Rainer Maria Rilke

La sua biografia

 

“I sonetti a Orfeo”
prima parte
“I sonetti a Orfeo”
seconda parte
IL PRIGIONIERO CANTO DAMORE LA MORTE DEL POETA
LA CATTEDRALE DIO NEL MEDIO EVO MORGUE INFANZIA Alcesti

 

 

 

“I sonetti a Orfeo”

Milano – Garzanti 2000

PRIMA PARTE

 

 

I.1

 

E si levò un albero. O elevazione pura.

 

Orfeo canta. O albero che nell'orecchio sale!

 

Ogni cosa taceva - ma era in quel silenzio

 

un incominciar nuovo, cenno, tramutamento.

 

 

Di silenzio animali dal chiaro bosco aperto

 

balzarono, da tane e fratte; e non

 

era astuzia o paura - si capiva - a tenerli

 

così raccolti in sé: ascoltavano solo.

 

 

Rugghi urli bramiti in fondo al cuore

 

impicciolivano. E dove una baita

 

trovavi a malapena, per accogliere,

 

 

un rifugio al più buio struggimento -

 

e a far da ingresso, pali che vacillano -

 

tu creasti nel loro udito un tempio.

 

 

 

 

 

 

I.2

 

 

 

E una adolescente era, e da questa

 

felicità di lira e canto uscì,

 

chiara velandosi di primavera,

 

e nel mio orecchio si fece un giaciglio.

 

 

E in me dormiva. E tutto era il suo sonno:

 

gli alberi, amore mio antico, e queste

 

lontananze sensibili e l'erbe viventi

 

e ogni stupore che a sé m'arrendeva.

 

 

Dormiva il mondo. O Iddio del canto, come

 

l'hai compiuta, che non l'essere desta

 

fosse il primo desio? Sorse, e dormiva.

 

 

La sua morte dov'è? Questa sua musica

 

la troverai prima che il canto ceda?

 

E da me dove affonda?... Adolescente...

 

 

 

 

 

 

I.3

 

 

 

Un Dio lo può. Ma un uomo, sì, seguirlo

 

saprà attraverso la lira sottile?

 

È spaccato di dentro: ove in due vie

 

s'incrocia il cuore, Apollo non ha tempio.

 

 

Un canto insegni tu, che non lusinga,

 

non è brama di cosa che s'afferra.

 

Il canto è Esserci. Facile a un Dio.

 

Ma siamo noi? E quando volge lui

 

 

all'esser nostro la terra e le stelle?

 

Se ami, ragazzo, tu non sei per questo,

 

s'anche irrompe la voce in bocca - un tale

 

 

impeto sappi obliare. Si perde.

 

In verità, altro soffio è il canto: un soffio

 

nel nulla. Un alitare nel Dio. Un vento.

 

 

 

 

 

 

I.4

 

 

 

O amorose, entrate talora

 

in quel respiro che non v'intende,

 

lungo le gote spartire lasciatelo:

 

dietro vi palpita, è Uno sempre.

 

 

O voi beate, voi salve già,

 

voi che radice dei cuori sembrate,

 

arco a saetta, a saette bersaglio,

 

nel lacrimato riso più eterne.

 

 

Non vi spauri il soffrire, pesante:

 

alla terrestre gravità rendetelo:

 

peso hanno i monti, pesante il mare:

 

 

gli alberi pure, che bimbe piantaste,

 

pesano troppo oramai: non potreste

 

reggerli. Ma l'aria... gli spazi...

 

 

 

 

 

 

I.5

 

 

 

Niente lastre funeree. La rosa

 

sola ogni anno al suo piacere sbocci.

 

Orfeo è: è sua la metamorfosi

 

in questi e quello; non ci diamo affanno

 

 

d'altri nomi: per tutte ad ogni volta

 

è Orfeo, se canta. Viene e va. Non basta

 

se al calice di rose un giorno o due

 

sopravvive talora? Dileguare

 

 

è la sua sorte perché comprendiate,

 

pur se quel dileguare l'impaura.

 

All'Esser-qui la sua parola avanza,

 

 

già egli è là ove non la seguite.

 

Grata di lira non gli serra i polsi -

 

e docile è per lui l'andare oltre.

 

 

 

 

 

 

I.6

 

 

 

È un dei nostri? No, dai due regni

 

dilatò ampia la sua natura.

 

Più esperto inarchi i rami del salice

 

chi le radici ne ha conosciute.

 

 

Al coricarvi, sul desco il pane

 

il latte non li lasciate: attirano

 

i morti. Ma lui, l'incantatore,

 

sotto le palpebre tenere mescoli

 

 

in ogni aspetto la loro parvenza,

 

e il sortilegio di ruta e fumaria

 

chiaro gli sia qual l'accordo più vero.

 

 

Nulla gli sfuoca l'immagine forte,

 

venga da tomba, venga da alcova,

 

celebri anello, fibula, brocca.

 

 

 

 

 

 

I.7

 

 

 

Lodare: è questo! Chiamato a lodare

 

sprigionò come il metallo dal muto

 

macigno. Il suo cuore, fragile torchio

 

di un vino agli uomini inarrestabile.

 

 

La voce in polvere non gli si sbianca

 

quando il modello divino lo avvinghia.

 

Vigna ogni cosa si fa, si fa grappolo

 

che nel suo Sud sensitivo matura.

 

 

Putrefazione in sepolcri di Re

 

non gli sbugiarda il canto, la lode,

 

non dagli Dei il calare d'un'ombra.

 

 

Fra i messaggeri è uno che resta -

 

e addentro ancora alle soglie dei morti

 

coppe sorregge di frutti gloriosi.

 

 

 

 

 

 

I.8

 

 

 

Solo nell'inno la Lamentazione

 

può muoversi, di lacrimata fonte

 

ninfa che veglia sul nostro mancare

 

e lo risplende sulla roccia stessa

 

 

che pur sostiene i portali e gli altari.

 

Vedi: un presagio alle sue spalle tacite

 

albeggia: è lei forse la più giovane

 

fra le sorelle che l'animo alleva.

 

 

La Gioia sa; Nostalgia non si vela -

 

ma la Lamentazione impara, conta

 

con dita adolescenti i vecchi mali

 

 

nel buio. E a un tratto - sghemba, incerta - leva

 

fra gli astri una figura della nostra

 

voce, che quel sospiro non annebbia.

 

 

 

 

 

 

I.9

 

 

 

Solo chi già fra le ombre

 

alzò la lira

 

può presentendo elevare

 

la lode infinita.

 

 

Sol chi gustò del papavero

 

coi morti, il loro,

 

mai smarrirà i più inafferrabili

 

suoni.

 

 

Se nello stagno il riflesso

 

ti si scompone

 

sappi l'immagine.

 

 

Nel doppio regno, non altro,

 

si fanno assorte le voci,

 

immortali.

 

 

 

 

 

 

I.10

 

 

 

Voi dal mio cuore non lontani mai

 

saluto, antichi sarcofaghi, voi

 

che allegra l'acqua dei giorni romani

 

come un canto mutevole trascorre;

 

 

e voi, come pupilla d'un pastore

 

al risveglio sereno spalancati -

 

e dentro, quiete e gòngolo d'api -

 

al volo alzando ammaliate farfalle;

 

 

tutti al di là dei dubbi oramai

 

saluto, bocche di nuovo aperte

 

che il silenzio già sanno.

 

 

Amici: e noi, sappiamo? non sappiamo?

 

L'una risposta e l'altra disegna

 

l'ora esitante sul volto umano.

 

 

 

 

 

 

I.11

 

 

 

Guarda in cielo. C'è un segno, il "Cavaliere"?

 

Perché - vedi - è un suggello in noi profondo:

 

un orgoglio terrestre - e lo aizza

 

un altro, e lo raffrena; e lui lo porta.

 

 

Non è così, spronata e doma poi,

 

questa natura guizzante dell'Essere?

 

La via, la svolta. Un premere - e s'intendono.

 

Nuovi spazi. E i due, ora, sono uno.

 

 

Ma lo sono davvero? O segno entrambi

 

son della via battuta insieme? Già

 

volgono opposti il pascolo e la mensa.

 

 

Anche il legame stellare è un inganno.

 

Ma sia gioia per un istante, ora,

 

credere alla figura. Tanto basta.

 

 

 

 

 

 

I.12

 

 

 

Lo spirito lodiamo, che può coglierci

 

in Uno; invero, in figure viviamo

 

e a passi corti gli orologi avanzano

 

accanto al nostro giorno di realtà.

 

 

Senza sapere il nostro luogo vero

 

muoviamo da rapporto senza errore.

 

Hanno contatti antenne con antenne,

 

la lontananza vuota recò...

 

 

Pura energia. Musica di forze!

 

Nel fare quotidiano, umile, ogni

 

perturbazione non ti s'allontana?

 

 

Pur chi lavora nei campi e s'affanna,

 

ove in estate si trasforma il seme

 

mai non basta da sé. La terra dona.

 

 

 

 

 

 

I.13

 

 

 

Mela ghiotta, banana, pera, uva

 

spina... tutto ci parla nella bocca

 

di morte e vita... lo sento... leggetelo

 

a un bimbo in faccia quando le assapora.

 

 

Vien da lontano, questo. Non si sfa

 

in bocca lentamente e perde il nome?

 

Dov'erano parole, resti scivolano,

 

a sorpresa li libera la polpa.

 

 

Che vuol dir "mela"? Prova a raccontarlo:

 

questa dolcezza che s'addensa prima,

 

poi - piano piano - monta nel sapore,

 

 

chiara diventa, desta, trasparente,

 

doppia, di terra e di sole, di qui -:

 

o esperienza, senso, gioia -, enorme.

 

 

 

 

 

 

I.14

 

 

 

Si frequenta il fiore il frutto il pàmpino -

 

ma non è solo il linguaggio dell'anno

 

il loro: in mille tinte una parvenza

 

monta dal buio, e il barbaglio geloso

 

 

forse è dei morti, forza della terra.

 

Che parte ne hanno loro, lo sappiamo?

 

Da tanto hanno per uso d'impregnare

 

con il midollo liberato il fango.

 

 

Ma chiedi: sono contenti di farlo?

 

Da un travaglio di schiavi si disserra

 

il frutto e s'arrotonda a noi, i padroni?

 

 

O i padroni son loro, alle radici

 

dormienti, e il superfluo ci danno,

 

un che a metà fra forza muta e baci?

 

 

 

 

 

 

I.15

 

 

 

Aspettate... un sapore... ma già sfugge!

 

... Musica al volo, un trepestìo, un mùrmure...

 

Giovinette, voi tacite, voi calde,

 

danzate il frutto, il sapore, danzate

 

 

l'arancia. Chi la può dimenticare

 

come in sé affonda e alla dolce essenza

 

sua resiste? Ma voi la tenete,

 

s'è convertita a voi la sua delizia.

 

 

E voi danzatela. Il caldo paesaggio

 

da voi trabocchi, a irradiarla matura

 

nei cieli cari; infocando, svelate

 

 

le sue fragranze, affine vi divenga

 

la buccia che si nega, pura, il succo

 

che l'invade, beata.

 

 

 

 

 

 

I.16

 

 

 

Amico mio, sei solo, perché...

 

Noi con parole, con cenni del dito

 

ci pigliamo poco alla volta il mondo,

 

forse la parte più rischiosa e fragile:

 

 

chi lo addita un odore, con la mano?

 

Eppure delle forze che c'incombono

 

tu ne sai molte. I morti li conosci

 

e ti s'aggriccia il pelo ai loro incanti.

 

 

Vedi, si tratta d'ammucchiare, io e te,

 

frammenti e pezzi quasi fosse il tutto.

 

Duro aiutarti - e tu radici in cuore

 

 

non darmi: ti crescerei troppo svelto.

 

Ma al mio Signore io guiderò la mano,

 

dirò: Ecco, nel suo vello, Esaù.

 

 

 

 

 

 

I.17

 

 

 

E nel fondo, in intrico buio, il Vecchio,

 

d'ogni edificazione

 

radice, sgorgo occulto

 

ai loro occhi perduto.

 

 

Elmo di guerra e corno cacciatore,

 

sentenziar di canuti,

 

uomini in fratricida ira e donne

 

come liuti...

 

 

Ramo su ramo spinge,

 

libero mai nessuno...

 

Sì, uno! Oh sali... sali...

 

 

E daccapo si rompono - ma in alto

 

questo,

 

ecco, in lira si incurva.

 

 

 

 

 

 

I.18

 

 

 

Lo odi il Nuovo, Signore,

 

che introna e sbatte?

 

Vengono banditori

 

ad innalzarlo.

 

 

Non c'è un orecchio intatto

 

nel pandemonio.

 

E tuttavia la parte della macchina

 

ora abbia lode.

 

 

La macchina, ecco qua:

 

si vendica, si vòltola

 

e ci fa storti e deboli.

 

 

Da noi ha potestà?

 

Senza passione

 

operi e serva.

 

 

 

 

 

 

I.19

 

 

 

Pur se mutevole il mondo

 

qual nube si gira

 

tutto riaffonda compiendosi

 

nel grembo antico.

 

 

Fuor dal mutare e l'andare,

 

più ampio e libero

 

sta l'inno tuo primordiale,

 

Dio della lira.

 

 

Sul dolore nulla si sa,

 

l'amore non l'impariamo

 

e quel che nella morte ci allontana

 

 

non cede il velo.

 

Unico il canto, sulla terra alto,

 

consacra e leva.

 

 

 

 

 

 

I.20

 

 

 

Ma a te cosa consacrerò, Signore

 

che l'orecchio apri alle creature, dimmi?

 

Il ricordo d'un giorno a primavera,

 

al venir sera, in Russia - un cavallo...

 

 

bianco, solo, veniva dal villaggio,

 

ancor preso il paletto a una caviglia,

 

per esser sui prati a notte, solo;

 

come scrollava la criniera riccia

 

 

sopra il collo nel battito spavaldo

 

del galoppo strozzato, in ceppi - come

 

sprizzavano le fonti del suo sangue!

 

 

Li sentiva gli spazi, e quanto! e ascolto

 

e canto, in lui - e la tua saga tutta.

 

La sua immagine - ecco - ti consacro.

 

 

 

 

 

 

I.21

 

 

 

Ritorna primavera. Ed è la terra

 

come un bimbo che sa le poesie -

 

oh tante tante... E per la gran fatica

 

dell'imparare, ha il premio.

 

 

Fu severo il maestro - e il bianco amammo

 

sulla barba del vecchio.

 

Adesso i nomi del verde e del blu

 

a lei possiamo chiederli. Lei sa.

 

 

Terra in vacanza, felice, coi bimbi

 

gioca, ora. Terra gioiosa, vogliamo

 

prenderti. Il più gaio riuscirà.

 

 

Il molto che il maestro le insegnava

 

in radici compresso, in lunghi rami

 

pesanti - adesso lei lo canta.

 

 

 

 

 

 

I.22

 

 

 

Noi ci spingiamo innanzi.

 

Ma il Tempo, il suo andare,

 

è nullità - credete - in quel che sempre

 

rimane.

 

 

Chi s'affretta ora, presto

 

sparirà.

 

La sosta solamente,

 

sacra, ci salva.

 

 

Giovani, l'ardimento non buttatelo

 

nella velocità

 

nel rischioso volo.

 

 

Pace compie ogni cosa:

 

chiaro e tenebra,

 

il libro e il fiore.

 

 

 

 

 

 

I.23

 

 

 

Allora! quando il volo

 

non più di voglie vago,

 

salirà i cieli calmi

 

di sé pago

 

 

per giocare, in profili

 

di luce ai venti caro,

 

quale benfatto arnese

 

sottile vorticando -

 

 

allora solo, quando un puro Dove

 

l'oltracotanza giovane

 

di crescenti apparecchi avrà piegato,

 

 

il sopraffatto di vittoria, nelle

 

lontananze inoltrando, sarà lui

 

il Fine cui si tende, solitario.

 

 

 

 

 

 

I.24

 

 

 

E la nostra amicizia primordiale, i grandi

 

Dei che non lusingano,

 

rinnegheremo adesso perché il duro acciaio che educammo

 

li ignora - o li faremo sbucare da una carta?

 

 

Questi amici potenti, che ci prendono i morti,

 

non han contatto con le nostre ruote - lungi

 

prepariamo i banchetti; traslocate le terme,

 

e i messaggeri loro - lenti per noi, da tanto -

 

 

li sorpassiamo ormai. Sempre più solo

 

l'uno all'altro s'appoggia, straniero ognuno all'altro.

 

Rette seguiamo vie, non più meandri belli.

 

 

Solo in caldaie d'industria i fuochi, i magli enormi

 

sempre più. E noi come nuotatori

 

perdiamo forze.

 

 

 

 

 

 

I.25

 

 

 

Te, ora, te che ho conosciuta come

 

un fiore il cui nome non so, voglio una volta

 

ultima ricordare, mostrarti, ora che sei passata,

 

bella compagna del grido ineluttabile.

 

 

Danzatrice dapprima, che il corpo esitante di colpo

 

fermò, quasi contratta la sua giovinezza nel bronzo:

 

intristita, in ascolto. Ed ecco, dalle alte potenze

 

musica le si versò nel cuore mutato.

 

 

Il male era vicino. Già sopraffatto dall'ombre

 

springava oscuro il sangue - pure, quasi in sospetto appena,

 

nella sua naturale primavera fioriva.

 

 

E ancora, ancora - interrotta da buio e soprassalti -

 

risplendeva terrestre: finché dopo un battere orribile

 

entrò nella porta che non ha speranza.

 

 

 

 

 

 

I.26

 

 

 

Ma tu, divino, tu, che ancora all'ultimo intoni,

 

quando lo sciame t'assalse delle spregiate Baccanti

 

l'urlo con l'armonia hai sopraffatto, tu splendido,

 

dalle devastatrici salì, costruttore, il tuo canto.

 

 

Nessuno che a te il capo, la lira devastasse

 

come sbavando infuriavano, e tutte le aguzze

 

pietre scagliate contro il tuo cuore

 

s'intenerivano toccandoti, d'udire ebbero il dono.

 

 

E poi a pezzi ti fecero, aizzate dalla vendetta,

 

mentre il tuo suono ancora in rocce e in leoni indugiava,

 

in alberi e in uccelli. Là ancora tu canti.

 

 

O Iddio perduto! Traccia che non ha misura!

 

Solo perché ti spartì smembrandoti all'ultimo l'odio

 

siamo chi ode, adesso, e bocca della Natura.

 

 

 

“I sonetti a Orfeo”

 

SECONDA PARTE

 

II.1

Respiro, invisibile poesia,

puro spazio, immenso eppure sempre

col singolo allo scambio. Contrappeso

che al mio farsi dà il ritmo.

 

Onda unica in cui

sono ogni volta il mare,

di tutti i mari possibili tu

quel che più stringe, tu di spazi ricco.

 

Di queste spaziali forme quante

m'eran già dentro - e i venti

sono per me un figlio, qualche volta.

 

Aria, mi riconosci, colma un tempo

dei miei luoghi? e tu, scorza liscia già,

foglio e accerchio della mia parola.

 

 

II.2

 

 

Come al Maestro, talora, fulmineo

il primo foglio il segno più vero

coglie - così spesso accolgono specchi

il riso unico di giovinette,

 

quando il mattino, sole, assaporano

o dei lumi al chiarore, loro servi:

e nel respiro dei volti autentici,

più tardi, solo un riflesso ne cade.

 

Che mai guardarono gli occhi d'un tempo

nell'arder lento di braci al camino:

sprazzi di vita spersi per sempre.

 

Ah della terra chi sa le perdute

estasi? Sol chi la lode sonando

il cuore canti, che nasce nel Tutto.

 

 

II.3

 

 

Specchi, nessuno ha scritto mai, sapendolo,

che cosa siete nell'essenza.

Interstizi del tempo voi, di buchi

pieni come crivelli.

 

Voi della sala vuota ancora prodighi,

immensi, al farsi buio, come selve...

Cervo ramoso il lampadario vi

traversa, impenetrabili.

 

A volte di pitture vi stipate.

Alcune paiono in voi trapassare,

altre lasciate fuori, timorosi -

 

ma la più bella resterà, fin quando

entro il suo viso che si nega invano

penetri il chiaro dissolto Narciso.

 

II.4

 

 

È l'animale, questo, che non c'è.

Ma allora non si sapeva. E ne amarono

l'andare il collo il portamento, fino

alla luce tranquilla dello sguardo.

 

Pure, non era. Ma per quell'amore,

animale divenne, puro. Spazi

gli lasciarono sempre. E in quel sereno

alzò lieve la testa - appena aveva

 

bisogno d'essere. Non lo nutriva

grano, ma quel poter essere e basta:

e tanta forza gli diede, che in fronte

 

un corno gli si sprigionò. Uno solo.

A una vergine venne accanto, candido -

e fu in lei, e nel suo specchio d'argento.

 

 

II.5

 

 

Tu che il mattino dei prati all'anemone

vai dischiudendo, muscolo di fiore,

finché nel grembo la luce polìfona

dai cieli sonori gli si spande,

 

nella silente stella fiore teso

muscolo dell'accogliere infinito,

sopraffatto dalla pienezza al punto -

talora - che il tramonto, quando accenna,

 

a stento può ritirarti la corolla

troppo già spalancata - tu, la forza

e il compimento dei mondi, di quanti!

 

Siamo violenti, noi, e più duriamo.

Ma quando, in quale vita finalmente

saremo aperti, capaci di accogliere?

 

II.6

 

 

Rosa, regina, nel tempo antico

calice fosti dall'orlo sottile.

Ma fiore pieno sei per noi, l'innumere

oggetto, inesauribile.

 

Nel fasto appari di manti su manti

addosso a un corpo di niente, un bagliore -

ma ogni petalo tuo annunzia insieme

la veste, e la rinnega.

 

Da secoli il tuo alito ci chiama

coi suoi nomi più dolci -

e come gloria a un tratto sta, nell'aria.

 

Ma non sappiamo dirlo, indoviniamo...

e una memoria esala, che da ore

senza pari implorammo.

 

II.7

 

 

Fiori, affini voi finalmente alle mani che vi dispongono

(mani di giovinette, di adesso e d'allora),

voi nel giardino sul tavolo, spesso, da lato a lato

in pallore giacenti per tenera ferita,

 

l'acqua attendendo per risalire ancora

dalla morte già in atto - e di nuovo ora eretti

fra i poli vorticanti di sensibili dita,

benefiche per voi ben più del vostro presagio,

 

fragile: quando vi riuniste nella brocca, in frescura

lenta esalando quel calore di giovinette,

quasi una confessione, quasi peccati spossanti

 

e un poco torbidi, colpa dell'avervi recisi,

come un accordo alfine ritrovato con loro

che insieme a voi fioriscono.

 

II.8

 

 

E voi pochi, dell'infanzia lontana compagni

nei giardini distratti di città:

come ci si trovava, in simpatia esitante,

e come si parlava in silenzio, uguali all'agnello

 

col cartiglio che ha parole. A nessuno

la nostra gioia - se fosse - apparteneva. E a chi mai?

E come andava in fumo nel viavai della gente

e in paura dell'anno, ancora lungo.

 

Straniere rotolavano carrozze, trascorrendo,

ci accerchiavano case - dure ma irreali - e nessuna

ci conosceva. Ma cosa era reale sul serio?

 

Nulla. I palloni solo, il loro arco regale.

E neppure i bambini... Ma ecco, si tendeva talora

uno - fugace, oh quanto - alla palla che ricadeva giù.

(In memoria di Egon von Rilke)

 

 

II.9

 

 

Non vi vantate, giudici, per la tortura al bando

per la gogna che il collo non strozza più.

Nessun cuore s'accresce, nessuno, se la faccia

intenerita a forza s'inghigna di pietà.

 

Quel che nel tempo si prese la forca se lo ridà,

come bimbi il balocco d'un compleanno finito.

Nel cuore puro, alto, che in pazzia si spalanca,

ben diverso entrerebbe il Dio di tenerezza.

 

Potente giungerebbe irradiando luce -

tale è il divino. Più che vento

per grandi navi sicure,

 

lieve non meno di silenziosa certezza

che si svela nell'intimo e ci prende

come un bambino che gioca, queto, da unione senza termine.

 

II.10

 

 

Ogni conquista mina la macchina, finché

vanti il suo posto nello spirito e non nell'obbedienza.

Perché in bell'esitare più non muova la splendida mano,

rigida squadra la pietra al palazzo programmato.

 

Mai che rimanga indietro, le sfuggissimo una volta.

A sé appartiene oliandosi nella fabbrica senza voce.

È lei la vita - o crede al meglio di saperla

e con ugual sicurezza regola inaugura annienta.

 

Ma per noi meraviglia è tuttora l'Esistere,

fontana delle origini in cento luoghi, gioco

di forze pure - e solo chi ammira in ginocchio le sfiora.

 

Parole ancora, tenere, salgono all'Indicibile.

E nuova sempre la musica dalle pietre tremanti

nello spazio inusabile alza, divina, la sua casa.

 

 

II.11

 

 

Sorsero dalla morte regole calme e ordinate,

uomo, sopraffattore da quando perseveri in caccia;

ma, più che reti o tagliole, te conosco, strascico di vela

pendulo a sprofondare nelle voragini del Carso.

 

Leggero ti calavano, quasi segnale fossi

di festeggiata pace - ma poi torse gli orli un accolito:

e dagli antri la notte buttò un mucchietto di pallide

colombe vacillanti nella luce... Pure, anche questo è giusto.

 

Da chi osserva sia lungi il sospiro della pietà,

non pur dal cacciatore, che quanto al Tempo è dovuto -

vigile, attivo - termina.

 

Uccidere è figura del nostro lutto errante...

Puro è nel chiaro spirito l'evento

che ci accade e null'altro.

 

II.12

 

 

Punta alla metamorfosi. Infiàmmati per la fiamma,

là insegui invano una Cosa, superba dei mutamenti,

Lo Spirito che progetta, del mondo terrestre il signore,

nella figura in impeto nulla ama più che la svolta.

 

Chi nello stare si serra già è fissità, è gelo:

crede che lo protegga il grigio, che non appare?

Bada, al macigno insidia da lungi la forza più dura,

guai! il maglio assente si leva già.

 

Quei che in sorgente sgorgano la Conoscenza li ama

e li rapisce e li addentra nella creazione beata

che spesso chiude all'avvio, e con la fine incomincia.

 

È ogni felice spazio figlio, o nipote, di un addio:

meravigliando lo traversano. E Dafne trasfigurata,

quando si sente alloro, vuol che tu vento divenga.

 

II.13

 

 

Ogni addio sopravanzalo, quasi fosse alle spalle

già, come l'inverno che ora passa;

perché sotto gli inverni un inverno c'è senza termine

tale che, se lo sverni, il cuor tuo per sempre resiste.

 

Sii sempre morto in Euridice - e tu canta e sali,

loda e risali, fin dentro al puro rapporto.

Qui fra chi esala sii, nel regno del declino,

sii coppa tintinnante, che già nel tintinno s'è infranta.

 

Sii - e il Non-Essere sappi

a un tempo, radice inesausta al tuo fondo tremore,

sicché in un punto solo compiutamente tu lo compia.

 

Ai rifiniti resti e alle ottuse riserve, mute,

della Natura nel colmo, alle somme indicibili

in gioia aggiùngiti tu, e il numero azzera.

 

II.14

 

 

Guarda i fiori, così fedeli al terrestre: corolle

cui destino imprestiamo dagli orli del destino.

Pure, chissà: d'appassire rimpiangono forse

e nostra parte è l'essere il loro rimpianto.

 

Tutto vuole librarsi. E noi ci aggiriamo massicci,

su tutto gravitiamo, del peso innamorati.

Che rovinosi maestri siamo per le cose

che un'infanzia rallegra senza fine.

 

Se nell'intimo sonno potesse uno afferrarle,

dormire con le cose, fitto, come verrebbe leggero,

mutato, al nuovo giorno, dall'unione profonda.

 

O rimarrebbe, forse; e sbocciando lo loderebbero,

loro, il rigenerato: simile all'esser loro

adesso, alle quete sorelle nel vento dei prati.

 

 

II.15

 

 

Bocca che doni, tu, bocca di fonte

che parli l'Uno, puro, inestinguibile,

avanti al volto dell'acqua che va

maschera e marmo. E al fondo, gli acquedotti:

 

l'origine. Più in là, lungo le tombe,

dai dorsi d'Appennino ti conduce

il tuo dire, che poi dalla vecchiezza

nera del mento innanzi ti ricasca

 

precipitando nella conca. Qui

è l'orecchio nascosto, nel suo sonno

di marmo - e in questo continua tu parli.

 

Orecchio della terra. Con sé sola

va discorrendo. Se un càntaro cali

le pare ora che tu la interrompa.

 

II.16

 

 

Sempre e sempre smembrato da noi

il Dio è il luogo che risana.

Noi siamo taglio, sapere vogliamo:

lui, sereno, si dà.

 

Sino l'offerta consacrata, limpida,

non altrimenti nel suo mondo accoglie

che stando innanzi al libero

fine, senz'ombra.

 

Il morto solo beve

alla fonte che noi udiamo appena,

quando gli accenna nel silenzio il Dio.

 

A noi s'offre il rumore, questo appena.

E l'agnello si tende al suo campano,

per istinto, tacendo.

 

II.17

 

 

Dove, in quali giardini beati, irrigui sempre, su quali

alberi, da quali calici che teneri si sfogliano

maturano i frutti strani della consolazione? Qualcuno

ne trovi forse, prezioso, lungo i prati calpesti

 

della tua povertà. E da una volta all'altra

sempre ti meraviglia la grossezza del frutto,

così sano, il liscio della buccia

e che svagato un uccello non te l'abbia sottratto, o l'invidia del verme

 

da giù. Alberi ci sono cui sorvolano angeli,

e lenti giardinieri, occulti, così li hanno cresciuti

che, senza essere nostri, ci danno?

 

Siamo riusciti mai - noi ombre, fantasmi,

noi prematuri all'atto, che subito appassiamo -

l'abbandono a turbare di quelle calme estati?

 

II.18

 

 

Danzatrice, d'ogni trascorrere

trasposizione nel passo: come l'offrivi!

E nel finale il vortice, quest'albero di movimento,

tutto non concentrava in sé l'anno, già dileguato?

 

Non fioriva - se sciamando il tuo impeto primo l'avvolgesse - di colpo

la sua vetta di silenzio? E sopra

non era sole, estate, il calore:

questo calore senza numero, tuo?

 

Ma pregno era anche, pregno, il tuo albero dell'estasi.

Non sono questi i suoi frutti, queti: la brocca

che s'arrotonda, striata - e il più maturo vaso?

 

E nelle immagini: non è rimasto il disegno

che l'oscura linea dei tuoi cigli

fulminea agli orli della giravolta imprimeva?

 

II.19

 

 

Da qualche parte nelle banche, ruffiano, abita l'oro:

se la fa con migliaia. Ma quel cieco,

l'accattone, fin per il soldo di rame

è come un perso angolo, polveroso sotto l'armadio.

 

Scivola per le botteghe il denaro, è di casa laggiù,

in seta si traveste, in pellicce e garofani.

Lui, il taciturno, sta fra respiro e respiro

del denaro che è sveglio oppure dorme.

 

Come ha voglia di chiudersi, a notte, questa mano aperta sempre.

Ma domani il destino la riprende - e ogni giorno

la tende: chiara, misera, allo sbaraglio senza fine.

 

Che uno, uno almeno, un veggente, intenda quel suo durare antico,

meravigliando, e lodi. Dirlo può l'impeto solo

del canto. Udirlo, solo il Divino.

 

 

II.20

 

 

Che distanza fra stella e stella - pure, quanta distanza più

qui sulla terra impari.

Uno, ad esempio, un bimbo; e accanto a lui, un altro:

quanto lontani, inafferrabilmente.

 

Ci misura il Destino, forse, col metro dell'Essere

e pare estraneo; pensa:

quanti metri fra l'uomo e la ragazza

che eludendo lo cerca?

 

Distante è tutto - e il cerchio in nessun punto si chiude.

Guarda in mezzo alla tavola in festa, sul vassoio,

l'occhio del pesce: strano.

 

Si diceva una volta: sono muti i pesci. Ma chissà,

ci sarà un luogo alla fine dove il loro linguaggio -

senza loro - si parla?

 

II.21

 

 

Canta i giardini che non sai, mio cuore,

imprigionati nel cristallo, chiari, non raggiungibili,

le acque le rose di Ispahan, di Shiraz

canta beate, lodale, senza confronto.

 

Cuore, e tu mostra che mai di sé ti privarono:

te voglion dire, te al maturare i fichi,

con loro cresci, con i venti che fra i rami nel boccio

come un viso respirano.

 

È errore - tu fuggilo - che rinuncia vi sia

là dove questo intento s'è realizzato: l'Essere.

Filo di seta sei, inserito nella trama.

 

Qualunque sia l'immagine che Uno è con te nel profondo

(fosse un momento pure del vivere in pena)

senti che il senso è l'Intero, il tappeto glorioso.

 

 

II.22

 

 

A dispetto del fato: oh gli eccessi meravigliosi

del nostro essere qui - traboccano ancora nei parchi

o in uomini di sasso a fianco degli architravi

d'alti portali, curvi sotto balconi.

 

E la campana di bronzo, che il batacchio ogni giorno

solleva contro l'inerte quotidianità.

Oppure la colonna di Karnak, unica, la colonna

che sopravvive a templi quasi eterni.

 

Adesso il sovrappiù precipita a malapena

come fretta dal giorno orizzontale, giallo,

dentro la notte sopraffatta accecante di luce.

 

Ma trapassa il delirio, e orma non rimane.

Curve di volo nell'aria, e in quelli che le guidano;

nessuna invano, forse. Ma nella mente solo.

 

 

II.23

 

 

In quell'ora tua chiamami

che ti sta fronte a fronte, impercettibile,

ti anela addosso qual muso di cane

e sempre ancora indietro si ritrae

 

quando oramai t'attendi d'agguantarla.

Tuo più di tutto è quel che ti si nega.

Liberi siamo. E il congedo ci colse

dove il primo saluto attendevamo.

 

E un appoggio imploriamo, con paura,

per le vecchie misure troppo giovani,

troppo vecchi per quel che non fu mai.

 

Il lodare soltanto ci giustifica,

ahi, siamo ramo e scure,

la dolcezza del rischio, che matura.

 

II.24

 

 

E questa gioia sempre nuova, quando l'argilla hai impastato!

A chi tentò - in principio - quasi nessun soccorso.

E tuttavia città sorsero su insenature felici,

acqua e olio riempirono le brocche, tuttavia.

 

Gli Dei in abbozzi arditi li progettiamo dapprima,

poi daccapo li annienta il destino dispettoso.

Ma son gli Eterni, loro. Questo è il punto, vedete:

porger l'orecchio a quello che alla fine ci ascolta.

 

Noi, da un millennio all'altro, e madri e padri sempre

più ricolmi del figlio da venire,

finché ci passi oltre, più tardi, e ci sconvolga.

 

Noi, a rischio senza limiti, abbiamo tempo, noi!

E soltanto la morte, muta, sa quel che siamo

e quel che lei guadagna, se in prestito ci dà.

 

II.25

 

 

Già odi - ascolta - il lavorare primo

dei rastrelli - daccapo il ritmo d'uomo

nella forza raccolta della terra

che attende primavera. Inassaggiato

 

appare il tempo che arriva: per tante

volte già venne e sembra ora venire

nuovo. Da sempre era la tua speranza,

mai l'afferrasti. Ecco, t'afferra adesso.

 

Sin nella quercia che provò l'inverno

splende futuro il bruno delle foglie

nel vespro. I venti si scambiano segni.

 

Neri gli arbusti. Ma più denso il nero,

lungo il fiume, il letame che sta a mucchi.

E ogni ora che va, si fa più giovane.

 

II.26

 

 

Come ci prende il grido degli uccelli...

Qualsiasi grido al suo crearsi primo.

Ma i bimbi già, all'aperto giocando,

alzano gridi accanto al grido vero.

 

Gridano il caso. Dentro le fessure

dello spazio (ove penetra d'uccelli

puro il grido, come uomini nei sogni)

spingono i cunei dello strillo acuto.

 

Ah, dove siamo noi? Sempre più liberi

come aquiloni a sbando, ci si butta

a mezzaria, con margini di risa,

 

laceri al vento. Ordina tu chi grida.

Iddio del canto - e fremendo si destino

in flutti, il capo recando e la lira.

 

 

II.27

 

 

Ma c'è davvero il Tempo, il distruttore?

Quando, sui monti immoti, le rocche disintegra?

E questo cuore, che eterno agli Dei appartiene,

quando il Demiurgo lo vince?

 

Siamo davvero fragili, impauriti

quanto il destino vuol farci apparire?

e l'infanzia, promessa impetuosa

profonda alle radici, si fa muta, alla fine?

 

Ah lo spettro della caducità

trapassa chi innocente l'accoglie

come fumo sottile.

 

Pure, anche noi si vale, così come siamo, alla spinta,

sbandati, accanto a forze che non passano siamo

una divina via.

 

II.28

 

 

O vieni e va. Tu, quasi bimba, compi

l'armoniosa figura un istante

in un'astrale immagine di danza,

quali fingiamo brevi a vincer l'ordine

 

ottuso della Natura; ché solo

d'Orfeo nel canto s'apriva all'ascolto.

Eri quella che viene da lontano,

stupita appena se un albero, incerto

 

prima, te ascoltando assecondava.

Sapevi ancora il luogo ove la lira

s'alzò vibrante: il centro, non udibile.

 

Per questo tu i bei passi tentavi

e speravi alla sacra festa un giorno

volger l'andare dell'amico, e il volto.

 

 

II.29

 

 

Tacito amico delle lontananze,

senti? gli spazi accresci col respiro.

Nel buio ceppo campanario làsciati

risuonare. Quel che ti consuma

 

diventerà una forza, con tal cibo.

Va' fuori e dentro nella metamorfosi.

Quale esperienza ti fa più soffrire?

T'è amaro il bere? E tu vino diventa.

 

Sii, in questa notte d'eccesso, magia,

nell'incrocicchio dei tuoi sensi il senso

del loro incontro arcano.

 

E se all'oblio il mondo t'abbandona,

all'immobile terra di': Io scorro,

e all'acqua fuggevole: Io sono.

 

 

 

 

 

 

IL PRIGIONIERO

II

Pensa, se ciò che ora è cielo e vento,

e aria alla tua bocca e chiarore al tuo occhio,

divenisse di pietra, tranne quel punto minimo

dove sono il tuo cuore e le tue mani.

E ciò che ora in te ha nome domani,

più tardi, e l'anno prossimo, e oltre -

divenisse in te piaga e denso pus,

e suppurasse, e mai più fosse alba.

E ciò che fu, impazzito,s'aggirasse

delirando entro te, la cara bocca

che mai rise, schiumante di risate.

E ciò che fu Dio fosse soltanto il tuo guardiano

e otturasse l'ultimo buco, perfido,

con l'occhio sporco. Ma tu fossi vivo.

 

 

 

 

 

 

 

CANTO D'AMORE

 

Come potrei trattenerla in me,

la mia anima, che la tua non sfiori;

come levarla, oltre te, ad altre cose?

Ah, potessi nasconderla in un angolo

perduto nella tenebra, un estraneo

rifugio silenzioso che non seguiti

a vibrare se vibri il tuo profondo.

Ma tutto quello che ci tocca, te

e me, insieme ci prende come un arco

che da due corde un suono solo rende.

Su qual strumento siamo tesi, e quale

violinista ci tiene nella mano?

 

 

LA MORTE DEL POETA

Giaceva. Sopra i ripidi cuscini

il suo volto s'ergeva pallido di rifiuto

da quando il mondo e questo suo pensarlo

- scisso ormai dai suoi sensi - in grembo all'anno

indifferente era ricaduto.

Non seppe mai, chi lo vedeva vivere,

com'era in ogni cosa uno e indiviso, poichè tutto,

queste profondità con questi prati

e queste acque erano il suo viso.

Oh, il suo viso era questo spazio immenso

che ancora in lui si cerca e a lui si tende,

e la sua maschera che l'agonia dissolve

è aperta e tenera come l'interno

di un frutto che all'aria si corrompe.

LA CATTEDRALE

In quelle piccole città ove in cerchio vecchie case

stanno come baracche di una fiera accovacciate,

chi di lei con spavento s'accorge, all'improvviso

chiude le sue botteghe e intento e muto,

tacendo i gridi, fermatisi i tamburi,

tende in alto le orecchie alla sua voce -;

mentr'essa, sempre calma dentro il vecchio

panneggio dei suoi contrafforti si erge

e delle case nulla sa:

in quelle piccole città si vede

come le cattedrali eran cresciute alte

sul mondo circostante. Il loro sorgere

tutto sopravanzava, come cose

troppo vicine all'occhio sempre eccedono

l'orizzonte della nostra esistenza,

quasi non accadesse altro e il destino

fosse quello che in loro oltre misura,

pietrificato per durare, cresce;

non ciò che è in basso nelle oscure vie

attinge al caso e porta un qualche nome

come il bambino porta il verde e il rosso

del grembiule ed altra tinta che si trovi.

Allora in questi bassi c'era nascita,

impeto e forza erano in quell'ascendere

e ovunque amore come pane e vino,

e ai portali le voci del lamento amoroso.

Esitava la vita al suon dell'ore e nelle torri

che colme di rinunzia a un tratto più

non ascendevano, c'era la morte.

 

 

 

 

 

 

DIO NEL MEDIO EVO

E lo avevano tratto dalla propria sostanza,

e vollero che fosse e giudicasse,

e infine come pesi gli sospesero

(per impedire la sua ascesa al cielo)

carico e massa delle loro grandi

cattedrali. E egli doveva solo,

ruotando sopra i suoi numeri immensi,

scandire l'ora e come un orologio

dar segni alle opere del loro giorno.

Ma ad un tratto entrò in pieno movimento

e il popolo della città atterrita

dalla sua voce lo lasciò - staccata

la suoneria - seguitare il cammino

e fuggì via dal suo quadrante.

 

 

MORGUE

Sono là pronti, quasi si trattasse

d'inventare a cose fatte un'azione

capace di connetterli e accordarli

gli uni agli altri e a questa fredda sala;

perchè alla scena manca un tratto che concluda.

Quale nome avrebbe dovuto

trovare in quelle tasche? Per cancellarne i segni

del disgusto lavarono le bocche:

non sparì; ma il disgusto ora è pulito.

Le barbe irte e ancora un pò più dure,

ma più decenti agli occhi dei guardiani,

solo per non nauseare i curiosi.

Gli occhi dietro le palpebre

si sono rovesciati e ora guardano dentro

 

 

 

 

 

 

INFANZIA

SI dovrebbe riflettere a lungo per parlare

di certe cose che così si persero,

quei lunghi pomeriggi dell'infanzia

che mai tornarono uguali - e perchè?

Dura il ricordo -: forse in una pioggia,

ma non sappiamo ritrovarne il senso;

mai fu la nostra vita così piena

di incontri, di arrivederci, di transiti

come quando ci accadeva soltanto

ciò che accade a una cosa o a un animale:

vivevamo la loro come una sorte umana

ed eravamo fino all'orlo colmi di figure.

Eravamo come pastori immersi

in tanta solitudine e immense distanze,

e da lontano ci chiamavano e sfiravano,

e lentamente fummo - un lungo, nuovo filo-

immessi in quella catena di immagini

in cui duriamo e ora durare ci confonde.

 

 

Alcesti

A un tratto il messo era comparso, come
un nuovo giunto, immerso nel tumulto
della festa di nozze, fra la gente.
Ed essi, i bevitori, non sentirono
il dio dal chiuso andare, che portava
la sua divinità come un mantello
umido, e parve loro uno dei tanti
mentre passava. Ma improvvisamente
vide in mezzo ai discorsi uno degli ospiti
a capo della tavola, lo sposo
come non più giacente, ma rapito
in alto, rispecchiare dal profondo
un'ombra estranea che paurosamente
gli si volgeva... E subito fu chiaro,
fu calma, solo con un resto a terra
di torbido rumore, un gorgogliare
di balbettii cadenti, già corrotti,
di sorde risa trattenute. Allora
riconobbero il dio, l'agile dio,
che stava, pieno della sua missione,
implacabile - e quasi si comprese.
Pure, quando fu detto, parve più
d'ogni scienza, non cosa da comprendere.
Deve morire Admeto. Quando? Adesso

Ma egli ruppe la scorza del dolore
in pezzi e ne distese alte le mani
come per trattenere il dio fuggente.
Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni.
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte. questa.
Il dio negava. Gridò allora Admeto,
gridò vani richiami a lui, gridò,
come gridò sua madre al nascimento.

Ed ella venne a lui, la vecchia donna,
ed anche il padre venne, il vecchio padre,
e stettero invecchiati, incerti, presso
lui che gridava e a un tratto fissò in loro
lo sguardo, s'interruppe, inghiottì, disse:
"Padre,
importa molto a te di questo avanzo
di vita che ti vieta ormai l'amplesso?
Su gettalo, E anche tu vecchia donna,
matrona,
perchè tu vivi ancora? Hai partorito"
E li teneva vittime all'altare
in una presa. A un tratto lasciò i vecchi,
li spinse via da sé, mentre chiamava
anelante, ispirato: Kreon, Kreon!
E solo questo, solo questo nome.
Ma sul suo viso quello che non disse
era impresso in attesa senza nome;
e ansante verso il giovane, il diletto
amico, oltre la tavola sconvolta
si protendeva: i vecchi, vedi, sono
consunti - misero riscatto - e poco
valgono, mentre tu nella pienezza...

Ma l'amico era come dileguato.
Allora tacque, e chi venne fu lei,
esile forse più di prima, e lieve
e mesta nella sua veste nuziale.
Gli altri non sono che la strada a lei
che viene, viene... (e subito sarà
tra le braccia che s'aprono al dolore).
Ma Admeto attende ed ella non a lui
si volge. Parla al dio che la comprende,
e tutti la comprendono nel dio.
Nessuno è a lui compenso. Io solamente.
Io lo sono. Perché nessuno è al fine
come me. Cosa resta a me di quello
ch'ero qui, cosa resta oltre il morire?
Lei non ti ha detto nel mandarti a noi
che quel giaciglio che di là ci aspetta
è d'oltretomba? Io già presi commiato,
io presi ogni commiato.
Nessun morente più di me, che vengo
perchè tutto,sepolto sotto quello
che è il mio sposo, svanisca, si dissolva.
Prendimi dunque: prendimi per lui.

Come la brezza che si leva al largo,
il dio s'avvicinò, quasi a una morta
e fu lontano subito dall'uomo
a cui in un breve gesto egli donava
tutte le cento vite della terra.
Admeto, vacillante, li rincorse
per aggrapparsi, come in sogno. E loro
erano già dove le donne in pianto
gremivano l'uscita. Ma una volta
ancora egli le vide il viso, indietro
rivolto, in un sorriso chiaro come
una speranza, una promessa: a lui
tornare adulta dalla cupa morte,
a lui vivente...
Allora egli le mani
premette sulla fronte, inginocchiato,
per non vedere più che quel sorriso.

Rainer Maria Rilke

 

 

 

 

 

La proprietà letteraria è dell'autore. Ogni riproduzione è vietata.

 

Home page  |  L'autrice del sito  Le pagine del sito     

         

 

om: 0">