna adottasse non riuscì a farlo più cantare,  e questo silenziò durò fino al Natale successivo, quando nuovamente il canarino cantò la canzone amata. Poi, di nuovo il silenzio nei giorni seguenti fino ad un nuovo 25 dicembre. Si andò avanti così per degli anni: l’uccellino che restava muto tutto l’anno e poi immancabilmente il giorno di Natale riprendeva a cantare, solo una canzone, solo quella.

Che avesse cominciato a capire qualche cosa la donna? Non è dato di sapere, anche se più volte in tarda età accennò ad un’amica la stranezza di quell’ esserino, che avrebbe già dovuto esser morto da un bel po’ e che invece restava giovane, tale e quale di quando lo aveva conosciuto.

Lei, invece, era naturalmente e progressivamente sfiorita ed ormai, assai avanti con gli anni, giaceva da tempo a letto, accanto al quale aveva voluto fosse messa la gabbietta con il canarino.

E così si arrivò ad un nuovo Natale; nevicava, a larghe falde, e faceva freddo. La donna era ormai pìù di là che di qua, ma aprì gli occhi che corsero subito alla gabbietta a cercare il suo piccolo amico e questi iniziò a cantare…..

Fu nel pomeriggio che la sua amica e vicina la trovò esanime nel letto; istintivamente guardò la gabbietta e vide che adesso c’erano due canarini; non nevicava più, era spuntato il sole con un tepore quasi primaverile.

La vicina si asciugò le lacrime e parve capire; aprì la finestra e poi la gabbietta. I due canarini iniziarono subito a cantare una canzone che lei aveva già sentito ad ogni Natale.

“Andate, andate, finalmente insieme.”

E le due bestiole si involarono verso il cielo, sempre più su, finchè scomparvero alla vista degli umani.     

 

Renzo Montagnoli

 

 

 

 

 

 

La prima volta


"Nonno, quando hai fatto l'amore per la prima volta?"
"Ma cosa ti sogni mai! Non sono domande da bambino per bene quale sei te."
"A scuola alcuni miei compagni ne parlano, ma mi sembra che non abbiano le idee chiare; c'è Carletti che dice che ha visto il suo babbo baciare la sua mamma e invece Rossi mi ha raccontato che un uomo ed una donna stanno nudi uno di fronte all'altro e così fanno l'amore."
"Ah, un giorno capirai senza io ti spieghi; però mi hai fatto venire in mente quella che avrebbe dovuto essere stata la mia prima volta e, per fortuna, non avvenne niente. Adesso ti racconto, ma non farmi domande chiarificatrici, va bene?"

E' accaduto quell'anno della festa con la storia dell'albero della cuccagna che ti ho già raccontato; più o meno il fatto si verificò un mesetto prima della sagra. Avevo quindici anni, non andavo più a scuola e lavoravo quasi ogni giorno in campagna: insomma, mi sentivo un adulto, anche se non lo ero. Avevo preso così l'abitudine la domenica pomeriggio di andare all'osteria del paese, raduno obbligato dei maschi del luogo, ove, stimolati da un bicchiere di vino, scioglievano le lingue, con un argomento pressoché fisso: le capacità amatorie. L'impressione era di essere in un pollaio con tanti galli e neppure una gallina; ovviamente una chiacchiera tirava l'altra e si finiva con lo sparlare di qualcuna. Uno dei soggetti preferiti era la vedova Patti, donna sulla trentina, da tutti definita una mangiatrice di uomini, anche se poi risultava che nessuno l'aveva sperimentata. Certo, erano chiacchiere spesso a vuoto, piccole vanità di gente per lo più analfabeta, che vedeva in una supposta particolare virilità quella realizzazione nella vita, altrimenti insignificante, fatta com'era di lavoro duro e poco pagato, dall'assillante problema di far quadrare i conti in modo che nella giornata, oltre alla cena, ci fosse anche un pranzo, per quanto grami entrambi. Io ascoltavo in disparte, cercando di capire quali erano le verità e quali invece le spacconate. E fu così che venni a conoscenza dell'esistenza in paese di una persona, diciamo, molto disponibile.
"Dove vai?" disse Tonio a Francesco, che si apprestava a lasciare l'osteria.
"Mi sono rimasti tre soldi, giusti giusti per un colpetto all'Adalgisa."
"Sempre bene in carne quella femmina, vero?"
"Sì, anche troppa, ma mi vanno abbondanti; non voglio stringere le ossa di mia moglie; qualche volta bisogna pur togliersi la voglia di avere tanto da guardare e da toccare."
"Più tardi penso proprio di farci un salto pure io; è un po' che non ci vado ed ho nostalgia di quella baldraccona. E tu ragazzo, che hai da ascoltare? Questi sono discorsi per uomini, e non per mocciosi che hanno ancora la goccia al naso."
Rimasi sconcertato e "Non faccio del male, se ascolto. E poi non sono un moccioso, io sono un uomo che lavora tutto il giorno e che contribuisce a mandare avanti la famiglia."
"Mi fai ridere; quella non è roba per te: non sapresti che farci. Va, levati dai piedi, ed oggi sono generoso: ti faccio anche un regalo, sì un regalo ad un uomo come te…" e mi allungò una sigaretta tutta rattrappita.
Francesco uscì e pure io; lo seguii, un po' a distanza, in modo che non se ne accorgesse, una prudenza forse eccessiva perché i due bicchieri di vino tracannati cominciavano a fare il loro effetto; camminava traballando, appoggiandosi ogni tanto ai muri delle case, finché giunto in fondo alla via entrò in una mezza stamberga.
"Allora è lì che sta l'Adalgisa" mi dissi ed il cuore cominciò a battermi forte. Ecco, ero vicino alla fonte di ogni piacere; bastava che attendessi l'uscita di Francesco e poi mi facessi avanti ed anch'io avrei assaporato l'ebbrezza dell'amore, come un vero uomo. Contai i soldi in tasca ed erano appunto tre baiocchi, ma restava un dubbio: avrei fatto bene, o avrei commesso un peccato; sarei diventato così un uomo, o sarei rimasto il ragazzino delle prime esperienze solitarie; ne sarei stato capace, o avrei fatto miseramente fiasco.
I pensieri affardellavano la mente; il cervello sembrava scoppiare e mi diceva di non farlo, ma in certi momenti non si ragiona con la testa, ma con qualche cosa che esplode prepotente dentro di te ed a cui non riesci ad opporti.
Così quando Francesco se ne uscì, entrai io.
C'era una sola camera, con un pagliericcio e sopra, nuda come l'aveva fatta mamma, stava l'Adalgisa. Era quella che si sarebbe detta una buona stazza, abbondante in ogni parte, con due seni che sembravano cocomeri ed un di dietro mastodontico; sui quaranta, quarantacinque anni, il volto, non bello, enorme e sfatto mi ricordò chissà perché certi rospi che s'annidavano nei fossi delle risaie.
"Che vuoi, ragazzino?"
"Io, io…. "
"Eh, spicciati, che tempo da perdere non ne ho con un moccioso"
"A dir la verità, passavo di qua ed allora…"
"Va la, lo so che cosa vuoi." e spalancò oscenamente le gambe a mostrare quello che pensava fosse il meglio della sua mercanzia.
Rimasi impietrito: mi ero immaginato qualche cosa di diverso, un fiore che sbocciava e non ….
Corsi via, mentre l'Adalgisa rideva sguaiatamente.
Appena fuori, mi appoggiai ad un muro a prendere fiato: se l'amore era così, non l'avrei mai fatto in vita mia, ma già sapevo che non era vero, perché da un po' di tempo provavo uno strano sentimento, di gioia e di ansia insieme, per una ragazzina di nome Marianna; con lei avrei dovuto ritentare e forse allora sarebbe finita diversamente.
Mi trovai in mano la sigaretta; la portai alle labbra e l'accesi: aspirai una prima boccata e subito presi a tossire convulsamente.
Ero quasi chino al suolo a sputare anche l'anima, quando mi arrivò una scapaccione fra capo e collo.
"Ecco il nostro ometto; ma vattene a casa a succhiare il latte". Era Tonio che, fischiettando, entrava dall'Adalgisa.
Ma perché mai avrei dovuto diventare uomo, perché non potevo restare ragazzino? Fu solo un attimo di sconcerto, poi ricordai il sorriso con cui la Marianna alcuni giorni prima aveva contraccambiato il mio sguardo, ed allora ripresi la strada, le mani in tasca, fischiettando un motivetto allora in voga.
- Da "I racconti del nonno" -
    

 

 

 

 

Il più bel giorno della mia vita


"Nonno, hai qualche racconto un po' allegro?"
"Sì, ne ho uno che riguarda il più bel giorno della mia vita."

Era una gelida giornata dei primi di dicembre, il giorno 6 per l'esattezza, e la guerra, la Grande Guerra era terminata da circa un mese. Poco a poco le truppe venivano smobilitate e venne anche il nostro turno, la volta del ritorno degli Alpini dell'Adamello. Eravamo partiti in tanti, con promesse di libertà e di giustizia, e sulla tradotta ora salivamo in pochi, con l'animo ferito da tanto orrore, ma ancora con la speranza che qualche cosa potesse veramente cambiare nella nostra vita. Ci illudevamo che anche per noi ci sarebbe stato un po' di sole, e invece…ma questo non fa parte del racconto di oggi.
In treno non parlavamo; le nostre menti correvano alle case lontane che avremmo presto rivisto, alle donne che ci aspettavano e che avevano patito la guerra al pari di noi. Il paesaggio scorreva davanti ai finestrini di quelle carrozze di terza classe, ma non lo scorgevamo: davanti a noi c'erano ancora le immagini delle trincee contorte, della neve insanguinata e degli amici caduti; queste ultime, che al fronte erano state accantonate, nascoste negli angoli più reconditi del cervello, ora prorompevano da quel temporaneo oblio a ricordarci che anche loro avevano permesso il nostro ritorno.
Era quasi sera quando arrivammo in stazione a Mantova e là sul marciapiedi, accanto ai binari, la folla dei nostri cari era in attesa.
Scorsi subito la Marianna; provai una sensazione indescrivibile, una gioia così intensa che ebbi paura che il cuore mi uscisse dal petto. "Dio, com'è bella" e lo dissi ad alta voce; scesi dal treno e di quei momenti ho un ricordo confuso, indescrivibile. Mi sembrò di essermi alzato in volo; le gambe si muovevano da sole, non comandate dal cervello, ed il cuore che batteva sempre più forte; non fu un abbraccio, fu l'apoteosi della passione fino allora soffocata dalla guerra. Le baciai i capelli, le guance, il naso, la bocca; intorno, benché ci fosse una moltitudine, per me c'era il vuoto assoluto: in quei momenti lì s'incontravano, sostavano, vivevano il momento più bello della loro vita solo due persone: io e la Marianna. Le accarezzai il volto, lasciai scorrere le dita su quell'ovale perfetto, poi la fissai negli occhi e dissi solo "Eccomi di nuovo". Lei non rispose, ma lo sguardo valeva più di mille parole: leggevi la gioia di una donna per il ritorno del suo uomo da uno scampato pericolo.
Piano piano, tenendoci per mano, ci avviammo verso casa, il che voleva dire circa otto chilometri di scarpinata, ma non m'importava: avrebbero potuto essere anche mille e non mi sarei spaventato, perché ora con me c'era lei.
Il buio già incombeva, ma la luce delle stelle ci avrebbe guidato in quella camminata che non avrei mai voluto che dovesse finire.
Ogni tanto mi volgevo a guardarla e lei mi sorrideva: ah, la guerra ormai era sparita, dimenticata, ed ora c'era finalmente la vita, per quanto di fatica, di lavoro, di povertà, ma c'era ed era quel mio piccolo mondo, io e lei; il resto non contava.
Arrivammo che era buio pesto; ancora non abitavamo insieme perché la guerra ci aveva impedito di sposarci. Accompagnai la Marianna a casa sua e prima di lasciarla " Amore mio, che vuoi che ti dica?" "Dimmi che mi ami." La guardai e "Ancora meglio: vuoi sposarmi?" "Sì" e ci abbracciammo, mentre le mie lacrime si mescolavano alle sue.
Mi allontanai lentamente a ritroso, quasi avessi paura che quel buio l'inghiottisse, e quando entrò in casa andai per la mia strada. Passai vicino al vecchio lavatoio, dove le donne si ritrovavano a fare il bucato ed aspirai a pieni polmoni il profumo del sapone, passai le mani sui vecchi scanni, poi le immersi nell'acqua.
La luna vi specchiava ed io, increspando la superficie, ne mutavo i riflessi, l'immagine enigmatica che tutti conosciamo. Ecco, questa era l'aria di casa, in cui ero cresciuto e da cui forzatamente avevo dovuto allontanarmi per più di quattro anni. Mi appoggiai alla vecchia quercia e chiusi gli occhi; che ne sarebbe stato adesso della mia vita, che cosa avrei fatto? Non trovai risposte, ma l'immagine sorridente della Marianna fugò ogni incertezza sul futuro. Qualunque sarebbe stato, non poteva che esser bello, perché io ora ero con lei.
Mi chinai a raccogliere una zolla di terra; la strinsi forte e ne uscì il profumo acre ed intenso della vita; stetti un attimo ancora a guardare il cielo stellato, che avrei voluto raccogliere fra le mie braccia per farne dono a Marianna, e poi mi avviai: a casa di certo mi attendevano in ansia.
- Da "I racconti del nonno" -
   

 

 

 

 

 

Giorni di scuola


"Giovanotto, domani ti devi alzare presto: è il tuo primo giorno di scuola."
"Nonno, ci sei andato anche tu a scuola, vero?"
"Sì, ho fatto le cinque classi delle elementari e per l'epoca era già tanto, perché per studiare bisognava essere ricchi."
"Dai, raccontami dei tuoi giorni di scuola."
"Ci proverò, perché devo andare tanto indietro nel tempo e ricordare non è sempre facile."

Ricordo il primo giorno di scuola, perché è legato ad un episodio che mi si è impresso nella mente e che tanto vorrei scordare, ma non ci riesco.
Ero emozionato, come lo sono anche oggi tutti i bambini. La mamma mi aveva vestito abbastanza decorosamente con quel poco che avevo; pensa, era settembre e portavo ai piedi le scarpe invernali, perché non ne avevo altre, ma ero felice. Sarei stato insieme a degli altri bambini, avrei imparato a leggere, a scrivere.
Il fabbricato della scuola era fatiscente, con i muri corrosi dall'umidità, e le aule, stanzoni scrostati con i vetri delle finestre rattoppati alla meglio, erano piene di banchi di legno tarlati e segnati dal tempo. Rammento che dapprima ci fu l'appello e poi ad ognuno fu assegnato il suo posto; io capitai allo stesso banco di Cescone, un bambinone in sovrappeso che quando si sedeva faceva scricchiolare l'asse del sedile. In seguito sarebbe diventato famoso per le sue somarate, certamente non volute, perché, purtroppo per lui, la dimensione del cervello era inversamente proporzionale a quella del corpo. Ci avrebbe fatto ridere con le sue risposte idiote durante le interrogazioni, con quel suo faccione che sbucava da dietro la lavagna dove lo cacciava la maestra, ma da bambini ingenui non potevano sapere il male che gli avremmo fatto; la sua diversità, così evidente, così corrosiva, lo avrebbe portato di lì a qualche anno al drammatico epilogo della sua vita, a quel suicidio che avrebbe posto fine alla sventura di non essere come gli altri.
La maestra! Me l'ero sognata come una fatina dai capelli biondi ed invece era una vecchia e acida zitella che accompagnava, di frequente, il suo stridulo insegnamento con scapaccioni, i cui segni ti restavano per dei giorni. Certo che se l'insegnante avesse dovuto dare agli allievi un esempio di vita e questi l'avessero seguito, le risse, le scazzottate sarebbero state all'ordine del giorno.
E bastava niente per prendersi un ceffone: un pelo sul pennino che sbrodolava d'inchiostro il quaderno, una domanda innocente volta a comprendere meglio una lezione, e persino l'inderogabile necessità del gabinetto.
Tuttavia, quel primo giorno sembrava tutto bello e sentivo dentro di me l'orgoglio di essere uno scolaro. Venne anche il direttore a farci un discorsino di benvenuto che sembrava però di commiato, tanta era la fretta di lasciarci. Quell'uomo aspirava da tempo ad una posizione migliore, a dirigere una scuola frequentata solo da figli di nobili e della ricca borghesia, e non quindi un povero istituto di campagna dove ogni tanto si doveva ricorrere alla disinfezione dai pidocchi.
In verità non ci fu una prima lezione, ma un più volte ripetuto decalogo di comportamento: quello che si doveva fare (ed era molto), quello che non si doveva fare (ed era ancor di più) e quello che si poteva fare (in pratica niente).
Lo scopo evidente era quello di non permettere alla povera gente di aspirare a migliorare; c'era solo da stare zitti e sopportare: così nella scuola ed altrettanto nella vita.
Verso metà mattina accadde il fatto; in classe c'era un biondino, un bambino minuto, dagli occhi chiari stanchi ed infossati; stava in prima fila ed ascoltava assente, quando improvvisamente reclinò il capo ed il fianco su un lato, cadendo dalla sedia. La maestra gli si avventò contro, pensando che dormisse, ma…
"Mio Dio, ma il bimbo sta male; presto, qualcuno, chiamate qualcuno." Ed in due o tre corsero a chiamare il bidello, un vecchio che, quando non era ubriaco, masticava in continuazione tabacco in un fetore insopportabile fra frequenti sputacchiate che non sempre arrivavano all'apposito recipiente.
Questi venne ciabattando, con aria insonnolita, guardò il bimbo "Non sta bene", sentenziò come un medico di fama, assumendo un'aria importante, come se la sua diagnosi potesse essere partorita solo da una mente superiore.
"Che facciamo?"
"Lasci fare a me, signora maestra; lo porto a casa dai suoi: un po' di riposo, qualche scapaccione ben dato e domani - e sottolineò il domani, soffermandosi con aria austera - domani sarà di nuovo qua, vispo e fresco come un fringuello."
E così il biondino fu portato a casa, ma il giorno dopo non venne a scuola, e neppure il successivo.
Cominciai a temere il peggio e decisi di andare a trovarlo.
Abitava in una vecchia casa, al terzo piano; le scale erano buie e maleodoranti di zuppe ricotte e di urina di gatto.
Bussai alla porta: venne ad aprirmi un uomo dal volto scavato e dolente, gli occhi rossi e le labbra tremanti. Non dissi nulla, perché anche se ero un bambino certe cose le capivo. C'era un altro uomo nella stanza, ben vestito e con una borsa: il medico.
"Se mi chiamavate prima, forse potevo fare qualche cosa, ma ora è evidente che è impossibile: non posso richiamare in vita un morto!"
"Dottore, non l'abbiamo chiamata prima perché non abbiamo soldi per pagarla; io faccio il bracciante e non lavoro tutto l'anno, e non sempre si mangia; quando ho visto che respirava affannosamente, la disperazione mi ha fatto dimenticare il problema del denaro ed allora sono corso da lei…"
"Non voglio niente, voglio solo andarmene, uscire, respirare l'aria fresca del mondo che vive…" ed uscì.
"Vieni a vederlo, sembra che dorma sereno." mi disse il padre e notai che c'era un'altra camera. L'uomo mi fece strada, poi sostò sull'ingresso facendomi cenno di entrare. Io non ebbi il coraggio e mi affacciai soltanto: nel buio, appena rischiarato dalla tremula luce di una lampada a petrolio, c'era una donna prona su un letto che abbracciava un fagottino. Corsi via piangendo: era stato il mio primo incontro con la morte.
Il giorno dopo tutta la classe andò al funerale; prima in chiesa, dove il parroco recitò brevemente alcune litanie in latino e non dedicò più di un minuto per ricordare questo sventurato figlio della miseria. Poi, tutti al cimitero, con la piccola cassa di legno scadente su un carretto spinto dal padre. Fu calata nella nuda terra e mentre la fossa veniva ricoperta il bidello che, quando era ubriaco, ragionava meglio di quando era sobrio, ebbe solo a dire " Vai, piccolo, dove non avrai più da soffrire. Che schifo di mondo, questo."
Non un fiore, ma solo una piccola croce con impresso ad inchiostro il nome ed il cognome, poche lettere che in breve le piogge dell'autunno ed il freddo dell'inverno cancellarono.
- Da "I racconti del nonno" -
   

 

 

 

 

Sinfonia d'autunno


"Che hai nonno? Mi sembri triste…"
"E' la giornata, fredda e nebbiosa, con l'umidità che penetra in queste ossa stanche."
"Raccontami qualche cosa, la tua vita che sembra un romanzo, fallo per me."
"Non sono dell'umore giusto, ma questa giornata me ne ricorda un'altra dell'ottobre del 1945. E va bene, racconterò di allora"

Era umido e freddo come oggi; la guerra era finita da pochi mesi, ma se non c'era più la paura delle bombe c'era il solito problema della miseria, che mi ha accompagnato per tutta la vita. E miseria non vuol dire solo non potersi comprare da mangiare, è ancora peggio: è come vagare in un deserto senza una meta, è avere la certezza che nulla potrà cambiare, che l'assillo quotidiano che c'è stato ieri ci sarà anche oggi, domani, dopodomani e così per tutti i giorni a venire.
Ho sempre davanti gli occhi delle persone che hanno come fedele compagna la miseria: sono spenti, rassegnati, impotenti.
La nonna era alcuni giorni che non stava bene: una febbre iniziata con poche linee era via via cresciuta ed il dottore continuava a dire che era un po' d'influenza, un comune malanno di stagione. Ma poi la temperatura aveva preso ad aumentare vertiginosamente: 39, 40 gradi; e l'accompagnava una tosse roca. L'abbiamo portata all'ospedale; broncopolmonite mi hanno detto sotto voce e poi il dottore mi ha appoggiato una mano sulla spalla ed ho capito tutto; sono uscito nel corridoio ed ho appoggiato la testa al muro. Trent'anni insieme, a lottare, a crescere i figli, ma sempre uniti, trent'anni di miseria, ma anche di felicità, perché non è la ricchezza che ti rende felice, è amare ed essere riamato. Non poteva finire così, in un letto sgangherato di ospedale, in uno stanzone che puzzava di disinfettante. Ed allora sono rientrato nell'ambulatorio…
"Dottore, non si può proprio fare nulla? La prego, mi dica qualche cosa, la supplico…"
"E' molto debole e la malattia è devastante; direi che non ci sono cure, o forse…"
"Forse, cosa? Mi dica, sono disposto a tutto."
"Gli americani hanno un prodotto che cura le infezioni e questa è un infezione: si chiama penicillina."
"Penicillina? Proviamo questo prodotto; proviamo…"
"Non lo abbiamo nella farmacia e c'è solo sul mercato nero, a prezzi proibitivi. Si vende in fiale da iniettare per via intramuscolare; se vogliamo fare un tentativo, ma senza certezza di risultato, direi che occorrono sei fiale; ieri costavano, costavano uno sproposito: Lire centomila cadauna, cioè in totale Lire seicentomila.."
" Seicentomila?" e mi caddero le braccia. "Seicentomila, ma è un'enormità; io prendo ventimila lire al mese e non bastano neppure per il mangiare…"
"Non so che dirle; ha tutta la mia comprensione."
"Quanto tempo ho?"
"Come?"
"Sì, per quando al massimo Lei deve avere le fiale?"
"Prima possibile, e comunque non oltre domani pomeriggio."
"Va bene, va bene"
Uscii come tramortito, barcollando e con il chiodo fisso di trovare quei soldi. Ma dove? Non avevamo una lira da parte e tutti quelli che conoscevo erano tutti nelle stesse condizioni, se non peggio.
Tornai a casa impietrito; i vicini capirono che era successo qualche cosa di grave e vollero sapere. Raccontai piangendo tutto, anche delle seicentomila lire ed anche loro mi misero una mano sulla spalla.
Mi buttai sul letto affranto, cercando un po' di quiete per riordinare le idee e sperando in un improbabile colpo di genio, ma dalla strada veniva un rumore incessante di merci trasportate, di mobili spostati. Che diavolo succedeva? Mi affacciai alla finestra: c'erano i Bianchi che mettevano su un carretto la loro vecchia cassapanca, l'unico mobile che avevano di qualche valore; più in là i Marchesi si caricavano sulle spalle dei materassi e la signora Silvia, di cui non riesco mai a ricordarmi il cognome, spingeva una carrozzella da neonato con sopra qualche chincaglieria. "Ma che fanno! Si mettono a traslocare oggi e poi chissà dove andranno con le poche case disponibili" Mi ritrassi, perché orma il fermento interessava tutta la via; gente che stava lì da anni, che conoscevo da una vita e che ora di colpo se ne andava. Mi sembrava di impazzire: la nonna là in ospedale già quasi in agonia, io a casa a pensare all'impossibile e tutti quelli che se andavano. Era peggio di un incubo, anche se speravo che tutto fosse solo un sogno.
Cominciai a fare un po' di conti: se impegno questo mi possono dare tot, quest'altro tot, ma alla fine la cifra che risultava era drammaticamente inferiore al necessario. Non avevo nulla da poter dare in garanzia ed uno strozzino mi avrebbe riso in faccia; cercare qualcun altro che mi prestasse i soldi, ma chi, se tutti quelli che conoscevo erano squattrinati.
Gocce di sudore mi scendevano dalla fronte e la testa mi scoppiava. Ritornai a letto e probabilmente sfinito mi addormentai.
Poi qualcuno bussò alla porta: mi alzai intorpidito ed andai ad aprire. Lungo le scale c'era una moltitudine, i Bianchi, i Marchesi, la signora Silvia, tutto il vicinato.
Che fossero venuti a salutarmi prima di andarsene?
Il brusio cessò quando si fece avanti il capofamiglia dei Bianchi.
"Senti Pietro, noi vogliamo come te che tua moglie viva; siete due gran brave persone, siete come di famiglia per tutti; lo sai che siamo poveri come te ed allora abbiamo fatto una colletta, ma non siamo arrivati a seicentomila lire, anzi siamo appena arrivati alla metà. Però si può, si deve tentare; tienile e speriamo bene…"
"Non so cosa dirvi, ma io quando mai potrò restituirvi questi soldi?"
"Non importa; quando vorrai e se potrai; quel che conta è che tua moglie guarisca."
E se ne andarono in silenzio.
Quella povera gente aveva impegnato tutto quel poco che aveva ed io seguii il loro esempio: portai anche il letto al Monte di Pietà.
Alla fine riuscii a comprare quattro fiale, ma si vede che la solidarietà dei poveri è apprezzata in cielo e queste bastarono.
Mi sento ora in debito con tutti, anche perché non sono in grado di ripagarli; adesso capisci perché la porta di casa mia è sempre aperta: loro non vengono, ma quello che ho qua è loro.
- Da I racconti del nonno -
   

 

 

 

 

 

L'albero della cuccagna


Quando il nonno raccontava, ascoltavo estasiato come se udissi le più belle fiabe, ma in verità non si trattava di invenzioni, ma di fatti reali, esperienze di vita vissuta, forse implementate con un po' di fantasia per sopperire al calo di memoria dovuto all'età.
Si trattava di episodi della sua vita, in tempo di pace ed in tempo di guerra, una specie di cronaca vera, lo spaccato di un'epoca.
E quello che mi appresto a ricordare è sintomatico delle condizioni di vita della povera gente ai primi del novecento.

Correva l'anno 1910 ed ero un ragazzino in piena pubertà; mi guardavo intorno e tutte, dico tutte, le fanciulle mi interessavano; nessuna mi sembrava brutta, anche perché morivo dalla voglia di abbracciarle e di fare quello che i grandi, con mezze frasi ed ammiccamenti, andavano ripetendo. Già lavoravo; ultimata la quinta elementare avevo cominciato ad andare in campagna a sgobbare sotto il sole dell'estate, sferzato dalla pioggia dell'autunno, battendo i denti per il freddo in inverno, ma con il cuore caldo e forte in primavera, ed accadde appunto in quella primavera, in occasione della festa del patrono. In paese c'era movimento, era venuta una giostra mossa da un povero ronzino; in programma c'erano le corse con i sacchi e, soprattutto, l'albero della cuccagna. Allora si mangiava una volta al giorno: un uovo con insalata, o un'insalata con un uovo, e così per sette giorni, per un mese, per un anno, per tutta la vita; qualche rara volta, per Pasqua o per Natale, si cambiava con una minestra di brodo di carne di pollo, carne poi che mangiavamo: ci sembrava in quelle occasioni di essere ricchi, ma già il giorno dopo ricomparivano nel piatto l'uovo e l'insalata. Scusami, mi stavo perdendo con il ricordo; eravamo dove? Ah, sì, all'albero della cuccagna, un lungo palo infisso nel terreno e cosparso di grasso con in cima una ruota di carro da cui pendevano in genere un paio di salami, una pancetta e, a volte, anche un prosciutto crudo; prelibatezze da ricchi, si diceva, e non per noi che eravamo poveri. Tuttavia, ai poveri era concesso di poter beneficiare di queste meraviglie, a patto che riuscissero ad arrampicarsi lungo il palo - e ti assicuro che non era facile - e ad afferrarle.
Nella competizione si misuravano tutti, perché troppo grande era il premio: carne, quella carne così indispensabile di cui sentivamo tanto il bisogno. Ci si allenava, a volte anche per mesi, ed io quell'anno mi sentivo in una forma smagliante.
La sera prima della gara, gironzolando intorno alla giostra, buttai gli occhi sulla Marianna, una ragazzina tutto pepe, con due splendidi occhi neri che ricambiarono maliziosi il mio sguardo. Mi feci avanti e "Ciao, Marianna, che fai da queste parti?"
"Giro." "Giriamo insieme?" E lei annuì. Non c'era molto da vedere e ben presto ci stancammo della giostra che ruotava e del ronzino che stancamente la muoveva; mi avviai verso la campagna, tenendola per mano, e lei mi seguì. Appena fummo al buio l'abbracciai, la strinsi a me con tutta la forza che avevo e lei mi diede un bacio sul collo. Poi…non ti racconto altro: un giorno anche tu capirai e proverai le stesse emozioni; ti dico però una cosa che è importante per comprendere la storia: non facemmo quelle cose che facevano i grandi, perché lei si rifiutò, nonostante i miei tentativi, le mie suppliche; riuscii però a strapparle una promessa, anche se condizionata "Se domani riuscirai a salire sull'albero della cuccagna e mi porterai tutte quelle buone cose, sarò tua.", e corse via ridendo.
Giuro che quella notte non dormii; mi sentivo emozionato, mi sembrava di aver tagliato per primo il traguardo di una gara importante e, soprattutto, mi pareva di essere un grande e non un ragazzino di 15 anni.
Il giorno dopo, che era domenica, non si lavorò ed io passai il tempo ad allenarmi; andavo su e giù lungo quell'albero con una velocità che mi stupiva, assai maggiore di quella degli altri concorrenti, tranne uno, il Ratti, un uomo sui trent'anni, già sposato, con quattro figli da sfamare ed una moglie che non riusciva a dare il latte al quinto di soli pochi mesi.
Mi fissava mentre mi arrampicavo, scorgevo in quello sguardo una speranza rassegnata, e quando toccava a lui metteva tutte le sue forze; era veloce, ma non quanto me. La moglie, con i quattro bimbi a lato ed il quinto in braccio, lo osservava con trepidazione e gli ripeteva "Sta attento; non cadere; non farti male; non abbiamo che te."
All'imbrunire gli allenamenti cessarono ed andammo a lavarci nel fosso dal grasso che ci avvolgeva.
Il Ratti mi venne vicino e, a bassa voce " Ti prego, lascia che vinca io; mia moglie non ha più latte per il poco mangiare ed il piccolo potrebbe morire; hai tanti anni davanti tu, per vincere." Non era una preghiera, era un'implorazione. Mi voltai a guardare sua moglie, con il bimbo attaccato al seno avvizzito e dissi solo "Ci penserò."
Ed infatti ci pensai fino all'ora della gara; davanti a me scorrevano due immagini: quella della Marianna che mi si concedeva e quella del Ratti che, trionfante, scendeva con i salumi. Non riuscii a prendere una decisione ed arrivai in quello stato alla tenzone. Prima che iniziasse la moglie del Ratti mi si accostò, mormorandomi "Non abbiamo che lui…"
Mi ritirai in un angolo a piangere: di fronte a me non c'era la Marianna, non c'era più nessuno, c'era solo l'immagine vivente delle sofferenze per la miseria, e così presi la mia decisione.
Quando toccò il mio turno, mi avvinghiai al legno come un felino, presi a salire con una velocità incredibile e quando ero quasi arrivato in cima finsi di scivolare e caddi quasi di sasso, fra le risate generali.
Rimasi ancora quel tanto che mi consentì di vedere la vittoria del Ratti, poi mi allontanai. Dietro un cespuglio mi attendeva la Marianna. "Sono scivolato, non so neppure io come ho fatto." "Lo so io e sono fiera di te".
Vuoi sapere come andò a finire?
Valentina è il nome della nonna, ma è il suo secondo nome ed il primo è, è?: è Marianna.
- Da "I racconti del nonno" -
       

 

 

 

 

L'alpino nella neve


Nel corso della prima guerra mondiale si combatté molto, e duramente, anche sulle alte cime; i crinali furono contesi aspramente dai due contendenti e le difficoltà del terreno, le condizioni climatiche repentinamente mutevoli e l'alta quota determinarono perdite incalcolabili.
Sono passati tanti anni da quando il nonno mi ha lasciato ed io ero ancora bambino, ma non ho dimenticato i suoi racconti di vita, le esperienze drammatiche che lo coinvolsero in quella grande tragedia che lo videro umile alpino combattere sulle nevi eterne dell'Adamello.
Quello che mi appresto a raccontare è un episodio che al nonno, nel rammentare, provocava un'emozione così forte da riuscire a trasmetterla anche a me e che tuttora provo,per la nota dolente che lo contraddistingue.

L'anno, mi pare fosse il 1916; la guerra era già entrata nel secondo anno e le nostre speranze di una rapida vittoria erano già svanite; eravamo partiti da Mantova in otto ed ero rimasto solo io (Cavedaschi era caduto nei primi giorni, Moretti non si era più svegliato una mattina ed il freddo se l'era portato con sé; gli altri, gli altri? Sì, gli altri non mi erano sconosciuti, ma ho imparato presto che è meglio dimenticare l'amicizia per evitare la sofferenza per la perdita di un caro compagno).
Eravamo incavernati su un bastione di roccia che guardava sul ghiacciaio del Mandrone; uno spazio angusto, scavato con il piccone, vivevamo in mezzo ai nostri stessi escrementi, si mangiava ogni tanto, quando la corvè riusciva a raggiungerci; il freddo era sempre intenso e non potevi dormire più di un'ora di seguito, altrimenti ti si congelavano gli arti.
Gli austriaci erano dall'altra parte, fra le rocce fronteggianti, ad una distanza non superiore ai 200 metri, in una posizione di fatto imprendibile, perché noi avremmo dovuto uscire dalla caverna, calarci con le funi sul bordo del ghiacciaio, attraversarlo, aggirando i crepacci, e risalire il pendio per attaccare il nemico. E la stessa cosa era per loro; di fatto eravamo entrambi immobilizzati e le scaramucce quotidiane si concretizzavano in salve di fucileria e nei tiri dei cecchini. Nonostante questo, le perdite erano elevate da entrambe le parti per l'inclemenza del tempo, per il freddo, per il vestiario inadeguato e per il cibo, poco e di poca sostanza.
Ricordo ancora: era un giorno di aprile, la primavera, che in valle rinverdiva tutto, da noi non si avvertiva e solo il sole, più alto, ci avvisava della nuova stagione. Era quasi sera e le cime riverberavano della luce rossastra dell'astro che calava: una visione stupenda contrastante con l'immane tragedia. Su di noi era scesa una malinconia indicibile nell'emozione provocata dallo spettacolo della natura; andavano riaffiorando i ricordi della casa lontana, dei propri cari, della vita di ogni giorno prima della guerra, insomma della normalità così noiosa quando c'è, ma così agognata quando manca. Garrusu, un sardo piccolino e sempre con gli occhi tristi, si alzò e cominciò a cantare, prima con voce bassa, poi sempre più forte: erano parole che rievocavano giorni lontani, donne che andavano a prender l'acqua alla fontana, scene di vita di un paese come tanti. Ascoltavamo in silenzio, gli occhi umidi e quando Garrusu finì notai che tutti, me compreso, avevamo le guance bagnate. Nessuno disse nulla, nessuno applaudì: la commozione ci aveva preso, ma non solo noi. Dall'altra parte iniziò un coro incomprensibile per la lingua diversa, ma la melodia ci percuoteva il cuore, univa i nostri animi a quelli degli ignoti cantori. Il tenente, che parlava un po' il tedesco, ogni tanto borbottava , traduceva "Mia sposa lontana che aspetti il tuo uomo….; casa, casa mia, quanto sei bella…". Poi si interruppe singhiozzando. Il canto cessò ed allora dalla trincea nemica si levò un grido "Taliani, cantate ancora e che oggi non ci sia guerra". E Garrusu riprese con un'altra canzone e quando finì cominciarono gli altri; l'intermezzo musicale andò avanti per un paio d'ore, fino a quando il buio avvolse tutte le cime, le valli, le caverne, le trincee, penetrò negli uomini, accrebbe la loro angoscia, devastò i loro cuori. Poi, fu tutto silenzio e le stelle presero a brillare.
Garrusu si rannicchiò in un angolo, poi mi si avvicinò: "fai tu la guardia per primo?" "Sì" "Non riesco più a stare in questo posto; voglio, devo tornare a casa." "Ma come farai? Se anche riuscissi a calarti, a costeggiare il ghiacciaio ed a scendere al Tonale, là i nostri ti prenderebbero e per te sarebbe la morte." Non rispose, ma quel silenzio, quegli occhi cupi e disperati parlavano più di qualsiasi discorso.
Appena iniziato il turno di guardia, lo vidi scivolare accanto a me, gettare la fune, aggrapparsi ad essa e balzare oltre il parapetto. Mi parve di vederlo arrivare alla base del bastione, poi non scorsi più nulla. In cuor mio pregavo perché Garrusu ce la facesse e, quando sorse il sole, pur nel timore dei cecchini, mi affacciai e sotto non vidi nessuno. Ne fui contento, per lui, per me, per tutti, perché se tutti, noi e gli austriaci, ci fossimo ammutinati la guerra sarebbe finita, saremmo tornati a casa e la pace sarebbe tornata nei nostri cuori.
Al tenente dissi che Garrusu si era affacciato ed era caduto; non so se mi credette, però non volle guardar giù.
Gli anni passarono e nel novembre del 1918 ci fu l'armistizio. Ci calammo giù dal bastione con le corde con una felicità che mai potrò dimenticare; gli austriaci ci vennero incontro sul ghiacciaio, lentamente, nel timore dei crepacci.
"Taliani, venite, in questo crepaccio c'è qualche cosa" la voce mi fece trasalire. Andammo ed in effetti ad una profondità di circa tre metri si vedeva qualche cosa che sembrava un fagotto. Ci calammo e quegli stracci erano una divisa d'alpino che racchiudeva un povero corpo, ancora ben conservato. Garrusu, irrigidito, sembrava guardarci stringendo in mano qualche cosa: una fotografia di una donna con un bimbo in fasce. Italiani ed austriaci se ne stavano muti all'intorno: Garrusu aveva ritrovato la sua casa in quella gelida notte d'aprile.

- Da “I racconti del nonno” -            

 

 

 

 

 

Gioco d'amore


Invecchiare non è nulla: è nel corso naturale di ogni essere vivente; quello che, invece, ti addolora è sapere che ci sono cose che si possono fare solo in determinati tempi, fra i quali, la gioventù, è quello che passa più alla svelta e del quale serbiamo più forte il ricordo, se non il rimpianto.
In quell'epoca tutto è spensierato; la mancanza di esperienza è la chiave dell'entusiasmo che accompagna ogni atto e così l'amore non è un problema, è la vocazione naturale dalla quale ci si lascia volentieri cullare, ed il dispiacere dell'insuccesso è più breve dell'emozione per un nuovo incontro.
Ho bisogno della compagnia di una donna, di quell'intuito femminile che tanto apprezziamo e di cui sentiamo spesso la mancanza; risvegliarsi ogni giorno in un letto troppo grande, sapere che l'oggi non sarà dissimile dal giorno appena trascorso, parlare solo a se stessi fra quattro pareti sempre più opprimenti, a lungo andare ingenera un vero e proprio stato depressivo. In una vita senza calore umano, priva della possibilità di qualsiasi evento emozionale, è indispensabile, e quindi non solo necessario, ricercare una figura femminile da porre accanto a sé, e così la caccia comincia.
E' da un po' di tempo che osservo la vedovella, una signora sui cinquant'anni, senza figli, che abita in una graziosa villetta non molto lontana da casa mia; per quanto mi è dato di sapere, è una persona seria che, almeno in apparenza, non ha ancora cercato di diventare una preda.
Non è bellissima, ma graziosa, che è quello che più conta, perché, come è noto, la bellezza in senso artistico è propria della gioventù; con il passare degli anni, con lo sfiorire, si finiscono con l'apprezzare valori ben più concreti.
Ma come contattarla?
Trent'anni fa mi sarebbe stato facile, grazie all'incoscienza tipica dell'età, ma oggi ho paura di sbagliare, di sentire un no secco che, più che ferire il mio orgoglio, acuirebbe il senso di solitudine, quasi di emarginazione, che già avverto.
Ed allora bisogna escogitare un piano d'azione, valutare i pro ed i contro dello stesso, ed alla fine osare, ben sapendo che dall'esito di questo gioco d'amore dipende il futuro della mia vita.
Comincio a farmi vedere; quando esce di casa faccio in modo di incontrarla come se fosse un fatto del tutto involontario; non ci conosciamo e pertanto non la saluto, ma già dopo una decina di volte di questo maneggio abbozzo un sorriso che spero venga contraccambiato. Macché, il suo volto resta impassibile e concludo che è proprio un osso duro. Va bene, continuiamo secondo il piano. Oggi non l'incontrerò solamente, non abbozzerò solo un sorriso, proverò a salutarla. E così faccio.
"Buon giorno"
"Buon giorno" e nulla di più, con il volto sempre impassibile, ma comunque il ghiaccio è rotto e questo mi dà forza.
Nel pomeriggio ritento l'attacco, nella speranza che in questo gioco condotto da un cacciatore la preda sia più che disponibile ad essere catturata.
"Buon giorno, signora; non passa giorno che non ci vediamo; il paese è piccolo e questa è l'unica passeggiata, bella, piacevole, graziosa" ed abbasso la voce, per poi sbottare, quasi vergognoso " e poi si incontra della gran bella gente."
Il suo volto accenna ad un sorriso, subito frenato; il volto si rabbuia un attimo, poi mi arriva un "buon giorno" secco. Resto in imbarazzo, mentre lei si allontana, ma noto il suo incedere: non è di una persona arrabbiata, è quel tipico passo leggero di chi sente la speranza nascergli nel cuore. Ed ecco che all'improvviso si volge e con uno sguardo radioso mi dice "Ci sarò anche domani."
La mia voce trema nel risponderle "Anch'io" e già vorrei che oggi fosse domani.

 

 

 

 

A futura memoria


E' passato ormai tanto tempo, quasi un secolo, e quei nomi incisi nella lapide sul frontale della chiesa del villaggio, a futura memoria di chi è caduto per la patria, non sono altro che lettere sconosciute ai più.
Vado spesso in quel dolce paese di montagna, ai piedi delle dolomiti, sia per il clima mite che per il paesaggio di una bellezza indescrivibile ed un giro per le strade a curiosare la merce esposta nelle vetrine ormai è divenuto un obbligo. Il borgo, cent'anni fa invero di modeste dimensioni, si è notevolmente ampliato in forza del crescente afflusso turistico, ma le caratteristiche dei suoi abitanti sono rimaste immutate ed ancor oggi la domenica non è difficile vedere qualche coppia avviarsi alla messa nel tradizionale costume tirolese.
La chiesa, con retrostante cimitero, è nella piazza del paese e le riservo sempre una visita, per la sua innata austerità; non manco di soffermarmi davanti alla lapide e leggi oggi e leggi domani quei trenta nomi ivi impressi hanno finito per rimanermi nella mente, in particolare uno: Alfred Meister.
Perché questa preferenza? Perché è morto l'ultimo giorno della prima guerra mondiale all'età di ventidue anni.
Ho chiesto in giro se aveva ancora dei parenti, anche alla lontana, ma tutti hanno scosso il capo; poi un giorno, mentre sedevo su una panchina della piazza, ho visto il parroco uscire dalla chiesa e mi è balenata un'idea. L'ho avvicinato e accennando alla lapide gli ho chiesto se qualcuno sapeva di questo Meister. E' rimasto un attimo assorto, poi mi ha pregato di seguirlo in canonica, dove ha frugato fra libroni vecchi e polverosi, trovandone alla fine uno. L'ha consultato a lungo, poi con un sorriso di compiacimento mi ha detto che ero fortunato, e nello stesso tempo sfortunato, perché Meister era un orfanello, o meglio ancora un trovatello, e che quindi non aveva già all'epoca parenti.
Proprio per questo i suoi effetti personali erano stati inviati alla parrocchia e probabilmente si dovevano trovare lì. Avrebbe provveduto a cercarli e poi si sarebbe fatto vivo con me.
Uscii in verità un po' disilluso, sia perché temevo che il parroco sarebbe riuscito a trovarli, sia perché non mi aspettavo nulla di interessante nella visione di quelle poche cose.
Ed invece mi sbagliavo, perché già il giorno successivo il sacerdote si mise in contatto con me e potei così aprire una piccola cassetta polverosa, dove fra poveri indumenti trovai un libricino che, esaminato, si sarebbe rivelato per un diario di incredibile interesse.
Molte pagine riportavano eventi comuni, o comunque di scarsa importanza, ma alcune furono un'autentica rivelazione che mi permisero di conoscere Alfred Meister, benché non l'avessi mai visto e ne ignorassi le sembianze.
Fu un lavoro difficile, e per la calligrafia minuta, e per la diversità della lingua, ma alla fine ogni sforzo fu ampiamente ricompensato.
In particolare, alla pagina 10 Meister scriveva " Non so se gli italiani sono così cattivi come li descrive il tenente, ma di una cosa sono sicuro: questa guerra fa paura a loro come a noi. Prima di ogni attacco non pochi disertano e ci chiedono di essere fatti prigionieri; non ignorano che non possiamo dar loro da mangiare, perché non ne abbiamo neppure per noi, eppure preferiscono la morte per fame all'orrore della guerra; li chiamano disertori, ma hanno più coraggio di chi resta al suo posto, anche se forse è il solo coraggio che viene dalla disperazione."
Alla pagina 35 "Oggi è morto Fritz, il mio più caro amico; era accanto a me nella trincea e stavamo parlando, quando si è sentito un colpo di fucile; è scivolato a terra senza un grido, un lamento, mentre un rivolo di sangue gli usciva dalla fronte; è da tre anni che faccio questa guerra e di amici ne sono rimasti pochi; Fritz era l'ultimo. A che serve un sentimento come l'amicizia, a sopportare meglio i patimenti della guerra o a disperarsi quando uno di noi se ne va?"

Pagina 47 "Domani dovremo attaccare il nemico; non l'ha detto nessuno, ma hanno fatto una distribuzione straordinaria di grappa; sempre così quando ci si deve preparare a morire; l'alcool ottenebra i sensi, toglie ogni volontà."
Pagina 48 "Abbiamo attaccato, siamo stati respinti, siamo ritornati all'assalto e ci hanno ricacciato indietro. Abbiamo avuto perdite pesantissime: siamo rimasti in quindici di un'intera compagnia. Anche gli italiani hanno avuto molti morti; questa è una guerra che viene vinta solo da chi ha più soldati da gettare allo sbaraglio e chi trionferà rischia di far più facilmente la conta dei sopravvissuti che non quella dei morti."
Pagina 61 " La vita in trincea è un inferno tale che non mi importa più di vivere o di morire, anzi quasi invidio chi mi ha già lasciato ed ha quindi posto fine alle sofferenze."
Pagina 65 " E' settembre e la guerra è già persa; tutti lo sanno, anche se nessuno lo dice; che senso ha continuare."
Pagina 71 "Sono arrivate le nebbie di ottobre e con queste la certezza della sconfitta; migliaia di morti per niente e chi è rimasto vivo e sopravviverà non sarà più lo stesso, perché l'orrore è entrato in noi; siamo ormai nient'altro che dei morti viventi."
Pagina 92 "E' il 3 novembre e si è sparsa la voce che domani vi sarà l'armistizio; non mi importa che questo macello finisca; dalla vita non ho avuto niente, nessun affetto; gli anni in cui speravo di poter conoscere l'amore mi sono stati sottratti da questa guerra; sono diventato vecchio prima del tempo e la vita per me non ha più senso."
Pagina 93, riporta poche righe e si interrompe nel mezzo di una frase "Oggi finirà; è un'umida giornata di novembre, uguale a tante altre. Non so che farò dopo, se ci potrà essere un dopo, ma…."
Allegata agli effetti personali ed al diario c'era una lettera del Ministero della Guerra ove si diceva, fra l'altro "Il soldato Alfred Meister è deceduto il 4 novembre 1918 sul fronte meridionale, colpito dal proiettile di un cecchino mentre incautamente si ergeva per guardare il cielo".
Non avrei potuto conoscere Alfred Meister in modo migliore neppure se fossi sempre stato accanto a lui.

          

 

 

 

 

 

 

Acqua ferma

 

Vito osservava lo specchio d’acqua immobile, in parte ombreggiato da alcuni salici; la calura del pomeriggio lì non era ancora arrivata e, benché fosse ben presente il lezzo del liquido stagnante e l’inevitabile moltitudine di moscerini e di zanzare, si poteva chiaramente avvertire un senso di refrigerio.

Più osservava la superficie immobile, più si sentiva irresistibilmente attratto dalla stessa; era uno specchio nel quale si rifletteva la sua immagine, immobile anch’essa, come fermata nel tempo.

E la mente vagava a ritroso alla ricerca di tante altre identità che avevano contrassegnato la sua vita; ecco, dapprima sfocata, e poi sempre più nitida, l’immagine di una donna, sua madre, sorridente ad un bimbo in fasce, lui stesso.

Come istantanee emergevano figure sopite, ma mai dimenticate, ricordi di un passato accantonati nella memoria per essere fatti riemergere quando era necessario, ed ora non era solo necessario, ma indispensabile: il tempo correva e nel giorno della vita sempre più prossima si faceva la sera. Come prolungare la luce, come ritardare il buio, se non ricorrendo alle esperienze trascorse? Con quale forza avrebbe potuto pensare di ricominciare nuovamente, se non partendo dal passato?

Volti diseguali si disegnavano sulla superficie dello stagno, appartenuti od appartenenti a persone che avevano segnato la sua vita: il primo amore, il nonno che troppo presto lo aveva lasciato, quello dell’amico fidato che poi non si era rivelato tale, la moglie defunta, che tanto aveva amato e per la quale ormai provava solo affetto, perché l’amore è tale solo se può essere ricambiato; l’insulso sorriso di una donna che lo aveva tradito, lo sguardo sereno e allegro di suo padre che non poteva più essere replicato dai suoi occhi ormai spenti.

Ad un tratto apparve una figura senza volto che gli tendeva le braccia esili, che invocava la sua presenza: quella del figlio tanto desiderato e mai avuto.

Possibile che nella sua vita ci fosse posto solo per tristezze? No, non erano tristezze, erano le gioie di effimeri momenti che provavano invece che aveva vissuto.

Poi, lentamente prese corpo l’immagine di una donna dai rossi capelli, un’immagine vitale che lo scosse dal torpore; era anch’essa nella sua mente? Sì, sempre era presente; poco a poco era entrata in lui, nella sua vita, come un messaggio di speranza: un misto di dolcezza e di vitalità, il futuro che non avrebbe mai sperato.

“Andiamo, si è fatto tardi” e Vito si volse: lei era lì, accanto a lui, i capelli rossi appena mossi da un refolo di vento. Lo prese sottobraccio, stringendolo a sé. Vito quasi si aggrappò a lei, poi, quando vide il suo sorriso gentile, si ritrasse “Un attimo solo”; raccolse un sasso e lo gettò nello stagno; l’acqua, non più ferma, fu percorsa da cerchi sempre più larghi.

“Ecco, adesso possiamo, dobbiamo andare” e si incamminarono con passo leggero, mano nella mano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                         Il giorno dopo

 

La città quella sera era pressoché deserta; pioveva in quel precoce autunno che non vedeva il sole da diversi giorni. I rari passanti frettolosamente arrancavano allo scarso riparo delle grondaie con un unico desiderio: ritrovare il riparo ed il caldo del focolare domestico.

Solo un’ombra s’aggirava lentamente, senza meta, protetta solo da una mantellina e da un elmetto, incurante degli scrosci, quasi non le importasse nulla di eventuali malanni, non improbabili con quell’umidità ed il freddo tignoso che penetravano fino alle ossa.

Mario alzò il bavero, poi si asciugò il viso e proseguì il suo cammino: era la sua ultima sera di libertà, il suo ultimo giorno di certezze, poi l’indomani sarebbe partito per quell’inferno di cui tutti parlavano e da cui pochi erano tornati: il Carso.

La guerra durava ormai da due anni e l’annuncio trionfante che sarebbe stata breve era stato rapidamente cancellato.

Vent’anni era l’età di Mario, un’età di gioie, di speranze, di innamoramenti; questo in altri tempi, non in quelli dove l’unica certezza era che la vita poteva essere tremendamente breve.

Era tutto il giorno che girovagava senza una meta, con la disperazione che può avere chi sa che la vita finirà da lì a poco.

Aveva ascoltato con angoscia i racconti dei soldati in licenza, in particolare del cugino che non riusciva  a capacitarsi  di essere  ancora vivo. Frasi mozze, pronunciate con voce soffocata, accompagnate da un percettibile tremito del viso.

“Fango, fango, o pietraie, ma ovunque morte; il tormento dell’attacco, il balzo fuori dalla trincea, chi cade intorno a te, le mitragliatrici fiammeggianti che ti puntano, l’immane esplosione dei proiettili delle bombarde.”

Mario ascoltava e, mordendosi il labbro, pregava che non fosse vero, che fosse frutto di esagerazioni, ma poi si accorse sgomento che i racconti del cugino collimavano con quelli di altri reduci, ed in tutti colpiva quel tremito del viso, quella sorta di espressione attonita, rassegnata.

“Vedi, arrivi ad un punto che ti rassegni; speri solo di non soffrire. I primi caduti ti lasciavano sgomento, poi sono diventati talmente tanti che….; non c’è posto per le amicizie, perché non potrebbero durare. E poi tutta quella sporcizia, il cibo scotto, i piedi permanentemente nel fango, i pidocchi che ti tormentano… A volte penso che l’inferno non potrà che essere meglio.”

Quando aveva ricevuto la cartolina dal distretto l’aveva letta solo come chi può leggerla uno che è già preparato alla fine dei suoi giorni, e quel giorno di pioggia che volgeva alla notte l’aveva trascorso come fosse stato l’ultimo della sua vita, perché il giorno dopo sarebbe partito per un viaggio senza ritorno.

Aveva camminato a lungo senza una meta, fermandosi solo in ogni osteria a farsi un goccio, nella speranza che l’alcool ottenebrasse la sua mente.

“Quando preparano un attacco non ce lo dicono, ma lo comprendiamo, perché si raddoppiano le dosi di acquavite. Ci vogliono ubriachi, senza volontà, perché se il cervello funziona chi mai si sognerebbe di correre incontro alla morte certa.”

Che cos’era stata la sua vita?  Aveva cominciato da giovane a fare il garzone nella macelleria sotto casa; ore ed ore di lavoro malpagate, rimbrotti continui, la miseria di una famiglia con tanti fratelli, ed un solo sogno: fuggire via, ovunque, senza pensare, per ricominciare, crearsi una vita giorno dopo giorno, metter su famiglia; la famiglia, lui che non aveva mai baciato una donna! Che schifo di vita: nulla di bello da ricordare ed allora tanto valeva la pena di terminare presto, anche se era ingiusto. E domani….

Isabella uscì dal lavoro e si affrettò verso casa, riparandosi il capo, per quanto possibile, con la borsetta.

Lavorava dieci ore al giorno in una modisteria, fatiche continue, assai poco retribuite, ma le permettevano di non pensare a quel marito caduto in uno dei primi mesi di guerra dopo solo un anno di matrimonio.

Quanto l’aveva amato! Era stato il suo primo uomo ed in lui aveva apprezzato la gentilezza, non disgiunta da una evidente forza interiore. Il loro era stato un rapporto forzatamente breve, ma intenso, ed il ricordo che ne serbava le faceva palpitare il cuore. Quand’era partito per il fronte era stato capace di trasmetterle la sua forza che aveva placato l’angoscia e la trepidazione che la pervadevano. L’aveva accompagnato alla tradotta e nel momento del commiato “Amore mio, torna, torna. Tieni questo mio fazzoletto e se lo appoggerai sul tuo cuore sentirai battere anche il mio.” gli disse fra le lacrime, che lui aveva asciugato con quel piccolo pezzo di tela che profumava di violetta. Era poi partito, ma il fazzoletto era rimasto fra le mani di lei. Altre lacrime lo avevano inzuppato quando era giunta più tardi la notizia della morte avvenuta in combattimento. Da allora l’aveva sempre tenuto nella borsetta, così da non separarsene mai.

Isabella girò l’angolo e venne urtata da uno sconosciuto, un militare.

“Mi scusi, signora”

“Va bene” e si chinò a raccogliere la borsetta caduta a terra.

Nel rialzarsi osservò lo sconosciuto: un giovane, forse della sua età, fradicio di pioggia e con uno sguardo triste.

“Non l’ho vista; è che sono frastornato; sa…, domani parto per il fronte. Se posso…, non so…, se vuole…; qui piove e fa freddo; le andrebbe di bere un caffè?” Non era una cortesia, era una supplica ed Isabella se ne accorse; non sapeva che fare, non le sembrava decoroso entrare in un’osteria con uno sconosciuto, ma anche lui sarebbe partito il giorno dopo e chissà quali tormenti l’affliggevano.

“Sì.”

Lì vicino c’era un’osteria, un ambiente fumoso dove l’odore acre del vino si mescolava al puzzo dei toscani.

Entrarono e presero posto ad un tavolo traballante, uno di fronte all’altro.

Mario guardava la donna alla luce della lampada che pendeva dal soffitto: non poteva essere definita una bellezza, ma in lei c’era un innato senso di dolcezza che le dava splendore, e poi emanava una forza interiore che si poteva scorgere nel suo sguardo mite, ma fermo, quasi che gli eventi della vita fossero per lei nulla più che un ricordo dal quale trarre spunti per proseguire.

Un lungo silenzio li accomunava, ma gli occhi finirono per incontrarsi e quelli spenti e tristi di Mario si accesero di una nuova luce che non passò inosservata ad Isabella.

“Sono vedova; mio marito è caduto nei primi mesi di questa tremenda guerra; da allora è la prima volta che sono seduta ad un tavolo con un uomo.”

“Capisco ed anche per me è la prima volta che sono davanti ad una donna, una bella donna.”

“Non esageri, sono una come tante.”

“No, lei è diversa, lei è la cortesia, la dolcezza,…., è tutto quanto di bello c’è al mondo; lei è la vita.”

Isabella sorrise per i modi impacciati di Mario, ma quel ragazzo le faceva tanta tenerezza, con quella sua aria sperduta, quel timore per il domani che si poteva leggere nei suoi occhi. E poi, non sapeva il perché, ma sentiva per lui un’attrazione che non riusciva a giustificare.

Bevvero distrattamente il caffè, o meglio quel liquido nero e caldo che avrebbe dovuto essere caffè, ma non sentirono il gusto, perché i loro sensi erano tutti orientati in un’unica direzione.

Il pendolo dell’osteria battè le dieci. “Mi scusi, si è fatto tardi; devo andare” e si avviò verso la porta. Mario la rincorse; uscirono in strada entrambi e sotto la pioggia si guardarono ancora una volta. Fu solo un attimo, un brevissimo istante, ma le loro labbra si incontrarono. “Ci sarò anch’io domani alla partenza” gli gridò Isabella e corse via.

Mario rimase fermo sotto la pioggia che gli sembrò diventata amica.

Il giorno dopo la Stazione Centrale era affollata per la partenza della tradotta. Mario continuava a guardarsi intorno, la cercava, doveva vederla. E come promesso, lei venne.

“Come ti chiami?”

“Mario Stuani”

“Io Isabella Damato; ti ho portato un dolcetto e nel pacchetto c’è anche il mio indirizzo: mi scriverai?”

“Ma certo che ti scriverò, ogni giorno, sarà come parlare con te.”

Questa volta il bacio fu più intenso, insieme con un abbraccio forte e fremente.

Il treno fischiò.

Mario si ritrasse. “Aspetta“ e frugando nella borsetta la donna ne trasse il fazzoletto. “E’ mio, ma adesso è tuo.”

“Lo porterò sempre con me, me lo metterò sul cuore…” poi saltò sul predellino.

Il treno si mosse e cominciò a prendere velocità. Mario continuò a guardarla fino a quando non scomparve dalla sua vista.

Si mise il fazzoletto sul cuore; si sentiva raggiante: era passato dalla rassegnazione al desiderio di vivere, anche se ora aveva paura della morte.

Quel ritaglio di tela lo accompagnò per i lunghi anni della guerra, si sgualcì, si intrise di fango, ma rimase sempre lì ed alla vigilia del Natale del 1918 ritornò alla sua padrona.

 

 

 

 

 

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class="MsoNormal" style="text-align:justify"> Il giorno dopo la Stazione Centrale era affollata per la partenza della tradotta. Mario continuava a guardarsi intorno, la cercava, doveva vederla. E come promesso, lei venne.

“Come ti chiami?”

“Mario Stuani”

“Io Isabella Damato; ti ho portato un dolcetto e nel pacchetto c’è anche il mio indirizzo: mi scriverai?”

“Ma certo che ti scriverò, ogni giorno, sarà come parlare con te.”

Questa volta il bacio fu più intenso, insieme con un abbraccio forte e fremente.

Il treno fischiò.

Mario si ritrasse. “Aspetta“ e frugando nella borsetta la donna ne trasse il fazzoletto. “E’ mio, ma adesso è tuo.”

“Lo porterò sempre con me, me lo metterò sul cuore…” poi saltò sul predellino.

Il treno si mosse e cominciò a prendere velocità. Mario continuò a guardarla fino a quando non scomparve dalla sua vista.

Si mise il fazzoletto sul cuore; si sentiva raggiante: era passato dalla rassegnazione al desiderio di vivere, anche se ora aveva paura della morte.

Quel ritaglio di tela lo accompagnò per i lunghi anni della guerra, si sgualcì, si intrise di fango, ma rimase sempre lì ed alla vigilia del Natale del 1918 ritornò alla sua padrona.

 

 

 

 

 

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