La prima volta
"Nonno, quando hai
fatto l'amore per la prima volta?"
"Ma cosa ti sogni mai! Non sono domande da bambino per bene quale sei te."
"A scuola alcuni miei compagni ne parlano, ma mi sembra che non abbiano le
idee chiare; c'è Carletti che dice che ha visto il suo babbo baciare la sua
mamma e invece Rossi mi ha raccontato che un uomo ed una donna stanno nudi
uno di fronte all'altro e così fanno l'amore."
"Ah, un giorno capirai senza io ti spieghi; però mi hai fatto venire in
mente quella che avrebbe dovuto essere stata la mia prima volta e, per
fortuna, non avvenne niente. Adesso ti racconto, ma non farmi domande
chiarificatrici, va bene?"
E' accaduto quell'anno della festa con la storia dell'albero della cuccagna
che ti ho già raccontato; più o meno il fatto si verificò un mesetto prima
della sagra. Avevo quindici anni, non andavo più a scuola e lavoravo quasi
ogni giorno in campagna: insomma, mi sentivo un adulto, anche se non lo ero.
Avevo preso così l'abitudine la domenica pomeriggio di andare all'osteria
del paese, raduno obbligato dei maschi del luogo, ove, stimolati da un
bicchiere di vino, scioglievano le lingue, con un argomento pressoché fisso:
le capacità amatorie. L'impressione era di essere in un pollaio con tanti
galli e neppure una gallina; ovviamente una chiacchiera tirava l'altra e si
finiva con lo sparlare di qualcuna. Uno dei soggetti preferiti era la vedova
Patti, donna sulla trentina, da tutti definita una mangiatrice di uomini,
anche se poi risultava che nessuno l'aveva sperimentata. Certo, erano
chiacchiere spesso a vuoto, piccole vanità di gente per lo più analfabeta,
che vedeva in una supposta particolare virilità quella realizzazione nella
vita, altrimenti insignificante, fatta com'era di lavoro duro e poco pagato,
dall'assillante problema di far quadrare i conti in modo che nella giornata,
oltre alla cena, ci fosse anche un pranzo, per quanto grami entrambi. Io
ascoltavo in disparte, cercando di capire quali erano le verità e quali
invece le spacconate. E fu così che venni a conoscenza dell'esistenza in
paese di una persona, diciamo, molto disponibile.
"Dove vai?" disse Tonio a Francesco, che si apprestava a lasciare l'osteria.
"Mi sono rimasti tre soldi, giusti giusti per un colpetto all'Adalgisa."
"Sempre bene in carne quella femmina, vero?"
"Sì, anche troppa, ma mi vanno abbondanti; non voglio stringere le ossa di
mia moglie; qualche volta bisogna pur togliersi la voglia di avere tanto da
guardare e da toccare."
"Più tardi penso proprio di farci un salto pure io; è un po' che non ci vado
ed ho nostalgia di quella baldraccona. E tu ragazzo, che hai da ascoltare?
Questi sono discorsi per uomini, e non per mocciosi che hanno ancora la
goccia al naso."
Rimasi sconcertato e "Non faccio del male, se ascolto. E poi non sono un
moccioso, io sono un uomo che lavora tutto il giorno e che contribuisce a
mandare avanti la famiglia."
"Mi fai ridere; quella non è roba per te: non sapresti che farci. Va, levati
dai piedi, ed oggi sono generoso: ti faccio anche un regalo, sì un regalo ad
un uomo come te…" e mi allungò una sigaretta tutta rattrappita.
Francesco uscì e pure io; lo seguii, un po' a distanza, in modo che non se
ne accorgesse, una prudenza forse eccessiva perché i due bicchieri di vino
tracannati cominciavano a fare il loro effetto; camminava traballando,
appoggiandosi ogni tanto ai muri delle case, finché giunto in fondo alla via
entrò in una mezza stamberga.
"Allora è lì che sta l'Adalgisa" mi dissi ed il cuore cominciò a battermi
forte. Ecco, ero vicino alla fonte di ogni piacere; bastava che attendessi
l'uscita di Francesco e poi mi facessi avanti ed anch'io avrei assaporato
l'ebbrezza dell'amore, come un vero uomo. Contai i soldi in tasca ed erano
appunto tre baiocchi, ma restava un dubbio: avrei fatto bene, o avrei
commesso un peccato; sarei diventato così un uomo, o sarei rimasto il
ragazzino delle prime esperienze solitarie; ne sarei stato capace, o avrei
fatto miseramente fiasco.
I pensieri affardellavano la mente; il cervello sembrava scoppiare e mi
diceva di non farlo, ma in certi momenti non si ragiona con la testa, ma con
qualche cosa che esplode prepotente dentro di te ed a cui non riesci ad
opporti.
Così quando Francesco se ne uscì, entrai io.
C'era una sola camera, con un pagliericcio e sopra, nuda come l'aveva fatta
mamma, stava l'Adalgisa. Era quella che si sarebbe detta una buona stazza,
abbondante in ogni parte, con due seni che sembravano cocomeri ed un di
dietro mastodontico; sui quaranta, quarantacinque anni, il volto, non bello,
enorme e sfatto mi ricordò chissà perché certi rospi che s'annidavano nei
fossi delle risaie.
"Che vuoi, ragazzino?"
"Io, io…. "
"Eh, spicciati, che tempo da perdere non ne ho con un moccioso"
"A dir la verità, passavo di qua ed allora…"
"Va la, lo so che cosa vuoi." e spalancò oscenamente le gambe a mostrare
quello che pensava fosse il meglio della sua mercanzia.
Rimasi impietrito: mi ero immaginato qualche cosa di diverso, un fiore che
sbocciava e non ….
Corsi via, mentre l'Adalgisa rideva sguaiatamente.
Appena fuori, mi appoggiai ad un muro a prendere fiato: se l'amore era così,
non l'avrei mai fatto in vita mia, ma già sapevo che non era vero, perché da
un po' di tempo provavo uno strano sentimento, di gioia e di ansia insieme,
per una ragazzina di nome Marianna; con lei avrei dovuto ritentare e forse
allora sarebbe finita diversamente.
Mi trovai in mano la sigaretta; la portai alle labbra e l'accesi: aspirai
una prima boccata e subito presi a tossire convulsamente.
Ero quasi chino al suolo a sputare anche l'anima, quando mi arrivò una
scapaccione fra capo e collo.
"Ecco il nostro ometto; ma vattene a casa a succhiare il latte". Era Tonio
che, fischiettando, entrava dall'Adalgisa.
Ma perché mai avrei dovuto diventare uomo, perché non potevo restare
ragazzino? Fu solo un attimo di sconcerto, poi ricordai il sorriso con cui
la Marianna alcuni giorni prima aveva contraccambiato il mio sguardo, ed
allora ripresi la strada, le mani in tasca, fischiettando un motivetto
allora in voga.
- Da "I racconti del nonno" -
Il più bel giorno
della mia vita
"Nonno, hai qualche racconto un po'
allegro?"
"Sì, ne ho uno che riguarda il più bel giorno della mia vita."
Era una gelida giornata dei primi di dicembre, il giorno 6 per l'esattezza,
e la guerra, la Grande Guerra era terminata da circa un mese. Poco a poco le
truppe venivano smobilitate e venne anche il nostro turno, la volta del
ritorno degli Alpini dell'Adamello. Eravamo partiti in tanti, con promesse
di libertà e di giustizia, e sulla tradotta ora salivamo in pochi, con
l'animo ferito da tanto orrore, ma ancora con la speranza che qualche cosa
potesse veramente cambiare nella nostra vita. Ci illudevamo che anche per
noi ci sarebbe stato un po' di sole, e invece…ma questo non fa parte del
racconto di oggi.
In treno non parlavamo; le nostre menti correvano alle case lontane che
avremmo presto rivisto, alle donne che ci aspettavano e che avevano patito
la guerra al pari di noi. Il paesaggio scorreva davanti ai finestrini di
quelle carrozze di terza classe, ma non lo scorgevamo: davanti a noi c'erano
ancora le immagini delle trincee contorte, della neve insanguinata e degli
amici caduti; queste ultime, che al fronte erano state accantonate, nascoste
negli angoli più reconditi del cervello, ora prorompevano da quel temporaneo
oblio a ricordarci che anche loro avevano permesso il nostro ritorno.
Era quasi sera quando arrivammo in stazione a Mantova e là sul marciapiedi,
accanto ai binari, la folla dei nostri cari era in attesa.
Scorsi subito la Marianna; provai una sensazione indescrivibile, una gioia
così intensa che ebbi paura che il cuore mi uscisse dal petto. "Dio, com'è
bella" e lo dissi ad alta voce; scesi dal treno e di quei momenti ho un
ricordo confuso, indescrivibile. Mi sembrò di essermi alzato in volo; le
gambe si muovevano da sole, non comandate dal cervello, ed il cuore che
batteva sempre più forte; non fu un abbraccio, fu l'apoteosi della passione
fino allora soffocata dalla guerra. Le baciai i capelli, le guance, il naso,
la bocca; intorno, benché ci fosse una moltitudine, per me c'era il vuoto
assoluto: in quei momenti lì s'incontravano, sostavano, vivevano il momento
più bello della loro vita solo due persone: io e la Marianna. Le accarezzai
il volto, lasciai scorrere le dita su quell'ovale perfetto, poi la fissai
negli occhi e dissi solo "Eccomi di nuovo". Lei non rispose, ma lo sguardo
valeva più di mille parole: leggevi la gioia di una donna per il ritorno del
suo uomo da uno scampato pericolo.
Piano piano, tenendoci per mano, ci avviammo verso casa, il che voleva dire
circa otto chilometri di scarpinata, ma non m'importava: avrebbero potuto
essere anche mille e non mi sarei spaventato, perché ora con me c'era lei.
Il buio già incombeva, ma la luce delle stelle ci avrebbe guidato in quella
camminata che non avrei mai voluto che dovesse finire.
Ogni tanto mi volgevo a guardarla e lei mi sorrideva: ah, la guerra ormai
era sparita, dimenticata, ed ora c'era finalmente la vita, per quanto di
fatica, di lavoro, di povertà, ma c'era ed era quel mio piccolo mondo, io e
lei; il resto non contava.
Arrivammo che era buio pesto; ancora non abitavamo insieme perché la guerra
ci aveva impedito di sposarci. Accompagnai la Marianna a casa sua e prima di
lasciarla " Amore mio, che vuoi che ti dica?" "Dimmi che mi ami." La guardai
e "Ancora meglio: vuoi sposarmi?" "Sì" e ci abbracciammo, mentre le mie
lacrime si mescolavano alle sue.
Mi allontanai lentamente a ritroso, quasi avessi paura che quel buio
l'inghiottisse, e quando entrò in casa andai per la mia strada. Passai
vicino al vecchio lavatoio, dove le donne si ritrovavano a fare il bucato ed
aspirai a pieni polmoni il profumo del sapone, passai le mani sui vecchi
scanni, poi le immersi nell'acqua.
La luna vi specchiava ed io, increspando la superficie, ne mutavo i
riflessi, l'immagine enigmatica che tutti conosciamo. Ecco, questa era
l'aria di casa, in cui ero cresciuto e da cui forzatamente avevo dovuto
allontanarmi per più di quattro anni. Mi appoggiai alla vecchia quercia e
chiusi gli occhi; che ne sarebbe stato adesso della mia vita, che cosa avrei
fatto? Non trovai risposte, ma l'immagine sorridente della Marianna fugò
ogni incertezza sul futuro. Qualunque sarebbe stato, non poteva che esser
bello, perché io ora ero con lei.
Mi chinai a raccogliere una zolla di terra; la strinsi forte e ne uscì il
profumo acre ed intenso della vita; stetti un attimo ancora a guardare il
cielo stellato, che avrei voluto raccogliere fra le mie braccia per farne
dono a Marianna, e poi mi avviai: a casa di certo mi attendevano in ansia.
- Da "I racconti del nonno" -
Giorni di scuola
"Giovanotto, domani
ti devi alzare presto: è il tuo primo giorno di scuola."
"Nonno, ci sei andato anche tu a scuola, vero?"
"Sì, ho fatto le cinque classi delle elementari e per l'epoca era già tanto,
perché per studiare bisognava essere ricchi."
"Dai, raccontami dei tuoi giorni di scuola."
"Ci proverò, perché devo andare tanto indietro nel tempo e ricordare non è
sempre facile."
Ricordo il primo giorno di scuola, perché è legato ad un episodio che mi si
è impresso nella mente e che tanto vorrei scordare, ma non ci riesco.
Ero emozionato, come lo sono anche oggi tutti i bambini. La mamma mi aveva
vestito abbastanza decorosamente con quel poco che avevo; pensa, era
settembre e portavo ai piedi le scarpe invernali, perché non ne avevo altre,
ma ero felice. Sarei stato insieme a degli altri bambini, avrei imparato a
leggere, a scrivere.
Il fabbricato della scuola era fatiscente, con i muri corrosi dall'umidità,
e le aule, stanzoni scrostati con i vetri delle finestre rattoppati alla
meglio, erano piene di banchi di legno tarlati e segnati dal tempo. Rammento
che dapprima ci fu l'appello e poi ad ognuno fu assegnato il suo posto; io
capitai allo stesso banco di Cescone, un bambinone in sovrappeso che quando
si sedeva faceva scricchiolare l'asse del sedile. In seguito sarebbe
diventato famoso per le sue somarate, certamente non volute, perché,
purtroppo per lui, la dimensione del cervello era inversamente proporzionale
a quella del corpo. Ci avrebbe fatto ridere con le sue risposte idiote
durante le interrogazioni, con quel suo faccione che sbucava da dietro la
lavagna dove lo cacciava la maestra, ma da bambini ingenui non potevano
sapere il male che gli avremmo fatto; la sua diversità, così evidente, così
corrosiva, lo avrebbe portato di lì a qualche anno al drammatico epilogo
della sua vita, a quel suicidio che avrebbe posto fine alla sventura di non
essere come gli altri.
La maestra! Me l'ero sognata come una fatina dai capelli biondi ed invece
era una vecchia e acida zitella che accompagnava, di frequente, il suo
stridulo insegnamento con scapaccioni, i cui segni ti restavano per dei
giorni. Certo che se l'insegnante avesse dovuto dare agli allievi un esempio
di vita e questi l'avessero seguito, le risse, le scazzottate sarebbero
state all'ordine del giorno.
E bastava niente per prendersi un ceffone: un pelo sul pennino che
sbrodolava d'inchiostro il quaderno, una domanda innocente volta a
comprendere meglio una lezione, e persino l'inderogabile necessità del
gabinetto.
Tuttavia, quel primo giorno sembrava tutto bello e sentivo dentro di me
l'orgoglio di essere uno scolaro. Venne anche il direttore a farci un
discorsino di benvenuto che sembrava però di commiato, tanta era la fretta
di lasciarci. Quell'uomo aspirava da tempo ad una posizione migliore, a
dirigere una scuola frequentata solo da figli di nobili e della ricca
borghesia, e non quindi un povero istituto di campagna dove ogni tanto si
doveva ricorrere alla disinfezione dai pidocchi.
In verità non ci fu una prima lezione, ma un più volte ripetuto decalogo di
comportamento: quello che si doveva fare (ed era molto), quello che non si
doveva fare (ed era ancor di più) e quello che si poteva fare (in pratica
niente).
Lo scopo evidente era quello di non permettere alla povera gente di aspirare
a migliorare; c'era solo da stare zitti e sopportare: così nella scuola ed
altrettanto nella vita.
Verso metà mattina accadde il fatto; in classe c'era un biondino, un bambino
minuto, dagli occhi chiari stanchi ed infossati; stava in prima fila ed
ascoltava assente, quando improvvisamente reclinò il capo ed il fianco su un
lato, cadendo dalla sedia. La maestra gli si avventò contro, pensando che
dormisse, ma…
"Mio Dio, ma il bimbo sta male; presto, qualcuno, chiamate qualcuno." Ed in
due o tre corsero a chiamare il bidello, un vecchio che, quando non era
ubriaco, masticava in continuazione tabacco in un fetore insopportabile fra
frequenti sputacchiate che non sempre arrivavano all'apposito recipiente.
Questi venne ciabattando, con aria insonnolita, guardò il bimbo "Non sta
bene", sentenziò come un medico di fama, assumendo un'aria importante, come
se la sua diagnosi potesse essere partorita solo da una mente superiore.
"Che facciamo?"
"Lasci fare a me, signora maestra; lo porto a casa dai suoi: un po' di
riposo, qualche scapaccione ben dato e domani - e sottolineò il domani,
soffermandosi con aria austera - domani sarà di nuovo qua, vispo e fresco
come un fringuello."
E così il biondino fu portato a casa, ma il giorno dopo non venne a scuola,
e neppure il successivo.
Cominciai a temere il peggio e decisi di andare a trovarlo.
Abitava in una vecchia casa, al terzo piano; le scale erano buie e
maleodoranti di zuppe ricotte e di urina di gatto.
Bussai alla porta: venne ad aprirmi un uomo dal volto scavato e dolente, gli
occhi rossi e le labbra tremanti. Non dissi nulla, perché anche se ero un
bambino certe cose le capivo. C'era un altro uomo nella stanza, ben vestito
e con una borsa: il medico.
"Se mi chiamavate prima, forse potevo fare qualche cosa, ma ora è evidente
che è impossibile: non posso richiamare in vita un morto!"
"Dottore, non l'abbiamo chiamata prima perché non abbiamo soldi per pagarla;
io faccio il bracciante e non lavoro tutto l'anno, e non sempre si mangia;
quando ho visto che respirava affannosamente, la disperazione mi ha fatto
dimenticare il problema del denaro ed allora sono corso da lei…"
"Non voglio niente, voglio solo andarmene, uscire, respirare l'aria fresca
del mondo che vive…" ed uscì.
"Vieni a vederlo, sembra che dorma sereno." mi disse il padre e notai che
c'era un'altra camera. L'uomo mi fece strada, poi sostò sull'ingresso
facendomi cenno di entrare. Io non ebbi il coraggio e mi affacciai soltanto:
nel buio, appena rischiarato dalla tremula luce di una lampada a petrolio,
c'era una donna prona su un letto che abbracciava un fagottino. Corsi via
piangendo: era stato il mio primo incontro con la morte.
Il giorno dopo tutta la classe andò al funerale; prima in chiesa, dove il
parroco recitò brevemente alcune litanie in latino e non dedicò più di un
minuto per ricordare questo sventurato figlio della miseria. Poi, tutti al
cimitero, con la piccola cassa di legno scadente su un carretto spinto dal
padre. Fu calata nella nuda terra e mentre la fossa veniva ricoperta il
bidello che, quando era ubriaco, ragionava meglio di quando era sobrio, ebbe
solo a dire " Vai, piccolo, dove non avrai più da soffrire. Che schifo di
mondo, questo."
Non un fiore, ma solo una piccola croce con impresso ad inchiostro il nome
ed il cognome, poche lettere che in breve le piogge dell'autunno ed il
freddo dell'inverno cancellarono.
- Da "I racconti del nonno" -
Sinfonia d'autunno
"Che hai nonno? Mi sembri triste…"
"E' la giornata, fredda e nebbiosa, con l'umidità che penetra in queste ossa
stanche."
"Raccontami qualche cosa, la tua vita che sembra un romanzo, fallo per me."
"Non sono dell'umore giusto, ma questa giornata me ne ricorda un'altra
dell'ottobre del 1945. E va bene, racconterò di allora"
Era umido e freddo come oggi; la guerra era finita da pochi mesi, ma se non
c'era più la paura delle bombe c'era il solito problema della miseria, che
mi ha accompagnato per tutta la vita. E miseria non vuol dire solo non
potersi comprare da mangiare, è ancora peggio: è come vagare in un deserto
senza una meta, è avere la certezza che nulla potrà cambiare, che l'assillo
quotidiano che c'è stato ieri ci sarà anche oggi, domani, dopodomani e così
per tutti i giorni a venire.
Ho sempre davanti gli occhi delle persone che hanno come fedele compagna la
miseria: sono spenti, rassegnati, impotenti.
La nonna era alcuni giorni che non stava bene: una febbre iniziata con poche
linee era via via cresciuta ed il dottore continuava a dire che era un po'
d'influenza, un comune malanno di stagione. Ma poi la temperatura aveva
preso ad aumentare vertiginosamente: 39, 40 gradi; e l'accompagnava una
tosse roca. L'abbiamo portata all'ospedale; broncopolmonite mi hanno detto
sotto voce e poi il dottore mi ha appoggiato una mano sulla spalla ed ho
capito tutto; sono uscito nel corridoio ed ho appoggiato la testa al muro.
Trent'anni insieme, a lottare, a crescere i figli, ma sempre uniti, trent'anni
di miseria, ma anche di felicità, perché non è la ricchezza che ti rende
felice, è amare ed essere riamato. Non poteva finire così, in un letto
sgangherato di ospedale, in uno stanzone che puzzava di disinfettante. Ed
allora sono rientrato nell'ambulatorio…
"Dottore, non si può proprio fare nulla? La prego, mi dica qualche cosa, la
supplico…"
"E' molto debole e la malattia è devastante; direi che non ci sono cure, o
forse…"
"Forse, cosa? Mi dica, sono disposto a tutto."
"Gli americani hanno un prodotto che cura le infezioni e questa è un
infezione: si chiama penicillina."
"Penicillina? Proviamo questo prodotto; proviamo…"
"Non lo abbiamo nella farmacia e c'è solo sul mercato nero, a prezzi
proibitivi. Si vende in fiale da iniettare per via intramuscolare; se
vogliamo fare un tentativo, ma senza certezza di risultato, direi che
occorrono sei fiale; ieri costavano, costavano uno sproposito: Lire
centomila cadauna, cioè in totale Lire seicentomila.."
" Seicentomila?" e mi caddero le braccia. "Seicentomila, ma è un'enormità;
io prendo ventimila lire al mese e non bastano neppure per il mangiare…"
"Non so che dirle; ha tutta la mia comprensione."
"Quanto tempo ho?"
"Come?"
"Sì, per quando al massimo Lei deve avere le fiale?"
"Prima possibile, e comunque non oltre domani pomeriggio."
"Va bene, va bene"
Uscii come tramortito, barcollando e con il chiodo fisso di trovare quei
soldi. Ma dove? Non avevamo una lira da parte e tutti quelli che conoscevo
erano tutti nelle stesse condizioni, se non peggio.
Tornai a casa impietrito; i vicini capirono che era successo qualche cosa di
grave e vollero sapere. Raccontai piangendo tutto, anche delle seicentomila
lire ed anche loro mi misero una mano sulla spalla.
Mi buttai sul letto affranto, cercando un po' di quiete per riordinare le
idee e sperando in un improbabile colpo di genio, ma dalla strada veniva un
rumore incessante di merci trasportate, di mobili spostati. Che diavolo
succedeva? Mi affacciai alla finestra: c'erano i Bianchi che mettevano su un
carretto la loro vecchia cassapanca, l'unico mobile che avevano di qualche
valore; più in là i Marchesi si caricavano sulle spalle dei materassi e la
signora Silvia, di cui non riesco mai a ricordarmi il cognome, spingeva una
carrozzella da neonato con sopra qualche chincaglieria. "Ma che fanno! Si
mettono a traslocare oggi e poi chissà dove andranno con le poche case
disponibili" Mi ritrassi, perché orma il fermento interessava tutta la via;
gente che stava lì da anni, che conoscevo da una vita e che ora di colpo se
ne andava. Mi sembrava di impazzire: la nonna là in ospedale già quasi in
agonia, io a casa a pensare all'impossibile e tutti quelli che se andavano.
Era peggio di un incubo, anche se speravo che tutto fosse solo un sogno.
Cominciai a fare un po' di conti: se impegno questo mi possono dare tot,
quest'altro tot, ma alla fine la cifra che risultava era drammaticamente
inferiore al necessario. Non avevo nulla da poter dare in garanzia ed uno
strozzino mi avrebbe riso in faccia; cercare qualcun altro che mi prestasse
i soldi, ma chi, se tutti quelli che conoscevo erano squattrinati.
Gocce di sudore mi scendevano dalla fronte e la testa mi scoppiava. Ritornai
a letto e probabilmente sfinito mi addormentai.
Poi qualcuno bussò alla porta: mi alzai intorpidito ed andai ad aprire.
Lungo le scale c'era una moltitudine, i Bianchi, i Marchesi, la signora
Silvia, tutto il vicinato.
Che fossero venuti a salutarmi prima di andarsene?
Il brusio cessò quando si fece avanti il capofamiglia dei Bianchi.
"Senti Pietro, noi vogliamo come te che tua moglie viva; siete due gran
brave persone, siete come di famiglia per tutti; lo sai che siamo poveri
come te ed allora abbiamo fatto una colletta, ma non siamo arrivati a
seicentomila lire, anzi siamo appena arrivati alla metà. Però si può, si
deve tentare; tienile e speriamo bene…"
"Non so cosa dirvi, ma io quando mai potrò restituirvi questi soldi?"
"Non importa; quando vorrai e se potrai; quel che conta è che tua moglie
guarisca."
E se ne andarono in silenzio.
Quella povera gente aveva impegnato tutto quel poco che aveva ed io seguii
il loro esempio: portai anche il letto al Monte di Pietà.
Alla fine riuscii a comprare quattro fiale, ma si vede che la solidarietà
dei poveri è apprezzata in cielo e queste bastarono.
Mi sento ora in debito con tutti, anche perché non sono in grado di
ripagarli; adesso capisci perché la porta di casa mia è sempre aperta: loro
non vengono, ma quello che ho qua è loro.
- Da I racconti del nonno -
L'albero della cuccagna
Quando il nonno
raccontava, ascoltavo estasiato come se udissi le più belle fiabe, ma in
verità non si trattava di invenzioni, ma di fatti reali, esperienze di vita
vissuta, forse implementate con un po' di fantasia per sopperire al calo di
memoria dovuto all'età.
Si trattava di episodi della sua vita, in tempo di pace ed in tempo di
guerra, una specie di cronaca vera, lo spaccato di un'epoca.
E quello che mi appresto a ricordare è sintomatico delle condizioni di vita
della povera gente ai primi del novecento.
Correva l'anno 1910 ed ero un ragazzino in piena pubertà; mi guardavo
intorno e tutte, dico tutte, le fanciulle mi interessavano; nessuna mi
sembrava brutta, anche perché morivo dalla voglia di abbracciarle e di fare
quello che i grandi, con mezze frasi ed ammiccamenti, andavano ripetendo.
Già lavoravo; ultimata la quinta elementare avevo cominciato ad andare in
campagna a sgobbare sotto il sole dell'estate, sferzato dalla pioggia
dell'autunno, battendo i denti per il freddo in inverno, ma con il cuore
caldo e forte in primavera, ed accadde appunto in quella primavera, in
occasione della festa del patrono. In paese c'era movimento, era venuta una
giostra mossa da un povero ronzino; in programma c'erano le corse con i
sacchi e, soprattutto, l'albero della cuccagna. Allora si mangiava una volta
al giorno: un uovo con insalata, o un'insalata con un uovo, e così per sette
giorni, per un mese, per un anno, per tutta la vita; qualche rara volta, per
Pasqua o per Natale, si cambiava con una minestra di brodo di carne di
pollo, carne poi che mangiavamo: ci sembrava in quelle occasioni di essere
ricchi, ma già il giorno dopo ricomparivano nel piatto l'uovo e l'insalata.
Scusami, mi stavo perdendo con il ricordo; eravamo dove? Ah, sì, all'albero
della cuccagna, un lungo palo infisso nel terreno e cosparso di grasso con
in cima una ruota di carro da cui pendevano in genere un paio di salami, una
pancetta e, a volte, anche un prosciutto crudo; prelibatezze da ricchi, si
diceva, e non per noi che eravamo poveri. Tuttavia, ai poveri era concesso
di poter beneficiare di queste meraviglie, a patto che riuscissero ad
arrampicarsi lungo il palo - e ti assicuro che non era facile - e ad
afferrarle.
Nella competizione si misuravano tutti, perché troppo grande era il premio:
carne, quella carne così indispensabile di cui sentivamo tanto il bisogno.
Ci si allenava, a volte anche per mesi, ed io quell'anno mi sentivo in una
forma smagliante.
La sera prima della gara, gironzolando intorno alla giostra, buttai gli
occhi sulla Marianna, una ragazzina tutto pepe, con due splendidi occhi neri
che ricambiarono maliziosi il mio sguardo. Mi feci avanti e "Ciao, Marianna,
che fai da queste parti?"
"Giro." "Giriamo insieme?" E lei annuì. Non c'era molto da vedere e ben
presto ci stancammo della giostra che ruotava e del ronzino che stancamente
la muoveva; mi avviai verso la campagna, tenendola per mano, e lei mi seguì.
Appena fummo al buio l'abbracciai, la strinsi a me con tutta la forza che
avevo e lei mi diede un bacio sul collo. Poi…non ti racconto altro: un
giorno anche tu capirai e proverai le stesse emozioni; ti dico però una cosa
che è importante per comprendere la storia: non facemmo quelle cose che
facevano i grandi, perché lei si rifiutò, nonostante i miei tentativi, le
mie suppliche; riuscii però a strapparle una promessa, anche se condizionata
"Se domani riuscirai a salire sull'albero della cuccagna e mi porterai tutte
quelle buone cose, sarò tua.", e corse via ridendo.
Giuro che quella notte non dormii; mi sentivo emozionato, mi sembrava di
aver tagliato per primo il traguardo di una gara importante e, soprattutto,
mi pareva di essere un grande e non un ragazzino di 15 anni.
Il giorno dopo, che era domenica, non si lavorò ed io passai il tempo ad
allenarmi; andavo su e giù lungo quell'albero con una velocità che mi
stupiva, assai maggiore di quella degli altri concorrenti, tranne uno, il
Ratti, un uomo sui trent'anni, già sposato, con quattro figli da sfamare ed
una moglie che non riusciva a dare il latte al quinto di soli pochi mesi.
Mi fissava mentre mi arrampicavo, scorgevo in quello sguardo una speranza
rassegnata, e quando toccava a lui metteva tutte le sue forze; era veloce,
ma non quanto me. La moglie, con i quattro bimbi a lato ed il quinto in
braccio, lo osservava con trepidazione e gli ripeteva "Sta attento; non
cadere; non farti male; non abbiamo che te."
All'imbrunire gli allenamenti cessarono ed andammo a lavarci nel fosso dal
grasso che ci avvolgeva.
Il Ratti mi venne vicino e, a bassa voce " Ti prego, lascia che vinca io;
mia moglie non ha più latte per il poco mangiare ed il piccolo potrebbe
morire; hai tanti anni davanti tu, per vincere." Non era una preghiera, era
un'implorazione. Mi voltai a guardare sua moglie, con il bimbo attaccato al
seno avvizzito e dissi solo "Ci penserò."
Ed infatti ci pensai fino all'ora della gara; davanti a me scorrevano due
immagini: quella della Marianna che mi si concedeva e quella del Ratti che,
trionfante, scendeva con i salumi. Non riuscii a prendere una decisione ed
arrivai in quello stato alla tenzone. Prima che iniziasse la moglie del
Ratti mi si accostò, mormorandomi "Non abbiamo che lui…"
Mi ritirai in un angolo a piangere: di fronte a me non c'era la Marianna,
non c'era più nessuno, c'era solo l'immagine vivente delle sofferenze per la
miseria, e così presi la mia decisione.
Quando toccò il mio turno, mi avvinghiai al legno come un felino, presi a
salire con una velocità incredibile e quando ero quasi arrivato in cima
finsi di scivolare e caddi quasi di sasso, fra le risate generali.
Rimasi ancora quel tanto che mi consentì di vedere la vittoria del Ratti,
poi mi allontanai. Dietro un cespuglio mi attendeva la Marianna. "Sono
scivolato, non so neppure io come ho fatto." "Lo so io e sono fiera di te".
Vuoi sapere come andò a finire?
Valentina è il nome della nonna, ma è il suo secondo nome ed il primo è, è?:
è Marianna.
- Da "I racconti del nonno" -
L'alpino nella neve
Nel corso della prima guerra
mondiale si combatté molto, e duramente, anche sulle alte cime; i crinali
furono contesi aspramente dai due contendenti e le difficoltà del terreno,
le condizioni climatiche repentinamente mutevoli e l'alta quota
determinarono perdite incalcolabili.
Sono passati tanti anni da quando il nonno mi ha lasciato ed io ero ancora
bambino, ma non ho dimenticato i suoi racconti di vita, le esperienze
drammatiche che lo coinvolsero in quella grande tragedia che lo videro umile
alpino combattere sulle nevi eterne dell'Adamello.
Quello che mi appresto a raccontare è un episodio che al nonno, nel
rammentare, provocava un'emozione così forte da riuscire a trasmetterla
anche a me e che tuttora provo,per la nota dolente che lo contraddistingue.
L'anno, mi pare fosse il 1916; la guerra era già entrata nel secondo anno e
le nostre speranze di una rapida vittoria erano già svanite; eravamo partiti
da Mantova in otto ed ero rimasto solo io (Cavedaschi era caduto nei primi
giorni, Moretti non si era più svegliato una mattina ed il freddo se l'era
portato con sé; gli altri, gli altri? Sì, gli altri non mi erano
sconosciuti, ma ho imparato presto che è meglio dimenticare l'amicizia per
evitare la sofferenza per la perdita di un caro compagno).
Eravamo incavernati su un bastione di roccia che guardava sul ghiacciaio del
Mandrone; uno spazio angusto, scavato con il piccone, vivevamo in mezzo ai
nostri stessi escrementi, si mangiava ogni tanto, quando la corvè riusciva a
raggiungerci; il freddo era sempre intenso e non potevi dormire più di
un'ora di seguito, altrimenti ti si congelavano gli arti.
Gli austriaci erano dall'altra parte, fra le rocce fronteggianti, ad una
distanza non superiore ai 200 metri, in una posizione di fatto imprendibile,
perché noi avremmo dovuto uscire dalla caverna, calarci con le funi sul
bordo del ghiacciaio, attraversarlo, aggirando i crepacci, e risalire il
pendio per attaccare il nemico. E la stessa cosa era per loro; di fatto
eravamo entrambi immobilizzati e le scaramucce quotidiane si concretizzavano
in salve di fucileria e nei tiri dei cecchini. Nonostante questo, le perdite
erano elevate da entrambe le parti per l'inclemenza del tempo, per il
freddo, per il vestiario inadeguato e per il cibo, poco e di poca sostanza.
Ricordo ancora: era un giorno di aprile, la primavera, che in valle
rinverdiva tutto, da noi non si avvertiva e solo il sole, più alto, ci
avvisava della nuova stagione. Era quasi sera e le cime riverberavano della
luce rossastra dell'astro che calava: una visione stupenda contrastante con
l'immane tragedia. Su di noi era scesa una malinconia indicibile
nell'emozione provocata dallo spettacolo della natura; andavano riaffiorando
i ricordi della casa lontana, dei propri cari, della vita di ogni giorno
prima della guerra, insomma della normalità così noiosa quando c'è, ma così
agognata quando manca. Garrusu, un sardo piccolino e sempre con gli occhi
tristi, si alzò e cominciò a cantare, prima con voce bassa, poi sempre più
forte: erano parole che rievocavano giorni lontani, donne che andavano a
prender l'acqua alla fontana, scene di vita di un paese come tanti.
Ascoltavamo in silenzio, gli occhi umidi e quando Garrusu finì notai che
tutti, me compreso, avevamo le guance bagnate. Nessuno disse nulla, nessuno
applaudì: la commozione ci aveva preso, ma non solo noi. Dall'altra parte
iniziò un coro incomprensibile per la lingua diversa, ma la melodia ci
percuoteva il cuore, univa i nostri animi a quelli degli ignoti cantori. Il
tenente, che parlava un po' il tedesco, ogni tanto borbottava , traduceva
"Mia sposa lontana che aspetti il tuo uomo….; casa, casa mia, quanto sei
bella…". Poi si interruppe singhiozzando. Il canto cessò ed allora dalla
trincea nemica si levò un grido "Taliani, cantate ancora e che oggi non ci
sia guerra". E Garrusu riprese con un'altra canzone e quando finì
cominciarono gli altri; l'intermezzo musicale andò avanti per un paio d'ore,
fino a quando il buio avvolse tutte le cime, le valli, le caverne, le
trincee, penetrò negli uomini, accrebbe la loro angoscia, devastò i loro
cuori. Poi, fu tutto silenzio e le stelle presero a brillare.
Garrusu si rannicchiò in un angolo, poi mi si avvicinò: "fai tu la guardia
per primo?" "Sì" "Non riesco più a stare in questo posto; voglio, devo
tornare a casa." "Ma come farai? Se anche riuscissi a calarti, a costeggiare
il ghiacciaio ed a scendere al Tonale, là i nostri ti prenderebbero e per te
sarebbe la morte." Non rispose, ma quel silenzio, quegli occhi cupi e
disperati parlavano più di qualsiasi discorso.
Appena iniziato il turno di guardia, lo vidi scivolare accanto a me, gettare
la fune, aggrapparsi ad essa e balzare oltre il parapetto. Mi parve di
vederlo arrivare alla base del bastione, poi non scorsi più nulla. In cuor
mio pregavo perché Garrusu ce la facesse e, quando sorse il sole, pur nel
timore dei cecchini, mi affacciai e sotto non vidi nessuno. Ne fui contento,
per lui, per me, per tutti, perché se tutti, noi e gli austriaci, ci fossimo
ammutinati la guerra sarebbe finita, saremmo tornati a casa e la pace
sarebbe tornata nei nostri cuori.
Al tenente dissi che Garrusu si era affacciato ed era caduto; non so se mi
credette, però non volle guardar giù.
Gli anni passarono e nel novembre del 1918 ci fu l'armistizio. Ci calammo
giù dal bastione con le corde con una felicità che mai potrò dimenticare;
gli austriaci ci vennero incontro sul ghiacciaio, lentamente, nel timore dei
crepacci.
"Taliani, venite, in questo crepaccio c'è qualche cosa" la voce mi fece
trasalire. Andammo ed in effetti ad una profondità di circa tre metri si
vedeva qualche cosa che sembrava un fagotto. Ci calammo e quegli stracci
erano una divisa d'alpino che racchiudeva un povero corpo, ancora ben
conservato. Garrusu, irrigidito, sembrava guardarci stringendo in mano
qualche cosa: una fotografia di una donna con un bimbo in fasce. Italiani ed
austriaci se ne stavano muti all'intorno: Garrusu aveva ritrovato la sua
casa in quella gelida notte d'aprile.
- Da “I racconti del
nonno” -
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Gioco
d'amore
Invecchiare non è nulla: è nel corso
naturale di ogni essere vivente; quello che, invece, ti addolora è sapere
che ci sono cose che si possono fare solo in determinati tempi, fra i quali,
la gioventù, è quello che passa più alla svelta e del quale serbiamo più
forte il ricordo, se non il rimpianto.
In quell'epoca tutto è spensierato; la mancanza di esperienza è la chiave
dell'entusiasmo che accompagna ogni atto e così l'amore non è un problema, è
la vocazione naturale dalla quale ci si lascia volentieri cullare, ed il
dispiacere dell'insuccesso è più breve dell'emozione per un nuovo incontro.
Ho bisogno della compagnia di una donna, di quell'intuito femminile che
tanto apprezziamo e di cui sentiamo spesso la mancanza; risvegliarsi ogni
giorno in un letto troppo grande, sapere che l'oggi non sarà dissimile dal
giorno appena trascorso, parlare solo a se stessi fra quattro pareti sempre
più opprimenti, a lungo andare ingenera un vero e proprio stato depressivo.
In una vita senza calore umano, priva della possibilità di qualsiasi evento
emozionale, è indispensabile, e quindi non solo necessario, ricercare una
figura femminile da porre accanto a sé, e così la caccia comincia.
E' da un po' di tempo che osservo la vedovella, una signora sui cinquant'anni,
senza figli, che abita in una graziosa villetta non molto lontana da casa
mia; per quanto mi è dato di sapere, è una persona seria che, almeno in
apparenza, non ha ancora cercato di diventare una preda.
Non è bellissima, ma graziosa, che è quello che più conta, perché, come è
noto, la bellezza in senso artistico è propria della gioventù; con il
passare degli anni, con lo sfiorire, si finiscono con l'apprezzare valori
ben più concreti.
Ma come contattarla?
Trent'anni fa mi sarebbe stato facile, grazie all'incoscienza tipica
dell'età, ma oggi ho paura di sbagliare, di sentire un no secco che, più che
ferire il mio orgoglio, acuirebbe il senso di solitudine, quasi di
emarginazione, che già avverto.
Ed allora bisogna escogitare un piano d'azione, valutare i pro ed i contro
dello stesso, ed alla fine osare, ben sapendo che dall'esito di questo gioco
d'amore dipende il futuro della mia vita.
Comincio a farmi vedere; quando esce di casa faccio in modo di incontrarla
come se fosse un fatto del tutto involontario; non ci conosciamo e pertanto
non la saluto, ma già dopo una decina di volte di questo maneggio abbozzo un
sorriso che spero venga contraccambiato. Macché, il suo volto resta
impassibile e concludo che è proprio un osso duro. Va bene, continuiamo
secondo il piano. Oggi non l'incontrerò solamente, non abbozzerò solo un
sorriso, proverò a salutarla. E così faccio.
"Buon giorno"
"Buon giorno" e nulla di più, con il volto sempre impassibile, ma comunque
il ghiaccio è rotto e questo mi dà forza.
Nel pomeriggio ritento l'attacco, nella speranza che in questo gioco
condotto da un cacciatore la preda sia più che disponibile ad essere
catturata.
"Buon giorno, signora; non passa giorno che non ci vediamo; il paese è
piccolo e questa è l'unica passeggiata, bella, piacevole, graziosa" ed
abbasso la voce, per poi sbottare, quasi vergognoso " e poi si incontra
della gran bella gente."
Il suo volto accenna ad un sorriso, subito frenato; il volto si rabbuia un
attimo, poi mi arriva un "buon giorno" secco. Resto in imbarazzo, mentre lei
si allontana, ma noto il suo incedere: non è di una persona arrabbiata, è
quel tipico passo leggero di chi sente la speranza nascergli nel cuore. Ed
ecco che all'improvviso si volge e con uno sguardo radioso mi dice "Ci sarò
anche domani."
La mia voce trema nel risponderle "Anch'io" e già vorrei che oggi fosse
domani.
A futura memoria
E' passato ormai tanto tempo, quasi un secolo, e quei
nomi incisi nella lapide sul frontale della chiesa del villaggio, a futura
memoria di chi è caduto per la patria, non sono altro che lettere
sconosciute ai più.
Vado spesso in quel dolce paese di montagna, ai piedi delle dolomiti, sia
per il clima mite che per il paesaggio di una bellezza indescrivibile ed un
giro per le strade a curiosare la merce esposta nelle vetrine ormai è
divenuto un obbligo. Il borgo, cent'anni fa invero di modeste dimensioni, si
è notevolmente ampliato in forza del crescente afflusso turistico, ma le
caratteristiche dei suoi abitanti sono rimaste immutate ed ancor oggi la
domenica non è difficile vedere qualche coppia avviarsi alla messa nel
tradizionale costume tirolese.
La chiesa, con retrostante cimitero, è nella piazza del paese e le riservo
sempre una visita, per la sua innata austerità; non manco di soffermarmi
davanti alla lapide e leggi oggi e leggi domani quei trenta nomi ivi
impressi hanno finito per rimanermi nella mente, in particolare uno: Alfred
Meister.
Perché questa preferenza? Perché è morto l'ultimo giorno della prima guerra
mondiale all'età di ventidue anni.
Ho chiesto in giro se aveva ancora dei parenti, anche alla lontana, ma tutti
hanno scosso il capo; poi un giorno, mentre sedevo su una panchina della
piazza, ho visto il parroco uscire dalla chiesa e mi è balenata un'idea.
L'ho avvicinato e accennando alla lapide gli ho chiesto se qualcuno sapeva
di questo Meister. E' rimasto un attimo assorto, poi mi ha pregato di
seguirlo in canonica, dove ha frugato fra libroni vecchi e polverosi,
trovandone alla fine uno. L'ha consultato a lungo, poi con un sorriso di
compiacimento mi ha detto che ero fortunato, e nello stesso tempo
sfortunato, perché Meister era un orfanello, o meglio ancora un trovatello,
e che quindi non aveva già all'epoca parenti.
Proprio per questo i suoi effetti personali erano stati inviati alla
parrocchia e probabilmente si dovevano trovare lì. Avrebbe provveduto a
cercarli e poi si sarebbe fatto vivo con me.
Uscii in verità un po' disilluso, sia perché temevo che il parroco sarebbe
riuscito a trovarli, sia perché non mi aspettavo nulla di interessante nella
visione di quelle poche cose.
Ed invece mi sbagliavo, perché già il giorno successivo il sacerdote si mise
in contatto con me e potei così aprire una piccola cassetta polverosa, dove
fra poveri indumenti trovai un libricino che, esaminato, si sarebbe rivelato
per un diario di incredibile interesse.
Molte pagine riportavano eventi comuni, o comunque di scarsa importanza, ma
alcune furono un'autentica rivelazione che mi permisero di conoscere Alfred
Meister, benché non l'avessi mai visto e ne ignorassi le sembianze.
Fu un lavoro difficile, e per la calligrafia minuta, e per la diversità
della lingua, ma alla fine ogni sforzo fu ampiamente ricompensato.
In particolare, alla pagina 10 Meister scriveva " Non so se gli italiani
sono così cattivi come li descrive il tenente, ma di una cosa sono sicuro:
questa guerra fa paura a loro come a noi. Prima di ogni attacco non pochi
disertano e ci chiedono di essere fatti prigionieri; non ignorano che non
possiamo dar loro da mangiare, perché non ne abbiamo neppure per noi, eppure
preferiscono la morte per fame all'orrore della guerra; li chiamano
disertori, ma hanno più coraggio di chi resta al suo posto, anche se forse è
il solo coraggio che viene dalla disperazione."
Alla pagina 35 "Oggi è morto Fritz, il mio più caro amico; era accanto a me
nella trincea e stavamo parlando, quando si è sentito un colpo di fucile; è
scivolato a terra senza un grido, un lamento, mentre un rivolo di sangue gli
usciva dalla fronte; è da tre anni che faccio questa guerra e di amici ne
sono rimasti pochi; Fritz era l'ultimo. A che serve un sentimento come
l'amicizia, a sopportare meglio i patimenti della guerra o a disperarsi
quando uno di noi se ne va?"
Pagina 47 "Domani dovremo attaccare il nemico; non l'ha detto nessuno, ma
hanno fatto una distribuzione straordinaria di grappa; sempre così quando ci
si deve preparare a morire; l'alcool ottenebra i sensi, toglie ogni
volontà."
Pagina 48 "Abbiamo attaccato, siamo stati respinti, siamo ritornati
all'assalto e ci hanno ricacciato indietro. Abbiamo avuto perdite
pesantissime: siamo rimasti in quindici di un'intera compagnia. Anche gli
italiani hanno avuto molti morti; questa è una guerra che viene vinta solo
da chi ha più soldati da gettare allo sbaraglio e chi trionferà rischia di
far più facilmente la conta dei sopravvissuti che non quella dei morti."
Pagina 61 " La vita in trincea è un inferno tale che non mi importa più di
vivere o di morire, anzi quasi invidio chi mi ha già lasciato ed ha quindi
posto fine alle sofferenze."
Pagina 65 " E' settembre e la guerra è già persa; tutti lo sanno, anche se
nessuno lo dice; che senso ha continuare."
Pagina 71 "Sono arrivate le nebbie di ottobre e con queste la certezza della
sconfitta; migliaia di morti per niente e chi è rimasto vivo e sopravviverà
non sarà più lo stesso, perché l'orrore è entrato in noi; siamo ormai
nient'altro che dei morti viventi."
Pagina 92 "E' il 3 novembre e si è sparsa la voce che domani vi sarà
l'armistizio; non mi importa che questo macello finisca; dalla vita non ho
avuto niente, nessun affetto; gli anni in cui speravo di poter conoscere
l'amore mi sono stati sottratti da questa guerra; sono diventato vecchio
prima del tempo e la vita per me non ha più senso."
Pagina 93, riporta poche righe e si interrompe nel mezzo di una frase "Oggi
finirà; è un'umida giornata di novembre, uguale a tante altre. Non so che
farò dopo, se ci potrà essere un dopo, ma…."
Allegata agli effetti personali ed al diario c'era una lettera del Ministero
della Guerra ove si diceva, fra l'altro "Il soldato Alfred Meister è
deceduto il 4 novembre 1918 sul fronte meridionale, colpito dal proiettile
di un cecchino mentre incautamente si ergeva per guardare il cielo".
Non avrei potuto conoscere Alfred Meister in modo migliore neppure se fossi
sempre stato accanto a lui.
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Il giorno dopo
La città quella sera era
pressoché deserta; pioveva in quel precoce autunno che non vedeva il sole da
diversi giorni. I rari passanti frettolosamente arrancavano allo scarso
riparo delle grondaie con un unico desiderio: ritrovare il riparo ed il
caldo del focolare domestico.
Solo un’ombra s’aggirava
lentamente, senza meta, protetta solo da una mantellina e da un elmetto,
incurante degli scrosci, quasi non le importasse nulla di eventuali malanni,
non improbabili con quell’umidità ed il freddo tignoso che penetravano fino
alle ossa.
Mario alzò il bavero, poi
si asciugò il viso e proseguì il suo cammino: era la sua ultima sera di
libertà, il suo ultimo giorno di certezze, poi l’indomani sarebbe partito
per quell’inferno di cui tutti parlavano e da cui pochi erano tornati: il
Carso.
La guerra durava ormai da
due anni e l’annuncio trionfante che sarebbe stata breve era stato
rapidamente cancellato.
Vent’anni era l’età di
Mario, un’età di gioie, di speranze, di innamoramenti; questo in altri
tempi, non in quelli dove l’unica certezza era che la vita poteva essere
tremendamente breve.
Era tutto il giorno che
girovagava senza una meta, con la disperazione che può avere chi sa che la
vita finirà da lì a poco.
Aveva ascoltato con
angoscia i racconti dei soldati in licenza, in particolare del cugino che
non riusciva a capacitarsi di essere ancora vivo. Frasi mozze,
pronunciate con voce soffocata, accompagnate da un percettibile tremito del
viso.
“Fango, fango, o pietraie,
ma ovunque morte; il tormento dell’attacco, il balzo fuori dalla trincea,
chi cade intorno a te, le mitragliatrici fiammeggianti che ti puntano,
l’immane esplosione dei proiettili delle bombarde.”
Mario ascoltava e,
mordendosi il labbro, pregava che non fosse vero, che fosse frutto di
esagerazioni, ma poi si accorse sgomento che i racconti del cugino
collimavano con quelli di altri reduci, ed in tutti colpiva quel tremito del
viso, quella sorta di espressione attonita, rassegnata.
“Vedi, arrivi ad un punto
che ti rassegni; speri solo di non soffrire. I primi caduti ti lasciavano
sgomento, poi sono diventati talmente tanti che….; non c’è posto per le
amicizie, perché non potrebbero durare. E poi tutta quella sporcizia, il
cibo scotto, i piedi permanentemente nel fango, i pidocchi che ti
tormentano… A volte penso che l’inferno non potrà che essere meglio.”
Quando aveva ricevuto la
cartolina dal distretto l’aveva letta solo come chi può leggerla uno che è
già preparato alla fine dei suoi giorni, e quel giorno di pioggia che
volgeva alla notte l’aveva trascorso come fosse stato l’ultimo della sua
vita, perché il giorno dopo sarebbe partito per un viaggio senza ritorno.
Aveva camminato a lungo
senza una meta, fermandosi solo in ogni osteria a farsi un goccio, nella
speranza che l’alcool ottenebrasse la sua mente.
“Quando preparano un
attacco non ce lo dicono, ma lo comprendiamo, perché si raddoppiano le dosi
di acquavite. Ci vogliono ubriachi, senza volontà, perché se il cervello
funziona chi mai si sognerebbe di correre incontro alla morte certa.”
Che cos’era stata la sua
vita? Aveva cominciato da giovane a fare il garzone nella macelleria sotto
casa; ore ed ore di lavoro malpagate, rimbrotti continui, la miseria di una
famiglia con tanti fratelli, ed un solo sogno: fuggire via, ovunque, senza
pensare, per ricominciare, crearsi una vita giorno dopo giorno, metter su
famiglia; la famiglia, lui che non aveva mai baciato una donna! Che schifo
di vita: nulla di bello da ricordare ed allora tanto valeva la pena di
terminare presto, anche se era ingiusto. E domani….
Isabella uscì dal lavoro e
si affrettò verso casa, riparandosi il capo, per quanto possibile, con la
borsetta.
Lavorava dieci ore al
giorno in una modisteria, fatiche continue, assai poco retribuite, ma le
permettevano di non pensare a quel marito caduto in uno dei primi mesi di
guerra dopo solo un anno di matrimonio.
Quanto l’aveva amato! Era
stato il suo primo uomo ed in lui aveva apprezzato la gentilezza, non
disgiunta da una evidente forza interiore. Il loro era stato un rapporto
forzatamente breve, ma intenso, ed il ricordo che ne serbava le faceva
palpitare il cuore. Quand’era partito per il fronte era stato capace di
trasmetterle la sua forza che aveva placato l’angoscia e la trepidazione che
la pervadevano. L’aveva accompagnato alla tradotta e nel momento del
commiato “Amore mio, torna, torna. Tieni questo mio fazzoletto e se lo
appoggerai sul tuo cuore sentirai battere anche il mio.” gli disse fra le
lacrime, che lui aveva asciugato con quel piccolo pezzo di tela che
profumava di violetta. Era poi partito, ma il fazzoletto era rimasto fra le
mani di lei. Altre lacrime lo avevano inzuppato quando era giunta più tardi
la notizia della morte avvenuta in combattimento. Da allora l’aveva sempre
tenuto nella borsetta, così da non separarsene mai.
Isabella girò l’angolo e
venne urtata da uno sconosciuto, un militare.
“Mi scusi, signora”
“Va bene” e si chinò a
raccogliere la borsetta caduta a terra.
Nel rialzarsi osservò lo
sconosciuto: un giovane, forse della sua età, fradicio di pioggia e con uno
sguardo triste.
“Non l’ho vista; è che
sono frastornato; sa…, domani parto per il fronte. Se posso…, non so…, se
vuole…; qui piove e fa freddo; le andrebbe di bere un caffè?” Non era una
cortesia, era una supplica ed Isabella se ne accorse; non sapeva che fare,
non le sembrava decoroso entrare in un’osteria con uno sconosciuto, ma anche
lui sarebbe partito il giorno dopo e chissà quali tormenti l’affliggevano.
“Sì.”
Lì vicino c’era
un’osteria, un ambiente fumoso dove l’odore acre del vino si mescolava al
puzzo dei toscani.
Entrarono e presero posto
ad un tavolo traballante, uno di fronte all’altro.
Mario guardava la donna
alla luce della lampada che pendeva dal soffitto: non poteva essere definita
una bellezza, ma in lei c’era un innato senso di dolcezza che le dava
splendore, e poi emanava una forza interiore che si poteva scorgere nel suo
sguardo mite, ma fermo, quasi che gli eventi della vita fossero per lei
nulla più che un ricordo dal quale trarre spunti per proseguire.
Un lungo silenzio li
accomunava, ma gli occhi finirono per incontrarsi e quelli spenti e tristi
di Mario si accesero di una nuova luce che non passò inosservata ad
Isabella.
“Sono vedova; mio marito è
caduto nei primi mesi di questa tremenda guerra; da allora è la prima volta
che sono seduta ad un tavolo con un uomo.”
“Capisco ed anche per me è
la prima volta che sono davanti ad una donna, una bella donna.”
“Non esageri, sono una
come tante.”
“No, lei è diversa, lei è
la cortesia, la dolcezza,…., è tutto quanto di bello c’è al mondo; lei è la
vita.”
Isabella sorrise per i
modi impacciati di Mario, ma quel ragazzo le faceva tanta tenerezza, con
quella sua aria sperduta, quel timore per il domani che si poteva leggere
nei suoi occhi. E poi, non sapeva il perché, ma sentiva per lui
un’attrazione che non riusciva a giustificare.
Bevvero distrattamente il
caffè, o meglio quel liquido nero e caldo che avrebbe dovuto essere caffè,
ma non sentirono il gusto, perché i loro sensi erano tutti orientati in
un’unica direzione.
Il pendolo dell’osteria
battè le dieci. “Mi scusi, si è fatto tardi; devo andare” e si avviò verso
la porta. Mario la rincorse; uscirono in strada entrambi e sotto la pioggia
si guardarono ancora una volta. Fu solo un attimo, un brevissimo istante, ma
le loro labbra si incontrarono. “Ci sarò anch’io domani alla partenza” gli
gridò Isabella e corse via.
Mario rimase fermo sotto
la pioggia che gli sembrò diventata amica.
Il giorno dopo la Stazione
Centrale era affollata per la partenza della tradotta. Mario continuava a
guardarsi intorno, la cercava, doveva vederla. E come promesso, lei venne.
“Come ti chiami?”
“Mario Stuani”
“Io Isabella Damato; ti ho
portato un dolcetto e nel pacchetto c’è anche il mio indirizzo: mi
scriverai?”
“Ma certo che ti scriverò,
ogni giorno, sarà come parlare con te.”
Questa volta il bacio fu
più intenso, insieme con un abbraccio forte e fremente.
Il treno fischiò.
Mario si ritrasse.
“Aspetta“ e frugando nella borsetta la donna ne trasse il fazzoletto. “E’
mio, ma adesso è tuo.”
“Lo porterò sempre con me,
me lo metterò sul cuore…” poi saltò sul predellino.
Il treno si mosse e
cominciò a prendere velocità. Mario continuò a guardarla fino a quando non
scomparve dalla sua vista.
Si mise il fazzoletto sul
cuore; si sentiva raggiante: era passato dalla rassegnazione al desiderio di
vivere, anche se ora aveva paura della morte.
Quel ritaglio di tela lo
accompagnò per i lunghi anni della guerra, si sgualcì, si intrise di fango,
ma rimase sempre lì ed alla vigilia del Natale del 1918 ritornò alla sua
padrona.
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