Salvatore Armando Santoro 1-2  

 Note biografiche - Recensioni - Le sue poesie

IL GATTINO NATALINO IL REGALO DI NATALE BRUNO VERUSCKHA IL VIALE

 

La favola di Natale

IL GATTINO NATALINO

 

            La neve era caduta abbondante alla vigilia di Natale del 1999 ad Aosta e Natalino, un gattino randagio, a cui era stato dato questo nome proprio perché era stato abbandonato dai suoi padroni nel periodo natalizio di qualche anno prima all’interno del Teatro Romano, da diversi giorni non aveva trovato nulla da mangiare.

         Negli ultimi tempi, quasi ogni giorno, i volontari dell’Associazione “Amici del Gatto” avevano cominciato a lasciargli, in un angolo riparato del suo rifugio, un po’ di cibarie, ma l’abbondante nevicata aveva precluso loro la possibilità di arrivare vicino al posto dove Natalino aveva stabilito la sua dimora, all’interno di una cavità che il tempo aveva scavato in un vecchio pioppo ai confini della radura circostante il Teatro Romano. Da lì, in caso di pericolo, con un salto, poteva arrampicarsi sulla recinzione vicina e trovare riparo all’interno del confinante Anfiteatro Romano.

         Natalino aveva imparato molto presto ad arrangiarsi per sopravvivere. Superata l’iniziale difficoltà dell’abbandono attendeva l’arrivo del buio per inoltrarsi tra i vicini vicoli alla ricerca di viveri che spesso, raspando tra le buste dell’immondizia abbandonate vicini ai bidoni, riusciva a recuperare. Ma la cosa durò fino a quando il Comune non sostituì i poco capienti bidoni con dei moderni contenitori  difficilmente raggiungibili per via del pesante coperchio che li proteggeva.

         Nei momenti di maggiore difficoltà si era risvegliato in lui il naturale istinto di cacciatore ed aveva individuato diverse tane di topi o altri roditori dove si appostava in paziente attesa. Spesso, quindi, se ne stava immobile ad aspettare che qualche roditore sprovveduto cascasse tra i suoi artigli e così riusciva a sopravvivere. D’estate a farne le spese erano anche le lucertole, ma in quel periodo era facile che i turisti gli lasciassero anche un po' delle loro cibarie ed il pranzo o la cena era quasi sempre assicurata.

         Poi erano arrivati i volontari dell’Associazione del Gatto. L’avevano visto un giorno su uno dei muri del teatro e così cominciarono con regolarità a lasciargli qualcosa da mangiare in una ciotola nascosta in un angolo.

         Dal momento poi che il bisogno aguzza l’ingegno Natalino aveva messo a punto una serie di strategie per assicurarsi un pasto di emergenza. E così non mangiava tutto il contenuto della scodella, ma lasciava degli avanzi che attiravano i roditori che vivevano nel suo territorio. Così si garantiva dei pasti regolari anche quando le risorse scarseggiavano.

         Ma a Natale del 1999 l’abbondante nevicata aveva ricoperto tutto il piazzale e nessuno si era preoccupato di andare a spalare la neve ai margini del teatro, fra l’altro lontano dal giro abituale dei turisti.

         Così Natalino, dopo il secondo giorno di digiuno, decise di avventurarsi per i vicoli attorno alla Via Porte Pretoriane alla ricerca di cibo.

         Ma la città veniva ripulita con regolarità e Natalino non riuscì a trovare nulla per sfamarsi. Desolato si avventurò oltre le Porte Pretoriane ed imboccò, poi, la Via Antica Zecca.

         Anche qui, però, le case erano state quasi tutte rimesse a nuovo ed i contenitori con i sacchetti dei rifiuti erano ben serrati e difficilmente raggiungibili.

         La situazione stava diventando preoccupante in quanto la fame aumentava sempre più e gli stimoli si erano fatti insostenibili.

         Mentre disperato pensava al da farsi si accorse della presenza di un topolino che sortiva  da sotto il cancello di una villa in disuso e  compiva rapide escursioni nel vicolo in cui si trovava raccogliendo le briciole che gli inquilini della casa vicina avevano fatto cadere nella stradina sottostante scuotendo le tovaglie della tavola. Natalino individuò in quel piccolo roditore la soluzione del suo problema nutrizionale.

         Si appostò paziente assumendo la posizione tipica dei gatti in fase di caccia. Il topolino con molta prudenza continuava ad uscire da sotto il cancello, raccoglieva rapidamente altre briciole e riparava velocemente al suo ricovero.

         Questa operazione si stava ripetendo ormai da alcuni minuti e Natalino stava affinando le ultime sue strategie per il salto finale, quando fu distratto dalla comparsa di altri due piccoli roditori ai quali, da li a qualche secondo, se ne aggiunsero altri tre o quattro. Questi, con l’incoscienza tipica dei piccoli di tutto il mondo, cominciarono anche a giocare incuranti del pericolo rappresentato dal vicino felino, per giunta affamato.

         Ma qualcosa scattò nell’istinto del gatto. La mamma dei topolini rappresentava una buona occasione per fermare gli stimoli della fame, ma i piccoli avrebbero corso un grosso pericolo per la loro sopravvivenza se la loro mamma fosse morta.

         Ignari di questo profondo dissidio interiore altri topolini sbucarono da sotto il cancello ed anche loro cominciarono una folle corsa rincorrendosi come bambini tenuti per troppo tempo rinchiusi in casa.

         Il gatto Natalino, continuò a guardare la gioiosa corsa dei topolini e quando la loro mamma gli passò vicino con una crosta di formaggio tra i denti non ebbe il coraggio di saltarle addosso e la lasciò riparare tranquilla oltre il cancello con tutta la sua nidiata.

         Desolato si era incamminato lungo la stradina per cercare altrove i viveri indispensabili anche per la sua sopravvivenza.

         Ma il suo angelo custode vegliava per lui e la buona azione appena compiuta non poteva non ricevere la meritata ricompensa. Quindi si stava dando da fare per recuperargli qualcosa da mettere sotto i denti.

         Albertina, una inquilina del secondo piano del palazzo dove si aggirava Natalino, aveva la cattiva abitudine di lasciare sulla finestra bottiglie e piatti coperti con avanzi del pranzo o della cena. Inavvertitamente spesso abbassava la tapparella e se qualche oggetto era troppo vicino alla corsa della serranda lo colpiva ed inevitabilmente precipitava nella via sottostante.

         L’angelo custode di Natalino, che come tutti gli angeli conosceva le abitudine di Albertina, guardando verso l’alto vide sulla sua finestra un piatto con un pezzo di bollito ravvolto in una pellicola trasparente.

         Rapido volò sul davanzale ed intenzionalmente avvicinò il piatto proprio sotto la serranda nel momento in cui Albertina la stava abbassando. Questa, nella sua corsa, lo urtò facendolo precipitare con tutto il suo contenuto nel sottostante vicolo proprio mentre vi transitava Natalino.

         Il gattino, impaurito, fece un balzo all’indietro, ma il buon odore della carne bollita risvegliò i suoi sensi, affinati ulteriormente dagli stimoli della fame. Rapido afferrò il bel pezzo di carne e di corsa riparò verso il suo rifugio all’interno del Teatro Romano.

         L’angelo custode guardava sorridendo, seduto su un comignolo, il suo gatto che ritornava al suo giaciglio e lo vide da lontano mangiare con avidità quel pasto ormai insperato, che bastò anche per i giorni successivi.

         E dato che la buona azione compiuta dal gattino Natalino andava premiata in qualche modo si diede da fare affinché nei giorni successivi tornasse il bel tempo in modo che Natalino potesse ricevere regolarmente le sue razioni di viveri dai volontari dell’Associazione del Gatto.

         Fu così che il giorno dopo, non si capisce ancora come, sulla città di Aosta cominciò a soffiare un vento caldo che, nel volgere di un paio di giorni, sciolse tutta la neve.

 

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         Se qualcuno crede che la favola del gattino Natalino sia inventata rimanga pure nella sua convinzione. Sappia, però, che il giorno 26 dicembre del 1999  soffiò davvero un vento caldo sulla città che sciolse tutta la neve anche all’interno del Teatro Romano.

         Se, poi, vi sono ancora altri increduli facciano una passeggiata all’interno del Teatro o nei suoi dintorni e se tra i tanti gattini che vi stazionano ne troveranno uno dal pelo grigio e dagli occhini svegli, provino a chiamarlo Natalino.

         E se a quel richiamo quel micino dovesse voltarsi può darsi proprio che si tratti del gatto della nostra favola che proprio il giorno di Natale del 1999 compì anche lui, a suo modo,  la sua buona azione natalizia.

 

                                                                           Salvatore Armando Santoro

                                                                                (Lillianes 28/12/99 11.32)

 

 

 

IL REGALO DI NATALE

 

Pioveva e non avevo voglia di viaggiare sotto la pioggia, però quel giorno dovevo per forza andare a Pistoia perchè avevo un appuntamento dal dentista.

Avevo fatto pochi chilometri e stavo percorrendo la statale che costeggia il corso del fiume Reno, che sorge a Prunetta, pochi chilometri dalla località dove abito quando sono in Toscana.

Ad un tratto mi accorgo che un cane viaggia al centro della carreggiata, sbandando un po' a destra ed un po' a manca.

Instintivamente mi fermo ai bordi della strada ed il cane mi si avvicina subito e cerca di salire in macchina.

- "E' un cane abbandonato, esclama mia moglie arrabbiata. Prendono gli animali e poi li abbandonano".

Ma quel cane, anzi quella cagna (visto che è una femmina) inzuppata fradicia d'acqua aveva il collare con sopra inciso il numero telefonico ed il nome del proprietario.

-"E' una cagna da caccia, dico a mia moglie. Forse correndo dietro un cinghiale s'è smarrita!"

Compongo col telefonino il numero trovato sul collare, ma dall'altra parte del telefono nessuno risponde.

La mia Ketty (una bastardina di piccola taglia) mi osserva impensierita quando la nuova ospite sale in macchina.

Forse anche lei s'è accorta del puzzo accidentato che quella bestia emana.

Percorro un mezzo chilometro e mi fermo alla prima borgata che trovo. Un signore mi presta la guida del telefono e ... sono fortunato! Il  proprietario del cane abita a Maresca, sulla montagna pistoiese, un paio di chilometri da casa mia. Risalgo con il cane in macchina (nel frattempo l'avevo fatto scendere per non far morire asfissiata mio moglie) e ritorno verso casa alla ricerca del proprietario.

Ma tutto mi va storto! Recentemente hanno cambiato i numeri civici ed in paese nessuno conosce il nominativo da me fornito.

Vado per tentativi: cerco di ricostruire a caso la vecchia numerazione per avvicinarmi il più possibile al mio uomo.

Il puzzo in macchina è insopportabile e cammino con i vetri abbassati (siamo vicini a Natale e fuori fa abbastanza freddo).

Finalmente, dopo un'ora di ricerche affannose, arrivo alla meta. Ma al citofono non risponde nessuno.

Il cane, però, scodinzola contento. Ha riconosciuto il posto dove abita. Lo faccio scendere e s'avvia verso casa bevendo avidamente in una scodella d'acqua sporca che trova in un angolo.

Un vicino s'affaccia all'uscio e spiego la situazione.

- "I padroni li ho visti andar via. Venga mettiamo il cane nel suo recinto. Mi dia anche il numero del suo telefono così lo darò ai miei vicini appena ritorneranno".

Contento della mia buona azione, do una ripulita alla macchina e m'avvio verso casa. Ormai l'appuntamento con il  dentista è saltato.

Un paio d'ore dopo Ketty mi fa cenno di voler uscire di casa.

- "Dov'è il guinzaglio?", chiedo a mia moglie.

- "L'avrai lasciato in macchina".

Cerco in macchina, ma non lo trovo. Mi ricordo che il guinzaglio l'avevo adoperato per agganciare il collare del cane smarrito e poi l'avevo lasciato sul tetto dell'auto quando avevo fatto scendere l'ospite inatteso.

- "Cristodina", impreco, "mi sarà caduto quando son ripartito".

A questo punto decido di telefonare al proprietario del cane smarrito. Forse sarà caduto proprio davanti casa sua e penso che sarò contento di ricambiarmi il favore. Sempre che nel frattempo sia rientrato in casa.

- "Le stavo appunto telefonando, mi risponde al telefono. Siamo rientrati da circa un'ora, ma solo adesso il mio vicino di casa mi ha portato il suo numero telefonico. Per tutto il giorno siamo andati alla ricerca del cane. Sa, io sono un cacciatore e stamattina verso le dieci la cagna è andata dietro ad un cinghiale e non l'ho più vista ritornare. Non ho neppure pranzato per la disperazione".

- "Ma dove l'ha trovata?, mi chiede".

- "L'ho trovata nel Reno (è un modo per indicare la strada statale che si snoda lungo il fiume Reno) vicino al laghetto sportivo verso le quindici e un quarto".

- "Ma noi c'eravamo passati una diecina di minuti prima! esclama. "Pensi quanta strada ha fatto. L'avevo perso stamane alle 10 nella zona di Montemagno" (circa sei-sette km distante in linea d'aria).

"Sul Reno ci eravamo fermati proprio nei pressi del laghetto della pesca sportiva ed avevamo chiamato e fischiato a lungo. Ma , poi, scoraggiati, ce ne siamo andati via e siamo ritornati a cercare nella zona di Montemagno prima che calasse la sera. Appena noi siamo ripartiti, subito dopo siete arrivati voi. Probabilmente ci aveva sentito ma non aveva fatto in tempo ad arrivare.Quando siamo ritornati a casa eravamo avviliti perchè pensavamo che il cane ormai era perso.Mia moglie era entrata in casa ed io mi stavo pulendo le scarpe. Ho sentito un lieve mugolio arrivare dal recinto del cane".

- "Oh, chi è mai? - ho pensato tra me".

"Sono andato a vedere per curiosità e chi ti trovo affacciata alla ringhiera? Il cane. Gli sfilo il collare ed entro in casa".

-"Sai chi c'è nel recinto? - dico a mia moglie".

-"Chi c'è?"

- "C’è il cane?"

- "Il cane? Tu per la troppa fatica dai i numeri!"

- "Guarda il suo collare, se non ci credi!"

"Corre fuori anche lei e per poco non le viene un colpo".

- "Ma chi l'avrà portata?, si chiede. Ed intanto gli passa una scodella di zuppa che la cagna divora avidamente".

"Si telefona a destra ed a manca a tutti i nostri amici cacciatori, ma nessuno sa darci una spiegazione".

"A sciogliere il mistero arriva il nostro vicino di casa con il Suo numero telefonico e Le stavamo per telefonare per ringraziarLa del grandissimo favore che ci ha fatto. Ma è arrivata prima la Sua telefonata".

- "Siamo stati fortunati a trovare della gente che ama gli animali, altrimenti la cagna poteva essere rimasta sotto una macchina e addirittura combinare anche qualche incidente".

- "Adesso vado a vedere se trovo il collare del suo cane".

Intanto che lui esce a cercare, provo a fare un giro in auto caso mai fosse andato a finire in qualche cunetta lungo la strada e poco dopo arrivo anch'io a cercare attorno a casa. Nulla!

-"Non importa! esclamo, tanto era ormai da cambiare. E' l'occasione per comprarne uno nuovo".

Mi fa entrare in casa e non sa cosa offrirmi da bere (ma io sono astemio) o da darmi in segno di riconoscenza. Poi arriva con due uova fresche.

- "Non ne ho altre, esclama, sono delle mie galline ma in questo periodo ne fanno poche. Le prenda sono uova naturali. Appena ricominceranno a produrle gliele darò delle altre".

Gradisco perchè insiste tanto e rifiutare mi sembrerebbe fargli un torto.

Poi sono sempre due uova fresche e con i tempi che corrono, e con quello che siamo costretti a mangiare oggi, sono anche cose ormai rare da trovare.

Ci salutiamo con l'impegno di ritrovarci.

Passo a trovare la cagna che se ne sta tranquilla nel suo recinto. Mi riconosce e mi scodinzola riconoscente. Forse, alla sua maniera, mi sta ringraziando anche lei.

 

                                                                                                  Salvatore  Armando Santoro

 

 

15.7.2001

 

Fraz. Chichal, 26

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BRUNO

 

            Bruno era un uomo tranquillo, tranquillo e buono.

            Eppure la sua vita non era stata tutta rose e fiori, come si suol dire, anzi tutt'altro. Ad otto anni, insieme ad una sorellina di 6 anni, aveva  perso la madre, ed il padre, un operaio di una grossa impresa chimica siciliana,  non sapeva come fare per star dietro  ai problemi della famiglia ed a quelli del lavoro.

            Rosetta, la sorellina, fu affidata ad una zia che non aveva avuto bambini; Bruno, invece, visto che era più grande e poteva già badare a se stesso,  restò con il padre aiutandolo alla men peggio ad accudire ai bisogni della casa.

            Per qualche anno le cose andarono per il meglio, poi suo padre si risposò con Domenica, una contadinotta ignorante e grassottela, che, sfruttando la bontà di Bruno, lo sottomise ad ogni sorta di angherie riprendendolo a più riprese per ogni nonnulla.

            Le cose si complicarono, qualche anno dopo, con la nascita di un bambino. Bruno non solo continuò ad accudire alle incombenze familiari, pulendo, rassettando, cucinando, ma dovette anche badare al nuovo arrivato e tutte le volte che commetteva qualche piccolo errore erano sgridate e percosse anche in maniera molto violenta.

            Egli non reagiva mai. Subiva e poi si sfogava nella sua cameretta davanti alla foto della mamma morta.

            Nonostante questo riusciva anche a studiare. Il parroco della vicina parrocchia gli dava delle lezioni serali, ma spesso stanco per l'intenso lavoro della giornata, si addormentava sul tavolo ed il prete non aveva neppure il  coraggio di svegliarlo e lo lasciava riposare tranquillo.

            Lo accompagnava, poi, a casa e se incontrava suo padre gli raccomandava di aiutarlo in quanto era un ragazzo volenteroso e sarebbe riuscito negli studi se fosse stato messo nelle condizioni di disporre più tempo per questo.

            Evidentemente il parroco conosceva le condizioni familiari in cui viveva Bruno; non che questi ne avesse accennato mai, anzi; solo che era bastato poco al buon prete per capire che la vita di Bruno, dopo la morte della mamma, era cambiata profondamente.

            A quindici anni Bruno si presentò per sostenere gli esami di licenza media. Il parroco aveva pensato bene di intercedere per lui presso il preside della scuola affinché gli fosse dato un aiuto. Ma agli esami dimostrò conoscenze sufficienti per non avere bisogno di nessuna spinta e la licenza media la conseguì anzi con una discreta valutazione.

            Rimase ancora qualche anno nel paese sopportando con pazienza e senza mai perdere la calma le angherie familiari.

            In paese era benvoluto da tutti. Sorrideva sempre a quanti  incontrava per la strada ed era premuroso con tutti coloro che avessero bisogno del suo aiuto.

            Al compimento del suo dicottesimo anno di età la TV aveva cominciato le trasmissioni televisive in Italia. Quando la ricezione fu attivata anche in quel paese il titolare del bar del centro aveva acquistato un apparecchio televisivo che aveva collocato nel suo locale. Bruno era molto interessato al telegiornale ed alle trasmissioni con dei contenuti culturali e sociali, e li seguiva attentamente quando riusciva ad avere un momento di libertà dagli impegni familiari.

            Fu appunto dalla televisione che apprese che l'Amministrazione delle Poste aveva bandito un concorso nazionale, riservato ai possessori di licenza media, per l'assunzione di portalettere da utilizzare nelle sedi postali periferiche e decise subito di parteciparvi.

            Fu convocato a Roma per le prove scritte. Era la prima volta che si allontanava da solo da casa ma provò un'emozione immensa attraversando lo stretto e lasciando alle sue spalle la Sicilia. A Roma aveva dei lontani parenti che lo ospitarono per i giorni del concorso.

            Quando vide alle prove tanti concorrenti si scoraggiò alquanto e le sue speranze di riuscita si ridussero a zero quando cominciò a sentir dire che tutti erano raccomandati, che i posti erano già stati assegnati e che, quindi, era impossibile sperare.

            Invece, sei mesi dopo fu convocato per la prova orale. Bruno lesse la lettera di convocazione e non credette ai suoi occhi tanto era felice.

            Ripartì per Roma e questa volta si sentì più tranquillo e più sicuro. Non sperava nulla, ma un presentimento interiore gli aveva infuso la speranza di riuscire a centrare l'obiettivo di un posto statale.

            Era il sogno di tutti i meridionali conquistare un posto sicuro nella pubblica amministrazione. Questo significava uscire dalla precarietà ed assicurarsi un avvenire tranquillo.

            Agli orali Bruno influenzò bene la Commissione esaminatrice con le sue risposte: questa fu ben predisposta verso di lui anche per i suoi modi cortesi e per la pacatezza e profondità delle risposte fornite. Gli andò bene. Qualche mese dopo lesse sulla Gazzetta Ufficiale la graduatoria: era tra i primi.

            Subito dopo fu sottoposto a visita medica per la verifica dell'idoneità alle mansioni da svolgere ed ebbe anche la fortuna di non aspettare troppo: la lettera di assunzione non tardò ad arrivare e la destinazione era per un piccolo ufficio ai piedi delle montagne in un paesino del Nord Italia.

            Non si aspettava d'essere mandato così distante, anche perchè non voleva allontanarsi troppo dalla sorella, alla quale era molto legato. Ma ad un posto statale non voleva proprio rinunciare in quanto di lavoro, nel paese dove viveva, proprio non ce n'era. O facevi il bracciante, accettando la condizione di saltuarietà e precarietà di un lavoro pesante e mal pagato, oppure emigravi. E poi che aveva studiato a fare? Se poteva trovare di meglio, anche se lontano da casa, non importava. Meglio in Italia, diceva a tutti, che all'estero. E poi, pensava, un domani, se avrò fortuna, potrò di nuovo essere trasferito in Sicilia. Così si preparò alla partenza dopo aver abbracciato la sorella e salutato tutti i parenti e gli amici del paese.

            Alla nuova destinazione arrivò all'inizio di una settimana nel cuore dell'inverno. La neve l'aveva sempre vista da lontano, sull'Etna. Nel suo paese, adagiato sul mare, il sole splendeva da marzo a novembre ed  anche la pioggia era avara a cadere, pur se tanto necessaria alla campagna.

            Aveva osservato dal treno il paesaggio che cambiava. A Milano si era trasferito al terminale di una corriera che lo avrebbe portato a destinazione. Dal finestrino guardava con apprensione i paesi e la campagna bianchi di gelo e man mano che la corriera si inerpicava su per la montagna si accorse che la neve copriva ogni cosa. Quando finalmente scese dalla corriera si trovò davanti un paesaggio completamente diverso dal suo. La prima cosa che avvertì fu il freddo secco e pungente che gli gelò le gote e le orecchie.

            Sulla corriera aveva cercato di socializzare con la gente, ma si accorse subito  che molti lo guardavano con diffidenza e, nonostante il suo modo cortese e tranquillo, pochi gli rivolsero la parola.

            Guardò attorno quasi a rendersi conto dove si trovasse e vide davanti a sè una catena di montagne altissime tutte imbiancate di neve. Ma la neve era dappertutto, sui tetti, sugli alberi, agli angoli delle strade. Era arrivato con un paio di scarpette leggere che ben presto si dimostrarono inadatte sia per ripararlo dal freddo, sia per sopportare le condizioni di innevamento delle strade.

            Chiese a qualcuno dell'ufficio postale e si sentì rispondere con un linguaggio strano ed incomprensibile: un dialetto spiccicato e mozzo che non sarebbe servito a fargli capire nulla se non fosse stato accompagnato dal gesticolare delle mani che gli fecero comprendere che non era distante.

            Seguì quelle indicazioni e da lì a qualche centinaia di metri incrociò l'insegna delle Poste.

            Entrò, salutò e si presentò allo sportello. Vi era solo un'impiegata anziana che appena sentì che era il nuovo postino, avviò una loquace discussione, intercalando parole italiane a parole in dialetto locale, nel corso della quale Bruno capì che era il ben accetto in quanto da anni quell'impiegata doveva fare di tutto, dalla pulizia dell'ufficio alla consegna della posta nelle frazioni, ed ormai non ci sperava più nell'aiuto che aveva tante volte richiesto.

            "Vedi - gli disse - qui è difficile trovare personale locale. Buona parte della popolazione preferisce il lavoro nelle fabbriche dei paesi vicini. Con il cottimo e qualche turno si riesce a portare a casa un salario senz'altro più adeguato rispetto a  quello che ci offre la nostra Amministrazione".

            Poi lo guardò e cominciò a ridere: "Certo - disse - con quelle scarpette ai piedi di lettere ne consegnerai ben poche. Qui caro ragazzo bisogna che tu ti attrezzi indossando degli scarponi da montanaro altrimenti andrai a finire in ospedale prima ancora di iniziare di lavorare"

            Bruno rimase perplesso. E dove trovare un paio di scarponi in un paese  dove solo per caso esisteva una bottega di generi alimentari  ed un tabaccaio con un piccolo bar annesso?

            "Per i primi giorni, se lo accetti, - aggiunse l'impiegata - posso darti un paio di scarponi ed un pastrano del mio povero marito che è morto tanti anni indietro. Spero siano della tua misura. A fine settimana, poi, ci sarà il mercato settimanale degli ambulanti e lì vedrai che troverai tutto quello che ti occorre per non morire di freddo".

            Ringraziò e l'indomani, un po' a disagio nel nuovo abbigliamento, iniziò a distribuire la posta accompagnato dalla sua collega che cercò di insegnargli strade e frazioni del paese.           

            Ma il giorno dopo dovette arrangiarsi da solo. Fu veramente dura. Partì a piedi alle 9 del mattino con un borsone carico di corrispondenza e pacchetti ed alle tre del pomeriggio era ancora in giro per consegnare le ultime lettere.

            "Santo cielo, ragazzo, - gli disse l'impiegata il giorno dopo - devi darti una regolata e fare più in fretta a distribuire la posta altrimenti rischi che la notte la passi per strada".

            Bruno, con la solita sua mitezza e con un sorriso, si scusò. Spiegò che gli era difficile comprendere le indicazioni che gli venivano fornite dai valligiani per via di quel dialetto incomprensibile. E poi sulle case non c'era nessuna targhetta di chi ci abitasse dentro. Ed a cosa sarebbe poi servita in un paese dove tutti si conoscevano?

            Passarono gli anni, nel paese si svilupparono diverse iniziative turistiche e qualche anno dopo fu impiantata anche una piccola fabbrica per la costruzione di ski che diede ulteriore lavoro ad una trentina di addetti. Furono avviate anche altre piccole attività produttive. La costituzione di nuove famiglie e l'aumento delle nascite costrinse l'amministrazione comunale ad ampliare anche l'esistente scuola elementare.

            Nel frattempo la vecchia impiegata, avendo raggiunto l'età per la quiescenza, era andata in pensione e Bruno rimase solo a disbrigare tutte le incombenze dell'Ufficio.

            Aveva dovuto arrangiarsi ad imparare il dialetto che adesso, anche se non parlava, capiva perfettamente. La gente aveva fatto in fretta ad apprezzare la sua disponibilità ed era particolarmente predisposta nei suoi riguardi per il suo comportamento gentile. Non si era mai alterato con nessuno, neppure con quelli che arrabbiati con l'Amministrazione Postale non gli avevano qualche volta risparmiato del "terun" e questa sua bontà, nel lungo periodo, cominciò a dare i suoi frutti.

            La popolazione locale era composta in prevalenza da persone semplici e gran lavoratori. Erano tutti impegnati sia come operai in fabbrica che come contadini nel lavoro della campagna. E chi faceva l'operaio aveva sempre un pezzo di terreno ed una stalla con le bestie da accudire o i lavori dei campi da seguire.

            Per questo vedevano il lavoro di ufficio come qualcosa di complesso e artificioso. Tutte le volte che c'era un versamento da fare, una raccomandata da spedire, un telegramma da scrivere, un pacco da confezionare chiedevano aiuto a  Bruno, che non si tirava mai indietro. 

            Moriva qualcuno, e Bruno pronto a trovare le frasi appropriate per un telegramma;  si sposava qualcun'altro e Bruno pronto a predisporre decine di telegrammi con frasi d'augurio diverse tra loro; c'era un vaglia da spedire e l'utente dimostrava qualche difficoltà  e Bruno era pronto a  compilare il modulo; un pacco da spedire e Bruno pronto con carta, colla e spago per confezionarlo.

            Tutto questo impegno logicamente gli sottraeva tempo prezioso al lavoro del suo ufficio. Ma Bruno non si preoccupava. Spesso si portava il lavoro a casa e lì trascorreva lunghe ore a mettere a posto libri e contabilità.

            A lui interessava soltanto essere utile agli altri. E la gente lo ricambiava per questo suo impegno con stima ed amicizia. 

            Spesso anche a casa non veniva risparmiato. Non era raro che arrivasse gente alle ore più impensate incaricandolo per l'indomani delle più disparate operazioni postali: una raccomandata, un vaglia, dei versamenti o dei prelievi sui loro libretti di risparmio. Spesso erano persone che per i loro turni di lavoro o per qualche malattia di un familiare non riuscivano a recarsi all'ufficio postale nelle ore di apertura. E la fiducia verso Bruno era tale che non avevano alcun timore di consegnargli a volte anche ingenti somme di denaro da depositare sui loro libretti postali.

            La sua casa era sempre aperta a tutti, sempre cortese, senza mai rifutarsi di fornire un consiglio, un aiuto o di fare un piacere.

            Passarono gli anni ed anche la certezza dell'impiego nella pubblica amministrazione cominciò ad essere messa in discussione.

            Come per altre attività produttive pubbliche anche negli uffici postali fu introdotto il principio della privatizzazione. La logica dell'impresa si consolidò e con essa i discorsi sulla produttività e sull'efficienza cominciarono ad avere le prime negative conseguenze. Fu deciso così che l'Ufficio di Bruno doveva essere chiuso assieme a tanti altri piccoli uffici della provincia.

            Appena trapelò la notizia in paese scoppiò la rivolta.

            Alla popolazione non gli importava nulla se avessero chiuso l'ufficio. Ormai in tutte le case c'era un'automobile e si poteva andare anche a fare le raccomandate al paese vicino.

            Ma la gente non voleva perdere Bruno.

            Si cominciò con le petizioni, con le assemblee in piazza, con le convocazioni del consiglio comunale. Anche i bambini delle scuole inviarono le loro letterine al Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni.

            Nulla da fare. A Roma avevano ormai deciso di chiudere e su quella  decisione nessuno voleva tornare indietro.

            Anche la Televisione fu coinvolta. Una troupe di giornalisti arrivò in paese e lo trovò in subbuglio. Striscioni all'ingresso del paese, scritte sui muri, cartelloni appesi nelle botteghe, locandine affisse alle finestre delle case e della scuola.

            La televisione intervistava il paese intero. Tutte le persone che sfilavano davanti alle telecamere non facevano altro che esaltare le qualità umane e la disponibilità dimostrate da questo impiegato che, arrivato dal profondo Sud, aveva saputo conquistarsi l'affetto di tutta la popolazione e la simpatia di tutti i bambini del paese ed adesso nessuno voleva che venisse trasferito altrove.

            Bruno non si era sposato. La sua famiglia era ormai la popolazione di quel paese, i suoi figli erano i bambini, tutti. Con loro spesso, nelle sue ore di libertà, giocava a pallone ed aveva anche messo su una piccola squadra di calcio che ogni tanto disputava piccoli tornei locali. E lui, quei bambini, li amava come fossero suoi ed era sinceremente ricambiato.

            Davanti alla telecamera urlarono in coro "Bruno, Bruno" e a chi li intervistava rispondevano che non volevano che Bruno andasse via.

            Il Ministero, di fronte a questa dimostrazione di affetto popolare, alla fine aveva ceduto. L'Ufficio postale, fino a quando Bruno fosse rimasto in servizio, sarebbe rimasto aperto. La bontà aveva vinto sulla burocrazia.

            Questi, da parte sua, rimase profondamente commosso da tante espressioni di amicizia e di stima, ma la sua vita continuò a scorrere nella più assoluta normalità come se nulla fosse successo. Proseguì a svolgere le sue mansioni ed il suo lavoro con la solita dedizione, con il solito impegno, con la solita disponibilità di sempre.

            Alla televisione aveva detto poco. Alla domanda come avesse fatto un meridionale a farsi stimare e volere così bene dalla gente in una località dove la "Lega Lombarda" aveva il massimo dei consensi e delle  adesioni  aveva risposto, abbozzando come sempre  un lieve sorriso, con semplicità e sincerità: "facendo il mio dovere".

                                                                                                                                                                           (30.1.1999)  

 

e-mail: salv.arm.santoro@tiscali.it

 

(Racconto inviato alla IX Edizione del Premio nazionale "Trichiana-Il Paese del Libro" - 32028 Trichiana (Belluno) - Tel. 0437.556210) Segretario del Premio Edoardo Comiotto

- Inserito nella rosa degli 11 finalisti.

 

 

 

VERUSCKHA

L'acqua del torrente Occhiali scorreva chiacchierina tra le ripe rigogliose di cerri, acacie, rovi e biancospini che adornano la stradina sterrata che porta alla Sorgente dell'Usignolo.

Una volta questa sorgente d'acqua purissima era raggiungibile attraverso un sentiero che si dipartiva dai pressi dell’abitato di Bardalone, una frazione del Comune di San Marcello Pistoiese, ed era percorso da numerosi carri che trasportavano, nella stagione estiva, frasche e tronchi tagliati a pezzi, indispensabili per alimentare le stufe e scaldare le abitazioni nelle lunghe e fredde giornate invernali della montagna pistoiese e, in quella autunnale, sacchi di castagne saporite, che un tempo costituivano l'alimento fondamentale della cucina dei "montanini".

In tempi recenti la località, che poi prese lo stesso nome dell’omonimo torrente che la percorre, fu adibita ad insediamenti artigianali ed industriali, per cui fu necessario allargare il sentiero per qualche chilometro in modo da consentire l’accesso anche ai mezzi pesanti a motore e successivamente venne anche asfaltato.

Finita la zona la zona industriale il sentiero si inerpica dolcemente per ancora un altro chilometro all'interno dell'Appennino, diventando sempre più stretto e tortuoso man mano che si sale verso la sommità della vetta di Poggio Serripozzo, alta 951 metri, che sovrasta la vallata. Una volta esistevano vari sentieri, in buono stato di manutenzione, che portavano al Piano Ciliegia e alla Casetta degli Sposini. Poi l’abbandono della coltivazione dei campi portò alla scomparsa di gran parte di questi sentieri che oggi sono ricoperti quasi completamente da arbusti e da erbacce. Dalla sommità di Poggio Serripozzo si gode una vista panoramica sulla vallata di Prunetta, una frazione montana di Pistoia, da dove hanno origine le sorgenti del fiume Reno.

Durante il periodo estivo il via vai di persone, provenienti anche da Pistoia e dai paesi vicini, è abbastanza intenso, anche perché molte di queste, oltre a fare una distensiva passeggiata nei boschi ne approfittano per riempire otri e bottiglie d’acqua fresca alla Sorgente dell’Usignolo.

Nel 1963 la sorgente fu sistemata adeguatamente, fu eretta una caratteristica tettoia in legno e furono anche collocate, a cura dell’Amministrazione Comunale, diverse panchine non solo nei pressi della fonte ma anche lungo tutto il percorso che porta alla sorgente. A ricordo dell’opera fu anche posta una targa in pietra con incisa una bellissima poesia dedicata all’usignolo, volatile molto diffuso nella zona ed il cui canto melodioso accompagna sovente le passeggiate dei villegianti.

Nel periodo estivo, quindi, la tranquillità della località è rotta dal via vai di mezzi a motore, dalle urla dei bambini e dal chiacchierio della gente.

Ma nel periodo primaverile e nel tardo autunno, quando la circolazione delle persone e dei mezzi è meno intensa, Verusckha, una deliziosa bambina che abita nelle vicinanze, è solita effettuare delle lunghe passeggiate, addentrandosi in profondità nel bosco e portandosi dietro una cagnetta di nome Ketty, affettuosa e vivace, che è la gioia degli altri bambini per la sua mitezza, e che dimostra il massimo della tranquillità quando può evitare la rumorosa strada regionale che porta all’Abetone.

Verusckha apprezza la quiete ed il silenzio del bosco e le piace ascoltare il canto dei cardellini e degli usignoli ed osservare il volo radente dei merli soprattutto quando, a primavera, sono intenti a costruire i nidi tra i rovi ed i cespugli di biancospino che inghirlandano il sentiero.

Saltellando tra le rive del torrente e cercando un guado per inerpicarsi su un nuovo sentiero si ferma spesso ad osservare, qua e là, le piccole pozze scavate tra le sponde dallo scorrere del torrente nel corso degli anni; ed a volte riesce, così, ad intravedere fugaci apparizioni di trote, che spariscono tra i ceppi e le rocce affioranti dall'acqua non appena si affaccia un pò oltre la sponda.

Muovendosi con passi quasi felpati, tesi ad evitare di disturbare o impaurire la fauna che prospera in quella località tranquilla, diverse volte, in passato, aveva avuto occasione d'intravedere a breve distanza coppie di daini, famigliole di cinghiali, scoiattoli, ghiandaie, galli cedroni e spesso, alti nel cielo, leggeri voli di falchetti che avevano puntato una qualche preda nel sottostante bosco.

Amava osservare la natura attorno a sé ed il piacere che tale affascinante spettacolo le procurava le suggeriva di vivere la  vita del bosco con quella naturalezza necessaria per non impaurire gli animali che incontrava e fare sparire le visioni improvvise di cui poteva godere.

Fu appunto in una di queste passeggiate primaverili che un giorno gli parve di sentire, tra le frasche che inverdivano, un leggero lamento, quasi il singhiozzo di un bimbo, ed ebbe chiara sensazione che qualcuno o qualcosa la stessero osservando nei suoi movimenti.

Un po' intimorita rallentò il passo e prestando l'orecchio tentò di scoprire, scrutando anche con la coda dell'occhio, la presenza che avvertiva, con l'intento di individuare la giusta direzione di provenienza dello strano lamento.

A circa cento metri dalla Fonte dell'usignolo il sentiero si divide in due diramazioni. Quella di destra, sorpassando il corso del torrente con una piccola passerella in legno, sufficiente però  a reggere il peso dei trattori che vi passano sopra, raggiunge il piccolo borgo di Campo Magno, che domina la vallata di Bardalone da un poggio panoramico e soleggiato.

Verusckha si accostò alla passerella, poi scese lungo le sponde del torrente e si chinò, sotto il ponte, fingendo di lavarsi le mani. Rimase in gran silenzio nascosta tra i ciocchi trasportati dalla corrente e le radici degli alberi che abbracciavano le ripe scoscese, osservando intensamente l'acqua scorrere e, nel frattempo, scrutando discretamente intorno con l'intento di scoprire l'eventuale presenza misteriosa che l'aveva turbata.

Nella quiete del mattino i rumori del bosco erano ancora più distinti: il gorgoglio del torrente sembrava il cianciare delle donne affaccendate a lavare i panni nel lavatoio del paese e il vento brontolava tra i tronchi e le foglie degli alberi non so quale vocio indistinto; ed il suono che si generava variava di tonalità, a secondo dell'intensità del vento, passando da un vociare lontano di stadio ad un lento ed indistinto fruscio, simile a quello rapido ed interrotto che le lucertole emettono quando si spostano tra le foglie accatastate lungo il sentiero, quando sono alla ricerca di insetti.

E tra un intervallo e l'altro di tale brusio Verusckha avvertì ancora una volta lo strano indefinibile lamento che questa volta sembrava simile ad un leggero sibilo prodotto quando il vento attraversa le cataste di legna messa ad asciugare al sole ai bordi delle radure di faggio.

Poi risentì più vicino un leggero fruscio di frasche smosse e provò a sporgersi oltre i tronchi che formavano il ponte cercando di non provocare il benché minimo rumore o movimento brusco per evitare di farsi notare.

Fu così che le sembrò di intravedere, nella ragnatela di luci ed ombre che il sottobosco formava attraverso il filtraggio dei raggi del sole, una sagoma scivolare tra i tronchi di cerro: "Sarà una martora o uno scoiattolo", pensò.

Ma rimase abbastanza in dubbio perché quella sagoma che aveva intravisto le sembrava si muovesse eretta e, poi, le era parso portasse in testa una sorta di copricapo affusolato di colore verde, alla cui estremità ondeggiava un vaporoso pon‑pon di color rosso.

Nei giorni che seguirono Verusckha penso più volte alla strana apparizione e si ricordò anche dei racconti narrati più volte dalla nonna nelle lunghe serate invernali, seduti insieme ad altri bimbi, davanti al ciocco ardente che bruciava nel caminetto.

"Nei boschi" ‑ raccontava la nonna ‑ "una volta vivevano gli Elfi. Erano piccoli folletti buoni, che aiutavano le piante a non morire durante l'inverno. Quando la neve cadeva ed il freddo induriva il terreno, essi mantenevano tiepida la terra attorno alle radici delle piante ed aiutavano la linfa a scorrere, senza ghiacciarsi, all'interno dei tronchi e così gli alberi non morivano. In primavera, poi, assistevano i rami per permettere alle foglie di germogliare senza farsi del male. Sapevano anche medicare le piante quando un ramo si rompeva per l’azione del vento o quando i boscaioli ne tagliavano i tronchi per far legna. Gli Elfi intervenivano bloccando l’emorragia della linfa, deponendo sui rami spezzati un impasto miracoloso d'erbe e di argilla che allievava anche il dolore della pianta".

"Gli Elfi ‑ diceva la nonna ‑ non si fanno vedere perché hanno paura dell'uomo e ne temono la crudeltà. Essi sono dei minuscoli esseri sensibilissimi che rispettano la natura e soffrono quando assistono agli scempi compiuti dall’uomo al bosco ed alla montagna. Per questo sfuggono gli uomini e se ne stanno sempre nascosti senza farsi mai vedere. Animano il bosco soltanto quando non c’è più nessuno e quando non avvertono più alcun rumore. Solo un bimbo una volta ebbe la fortuna di incontrarli e di parlare con loro".

"Era un bimbo straordinario che amava la natura e gli animali. Attraversando il bosco soleva accarezzare le piante mentre gli passava vicino come fossero vecchi amici e fischiava ai cardellini che, saltando da un ramo all'altro, rispondevano al suo richiamo e lo accompagnavano per lunghi tratti. Passeggiava nel bosco badando a non calpestare o distruggere i nidi della formiche ed evitava anche di rompere le ragnatele tese dai ragni tra i rami nel bosco. Non recideva neppure un fiore e quando a primavera spuntavano le viole si chinava sulle ceppaie o sui grotti, sui quali fiorivano, per gustarne l’intenso profumo, ma non ne raccoglieva neppure una da portar via”.

A differenza degli altri bambini, che si divertivano a catturare ed imprigionare in scatole o sacchetti di plastica lucertole, cervi volanti, farfalle o altri insetti, egli rifiutava simili crudeltà e sovente aiutava anche le lumache intente ad attraversare la strada prelevandole delicatamente e deponendole ai bordi del sentiero per evitare che qualche mezzo in transito potesse schiacciarle.

"Gli Elfi l'avevano visto, ma soprattutto avevano compreso il grande rispetto che portava alla natura e si erano abituati alla sua presenza senza averne più timore. Così un giorno che discese in una scarpata per liberare un coniglietto selvatico che si era impigliato in una radice che affiorava dal torrente e che rischiava di morire annegato, il bimbo scivolò slogandosi una gamba. Forse sarebbe rimasto senza soccorsi per chissà quante ore prima che qualcuno potesse avvistarlo, anche perchè era orfano dei genitori e viveva con una vecchia nonna che riusciva a mala pena a contenere la sua vivacità. Ma gli Elfi spuntarono a centinaia dal bosco, e lo curano con degli unguenti miracolosi impastando erbe medicinali ed argilla, che solo loro sapevano preparare, ed in poche ore il bimbo fu in grado di tornare a casa dalla nonna, che era già in apprensione e lo stava cercando con l'aiuto di alcuni vicini".

Egli raccontò l'avventura vissuta e l'aiuto ricevuto dagli Elfi. Descrisse nei dettagli l'incontro avuto nel bosco e gli strani personaggi conosciuti ed i loro fantasiosi costumi. Descrisse nei minimi dettagli l’assistenza che gli avevano fornito e la lozione miracolosa di erbe e d’argilla con la quale l’avevano curato e che gli aveva permesso di poter nuovamente camminare. E per rafforzare la descrizione dei fatti, indicò i segni dell'incidente di cui conservava la cicatrice ancora fresca sulla gamba.

Ma nessuno gli credette anzi dai più fu anche preso in giro e minacciato di essere sculacciato se non la smetteva di raccontare stupide storie per  giustificare le sue scappatelle e le lunghe assenze da casa.

La nonna di Verusckha ripeteva sempre che, invece, lei aveva sempre creduto alle cose dette da quel bimbo  perché lei era convinta della reale esistenza degli Elfi e dell’opera da questi folletti per salvaguardare la natura. Era, inoltre, certa che gli Elfi potessero ancora scoprirsi soltanto a quei bimbi che avessero un grande rispetto per la natura ed un grande amore per tutti gli esseri viventi che popolavano il bosco.

Nei giorni successivi Verusckha ripensò più volte al racconto della nonna mentre si addentrava nel bosco ed un giorno che risentì di nuovo lo strano lamento, che gli aveva suscitato tanta curiosità, ma anche uno profondo sentimento di pietà e di tenerezza, si fermò e guardò attentamente nella fitta boscaglia: fu così che le parve di vedere tra le radici di una ceppaia di nocciuoli che erano cresciuti ai bordi di un grotto una piccola e goffa sagoma ripiegata su se stessa e provò ad avvicinarsi con la massima cautela.

Non era del tutto tranquilla anzi era pervasa da uno strano tremore, ma era fortemente animata a scoprire la natura di tale apparizione e le cause di quel lieve lamento, che divenne sempre più distinto e percepibile man mano che si avvicinava alla fonte di emissione.

Quando ne fu quasi a ridosso, si accorse che tra i rami e le frasche vi era una specie di anfratto dove notò uno strano esserino, alto poco più di un coniglietto, ripiegato su se stesso e coperto da una mantellina del color del mantello di un daino con in testa uno strano cappuccio verde che terminava con un pon‑pon vaporoso color rosso ripiegato su un lato.

"Tu sei un Elfo ‑ esclamò Verusckha cercando di nascondere in un mezzo sorriso il tremore che , comunque, la pervadeva ‑  ti ho riconosciuto, sai. Perché piangi?"

Il folletto si voltò lentamente ed asciugandosi il viso disse: "Tu sei buona! Ti abbiamo visto altre volte ed abbiamo sentito le tue parole che hai rivolto al vento. Abbiamo notato il tuo amore per la natura e la generosità del tuo animo e di te non abbiamo paura perchè sappiamo che tu non ci faresti mai del male e per questo di te possiamo fidarci".

"Siamo convinti che nessuno ti crederà se racconterai di questo nostro incontro anche perché l'animo dell'uomo è diventato troppo arido ed i sentimenti di bontà non albeggiano più nel suo cuore. Anche la fantasia, che un tempo lo aiutava a superare i momenti di difficoltà, in lui è morta e con essa è scomparso anche l’interesse dei bimbi verso il mistero armonioso della natura che si rinnova con il mutare delle stagioni e si è esaurito  l'amore per le altre creature viventi che popolano la terra".

"Senza questo amore la nostra esistenza è terribilmente in pericolo. Man mano che l’uomo distrugge i boschi, costruendo nuove strade asfaltate  e cementificando anche i vecchi sentieri, il nostro regno diventa sempre più piccolo ed è sempre più invaso dalle costruzioni, dall'immondizia, dai rumori e dai veleni degli scarichi velenosi delle automobili. L’uomo ormai lascia le tracce della sua presenza senza più alcun riguardo e senza alcun rispetto verso gli altri esseri viventi insudiciando ogni angolo del bosco e scaricando ogni sorta di materiale inquinante nei fiumi e nei torrenti; così facendo rende impossibile la vita dei pesci e nei fatti uccide anche tutti gli altri esseri che vivono nell’acqua e che, anche con la loro azione e cura, la rendono pulita ed utile per le attività stesse dell’uomo. Guardati attorno e vedrai il degrado di ogni cosa. Quando un tempo gli adulti avevano più rispetto per la natura ed educavano anche i loro figli a salvaguardarla, i bimbi credevano nella presenza dei folletti e nell’azione da noi svolta a difesa dell’ambiente. Noi eravamo felici perché ci sentivamo ricordati ed amati e sapevamo che tutti apprezzavano l’opera da noi svolta”.

"Ma oggi i boschi sono invasi da sacchetti di plastica e da lattine vuote abbandonate dappertutto e la gente accende i fuochi e si dimentica di spegnerli completamente. Questi si sviluppano, poi, bruciando un gran numero di piante ed anche i nidi con i piccoli degli uccelli, costruiti tra i rami, vengono distrutti dalle fiamme. Ma questa devastazione non risparmia neppure altre specie di animali indifesi, compresi quelli che vivono nelle tane scavate sotto i tronchi degli alberi, che perdono atrocemente la vita contribuendo a mettere in serio pericolo la riproduzione futura della loro specie".

"Anche i folletti del bosco subiscono le conseguenze di queste devastazioni. La nostra specie decresce sempre più e quelli che rimangono non riescono più a prestare sufficiente assistenza per salvare le piante e gli animali, per spegnere gli incendi e per tenere pulito il bosco. E più la gente ci dimentica, più i bimbi smettono di amarci, e maggiormente la mancanza del loro amore è per noi come un veleno che distrugge la nostra vita”.

"Soltanto pochi sono i bimbi che, come te, ci fanno vivere; ma il nostro numero si è ormai così miserevolmente ridotto che non riusciamo più a svolgere la nostra opera come un tempo, quando eravamo in tanti, ed il bosco era pieno di vita, di canti di uccellini e di fiori".

"Ecco, adesso penso avrai capito il motivo della mia malinconia. Ma tutto non è ancora perduto. Possiamo ancora salvare l'ambiente e la natura e tu potrai darci un grande aiuto per raggiungere questo obiettivo raccontando agli altri bambini quello che hai visto e le cose che oggi tu hai sentito. Gli adulti non ti crederanno ma tu adesso sai che gli Elfi esistono davvero nel bosco ed avrai potuto comprendere anche tutta la fatica che questi sostengono affinchè le bellezze che ci circondano non deperiscano ma ritornino più rigogliose di prima. Ma se gli adulti non crederanno alle cose che racconterai sicuramente sarai creduto dagli altri bimbi e così potrai, lentamente, contribuire con il tuo amore per le cose belle a far si che il degrado della natura si interrompa e che il bosco possa rinascere e ritornare pulito come un tempo”.

 “Nel momento in cui ritornerà nei cuori la bontà e gli animi diventeranno più sensibili anche gli Elfi ritorneranno in gran numero a vagare infaticabili nei boschi per aiutare i fiori a nascere a primavera e gli uccelli a nidificare in gran numero tra i rovi e sui rami degli alberi"

"Tu sai dove e come trovarci quando avrai bisogno di noi. Se, poi, chiuderai gli occhi e ci penserai intensamente noi ti saremo immediatamente vicini e vedrai che con il nostro aiuto potrai superare tutte quelle difficoltà che incontrerai per raggiungere questo obiettivo. Siamo convinti che riuscirai a trasmettere il tuo amore a tanti altri bambini che, come te, credono alla fine delle devastazioni nei boschi ed al ripristino dell’ordine naturale”.

Verusckha voleva dire qualcosa, ma una strozza d'angoscia le opprimeva il cuore. I suoi occhi si riempirono di lacrime, per la profonda tenerezza che provava e la vista gli si annebbiò non riuscendo più a vedere nulla attorno a se.

Quando si riprese e si asciugò gli occhi del folletto non c’era più traccia, ma avvertì in lontananza un rumoroso frusciare di frasche e le giunse l’eco di gioiose gridoline che si perdevano pian piano nel fitto del sottobosco che circonda la Fonte dell’Usignolo nel cuore dell’Appennino pistoiese.

                                                                                                                                                          (San Marcello Pistoiese 16.5.1999)

E-mail: arm.santoro@tiscali.it

 

Nota: Il torrente Occhiali esiste sul serio ed anche la Fonte dell’Usignolo, come esiste la protagonista del racconto, Verusca, che è la mia nipotina che frequenta la prima elementare ed esiste anche Ketty, che è la mia cagnetta.

 

 

IL VIALE

            I platani del viale dove abitualmente Francesco si recava a fare la sua breve passeggiata cominciavano a verdeggiare. L’inverno 1998-99 era stato molto rigido. Già a fine estate le prime stufe erano state accese ed in pratica l’autunno non si era fatto vedere. Anche la primavera aveva subito la stessa sceneggiata e ai primi di maggio occorreva ancora accendere i camini per scaldare un po’ l’ambiente di sera.

            “Sono stato a Pistoia stamani - raccontava un amico - ed ho sofferto il caldo. Ma qui da noi, in montagna, sembra sempre essere in pieno inverno e siamo già alla fine di Aprile”.

            In effetti, l’anno precedente, si era passati bruscamente dall’estate all’inverno. L’autunno non  si era visto e già in settembre le prime stufe erano state accese. Con il nuovo anno le cose non erano cambiate. Il 1999 anzi, sulla montagna pistoiese, era stato freddissimo, la neve era caduta più volte facendo la felicità degli appassionati che si recavano a sciare all’Abetone, e l’arrivo della primavera aveva sì mitigato il clima ma non al punto di non aver bisogno di intiepidire gli ambienti sia al mattino che la sera. Era passato da qualche giorno il primo maggio ma il cielo era ancora coperto e non prometteva  nulla di buono.

            Questi erano anche i commenti che Francesco brontolava tra sé mentre percorreva il viale dove abitualmente faceva quattro passi al mattino ed al pomeriggio, pioggia permettendo.

            Il viale di cui parlo esiste davvero ed è a Maresca, una frazione del Comune di San Marcello Pistoiese. Maresca è una località turistica, molto frequentata, soprattutto in estate, dai pianigiani (così i montanini chiamano gli abitanti di Firenze, Pistoia o Prato e degli altri comuni della pianura ai piedi dell’appennino tosco-emiliano). Questi si riversano a frotte in questa località che garantisce, nel periodo estivo, condizioni climatiche eccellenti e distensive passeggiate nella sua rigogliosa Foresta del Teso o percorrendo i sentieri che conducono soprattutto al Lago Scaffaiolo ed alle altre località di montagna, attrezzate con impianti di risalita che permettono agli amanti dello ski di praticare questo sport nel periodo invernale.

            La neve copriva ancora le alte cime che sovrastano la Foresta del Teso  ed è ancor’oggi ben visibile anche da Campo Tizzoro, un’altra frazione distante qualche chilometro da Maresca, contribuendo in una certa misura a mantenere l’aria ancora frizzante.

             Francesco aveva compiuto 86 anni il 5 maggio. La sua vita non era stata tra le più facili. Si era sorbito tutte le guerre che dal 1936 al 1943 l’Italia aveva vissuto. Da giovane, ancora prima di sposarsi, era stato in Africa Orientale, poi in Somalia e in Eritrea. Inviato in congedo, fu di nuovo  richiamato sorbendosi anche le campagne di Grecia e di Albania. E dopo l’armistizio del 1943, mentre era in Montenegro, piuttosto che andare con i tedeschi preferì andare con i partigiani di Tito.

            Raccontava poco di quello che aveva dovuto sopportare. Ma ogni tanto qualcosa gli sfuggiva e si vedeva chiaramente che non voleva ricordare o che, comunque, cercava di non ricordare.

            “Ma in Montenegro, per mangiare, come facevi nonno”, ogni tanto gli chiedeva il nipote.

            “Ci si arrangiava” - rispondeva. “Alle volte si trovava qualche capra, si uccideva e si mangiava cruda”.

            “Cruda?” - esclamava meravigliato il nipote.

            “E si, cruda! Non potevamo mica accendere il  fuoco per cucinarla, altrimenti avremmo fatto fumo ed i tedeschi ci avrebbero individuato ed ucciso”.

            “E le altre volte?” - incalzava il nipote.

            “Altre volte bussavamo ai casolari dei contadini che ci rifocillavano alla meglio. Ma non sempre erano accoglienti e spesso ci puntavano contro i fucili. Tante volte siamo stati costretti a minacciare anche noi con le nostre armi per poterci fare consegnare qualcosa da mangiare e poter sopravvivere”.

            “E caro il mio bimbo - aggiungeva - la guerra è una brutta bestia. L’uomo diventa peggio di un animale. Anzi gli animali sono certamente sempre migliori di noi uomini perché loro uccidono per sopravvivere. L’uomo uccide tante volte anche per crudeltà, per sadismo. E la guerra fa diventare cattivi e sadici anche le persone più miti e più buone. Le guerre non bisognerebbe mai farle. Non finiscono mai e quando finiscono la gente sopravvissuta spesso vive per vendicarsi e l’odio crea nuovo odio e nuove violenze”.

            Era in pensione da oltre venticinque anni e da quasi 15 anni era rimasto vedovo.

            La moglie l’aveva conosciuta in quel viale tanti anni prima che più non ricordava quanti.

            Gli sembrava che il tempo gli era passato tutto insieme. Eppure nelle lunghe e torride giornate estive laggiù, in Africa Orientale, il tempo non passava mai ed il desiderio di tornare a casa gli consumava l’animo.

            Rivedere la sua sposa, i due figli lontani, provare la gioia delle loro carezze o sentire il loro pianto era una costante di tutte le sue giornate passate lontano dagli affetti suoi cari.

            E quando questa felicità l’aveva rigustata, il tempo era volato via. E con il tempo anche la sua famiglia era volata via. Prima il figlio si era trasferito per lavoro lontano da casa e poi aveva messo su famiglia e veniva solo per le vacanze. Poi la figlia. Anche lei andata via per lavoro e poi anche lei sposata. Poi era andato in pensione. Pensava di avere più tempo così per andare a trovare i suoi figli e godersi i nipotini ed invece la moglie si ammala e nel giro di qualche anno resta solo.

            Era andato qualche volta a vivere con i suoi figli. Ma si era accorto che non si adattava e non era a suo agio in casa altrui. Nessuno gli poteva dare l’attenzione di cui avrebbe avuto bisogno: Parlare, ricordare, essere anche confortato o commiserato.

            I figli erano sempre in continua agitazione. La sveglia, accudire i nipoti, il lavoro, la spesa e la sera la televisione. Di tempo per parlare non ce n’era. Lui usciva per il paese, solo. Non conosceva nessuno ed aveva difficoltà di inserimento. Se per caso febricitava un pochino aveva un terrore d’andare a finire in ospedale.

            “Se vado in ospedale muoio” - diceva ai suoi figli.

            Questi ridevano ed ironizzavano, anche per sdrammatizzare, dicendogli che non sarebbe morto perché era una pellaccia e gli ricordavano anche che una persona come lui, che aveva affrontato tante avversità e tanti disagi in guerra, non poteva scoraggiarsi per così poco e poi in tempo di pace.

            Ma lui voleva tornare al suo paese, tra la gente che conosceva, con la quale poteva chiacchierare ed essere capito. E poi finiva per farsi accompagnare alla stazione, prendeva il treno ed era felice appena vedeva le sue montagne ed i tetti delle case del paese.

            Se avanzava tempo ed era ancora giorno, usciva ed andava a fare quattro passi nel solito viale dove gli sembrava di respirare l’aria più buona del mondo.

            Era, in fondo, un viale lungo forse centocinquanta metri, circondato da due filari di platani, dove l’amministrazione comunale aveva sistemato cinque panchine che ogni anno venivano riverniciate in rosso.

            Quando sua moglie era ancora in vita andava con lei  a fare delle passeggiate su e giù per quel viale, dopo il pisolino pomeridiano. Sovente incontravano degli amici, loro coetanei, o parenti e scambiavano qualche parola o ascoltavano qualche malignità su questo o quell’abitante del paese.

            Quando rimase solo continuò a fare delle passeggiate, ma preferiva andarci spesso anche alle ore più strane, quando era sicuro di non trovar nessuno.

            Cercava la tranquillità soprattutto in certi momenti di sconforto. Allora si sedeva alla solita panchina, la penultima del viale, e cominciava a pensare intensamente. E con il pensiero iniziava anche una fitta conversazione con la moglie scomparsa, e le  raccontava tutte le difficoltà che incontrava o gli avvenimenti del giorno che gli sembravano più interessanti. La conversazione finiva sempre con un groppo alla gola e si scioglieva immancabilmente in lacrime.

            Poi si rasserenava, si asciugava gli occhi e si sentiva più tranquillo. Si alzava e si avviava verso casa. E se incontrava un amico aveva sempre una battuta pronta quasi a nascondere l’angoscia che gli rodeva dentro.

            Negli ultimi anni poi, si sentiva abbastanza stanco e spesso non arrivava più neppure in fondo al viale. Si fermava alla prima panchina, poi si alzava e continuava la passeggiata, ma difficilmente oltrepassava la quarta panchina dove si fermava, si sedeva ed ascoltava il richiamo dei merli ed il canto degli usignoli.

            All’inizio di maggio il viale era ancora poco frequentato e spesso, restando immobile seduto sulla panchina, non era raro veder apparire qualche famigliola di cinghiali che si aggiravano nei pressi alla ricerca di tuberi o vermi con cui nutrirsi. I piccoli erano i più coraggiosi (o i più incoscienti). Spesso gli si avvicinavano a qualche metro e scappavano impauriti grugnendo soltanto nel momento in cui Francesco non riuscendo più a restare immobile era costretto a fare qualche movimento  agli arti intorpiditi dall’immobilità.

            Spesso arrivava vicino anche qualche daino. Sulla montagna Pistoiese ve ne sono tanti in libertà che godono anche una particolare protezione faunistica. Per questo si portava dietro un po’ di sale che ogni tanto lasciava vicino ad uno dei tronchi di un platino. I daini ne andavano ghiotti e, forse, avevano anche abbinato la presenza del sale con l’arrivo di Francesco. Infatti sovente non tardavano a farsi vivi dopo qualche tempo che lui si era seduto nella solita panchina.

            Tutte queste piccole situazioni erano motivo di gioia e gli consentivano una salutare distrazione che gli allontanava dal cervello i pensieri che più l’opprimevano.

            Il cinque maggio era passato da qualche giorno. I figli gli avevano telefonato per fargli gli auguri. Lì per lì non aveva neppure capito il motivo di tali auguri. Poi ricordò e comprese che il tempo gli aveva regalato ancora  un anno di vita. Si guardò allo specchio e si vide sempre uguale. Quasi fosse ancora un ragazzo. Gli sembrava strano di aver compiuto 86 anni ed era altrettanto strana quella sensazione che provava di staticità del tempo, come se gli anni non fossero tanti, come se tutto fosse un sogno dal quale, da un momento all’altro, si sarebbe svegliato e forse si sarebbe ritrovato magari sulle dune cocenti, laggiù, nelle lande desolate dell’Africa Orientale.

            Guardò alcune foto appese alla parete. Una di queste gliela aveva inviata suo figlio elaborandola sul computer da una vecchia foto sbiadita del 1936, militare in Africa Orientale, insieme ad un gruppo di suoi commilitoni.

            “1936 “ - pensò - “un abisso di lontananza”. Ed aprì la finestra aspirando una boccata d’aria fresca che gli riempì i polmoni come se davvero sentisse addosso ancora la cappa torrida del deserto africano.

            Guardò la foto, nuovamente, con intensità. Si guardò nello specchio. Strano ma avvertiva la sensazione che quei capelli bianchi, quel volto rugoso, quelle mani tremanti, quegli occhi lucidi non fossero suoi e che lui fosse sempre quello che appariva in quella foto del 1936.

            “Accidenti - disse - devo buttar via queste cartacce. Mi opprimono il cuore”.

            Si accorgeva in effetti di essere vecchio, ma esorcizzava la realtà rifiutando di ammettere che il tempo era passato. E  forse rifiutava anche di vedere passare il tempo.

            Riguardava quella foto con intensità, cercando i particolari più strani. I sassi accatastati attorno alla tenda, i panni stesi ad asciugare, un fiasco di vino vuoto abbandonato in un angolo, il tavolo fatto con assi trovati chissà dove e le panche di legno costruiti artigianalmente. Cercava di riscoprire i visi dei suoi camerati. Visi assenti, lontani, non più visti. E provava ad immaginarsi intensamente che fine avessero potuto fare, se fossero ancora in vita, se anche loro in quel momento stessero pensando a lui o si ricordassero della loro giovane età buttata tra i sassi dell’Eritrea o della Somalia a combattere una guerra senza speranza contro un popolo che a loro non aveva proprio fatto nulla.

            Si ricordava le parole di una vecchia in uno dei pochi giorni di congedo avuti durante le campagne africane:” Quel povero Negus l’abbiamo buttato fuori di casa sua. Verrà tempo che qualcuno butterà noi fuori dalle nostre case. Ed il conto non lo pagherà Mussolini, ma lo pagheremo noi”.

            Parole gravi per quel tempo. Se un soldato le avesse allora pronunciate avrebbe rischiato la corte marziale. Se un civile fosse stato ascoltato avrebbe richiato il confino. Il mondo andava così allora e tutti erano contenti e felici di aver conquistato l’Impero mentre al Sud mancava tutto, le strade, le case e l’acqua e la luce nelle case, e la popolazione per sopravvivere era costretta ad emigrare in America.

            Francesco pensava e ripensava gli avvenimenti passati. I pensieri era l’unica cosa di cui abbondava e spesso erano causa di profonda sofferenza interiore.

            Un paio di giorni dopo il compimento dell’ottantaseiesimo anno, dopo una notte agitata si era svegliato abbastanza presto al mattino. Si era affacciato a prova sull’uscio per verificare le condizioni del tempo. La giornata era discreta ma il freddo non accennava a diminuire. Si coprì abbondantemente ed uscì di casa. Prima si recò a comprare il giornale e con il rivenditore fece un commento positivo leggendo i titoli sulla possibilità di pace con la Serbia, che stava subendo i bombardamenti della Nato.

            “E, figlioli - disse - la guerra è una brutta bestia. Fatevelo dire da chi ne ha viste da vicino tante. E poi questa non mi è andata proprio giù. Mi ha creato un’angoscia profonda perché non lo immaginavo proprio che un popolo socialista come la Serbia si potesse macchiare di tante atrocità con il popolo del Kosovo che appartiene alla stessa nazione. Tutti coloro che, come me, hanno creduto nella grande umanità del socialismo, ad assistere in  televisione alle barbarie commesse dai serbi,  è come se il mondo ci fosse caduto addosso”.

            Questa frase l’aveva ripetuta più volte ed ormai il giornalaio non ci faceva più caso ed annuiva con sconsolata rassegnazione.

            Poi si avviò lentamente a fare la solita,  breve passeggiata. Il viale era deserto. L’ora, ma soprattutto il tempo, non invogliava la gente ad uscire di casa.

            Ma Francesco quella mattina sentiva proprio il bisogno di una boccata d’aria all’aperto.

            Si fermò estasiato ad ascoltare il canto degli uccelli.

            “Ma senti come gorgheggiano gli usignoli stamani - commentò -. Saranno tutti in amore o stanno preparando il nido. Certamente il tempo volgerà  al meglio”.

             Si sedette alla solita panchina e rimase immobile. Dopo una diecina di minuti senti un rumore di frasche proveniente dal bosco retrostante. Un bel daino si affacciò sulla radura, ma il gracchiare di un corvo che si era levato in volo al suo arrivo lo impaurì e scomparve di nuovo di corsa nel fondo del bosco.

            Aprì il giornale e scorse alcuni titoli: si fermo più a lungo a leggere la cronaca locale. Si incavolò non poco sui servizi giornalistici che parlavano di tasse e di pensioni e, poi,  senza accorgersene reclinò la testa sul giornale e, forse per la stanchezza non smaltita per la nottataccia trascorsa quasi da sveglio, si addormentò mentre il giornale gli scivolava sulle gambe.

            Sognò la moglie. E la rivide giovane, come quando la osservava, ammiccando tra le piante del viale, restare lunghe ore a giocare in compagnia delle sue amiche. Ripensò ai suoi capelli biondi, un po’ arruffati,  sparsi sulle spalle, e che ogni tanto allontanava con la mano quando il vento glieli spargeva davanti agli occhi. Gli sembrava che gli dicesse qualcosa ma lui non riusciva a comprendere le parole e nel sonno cercava di sforzarsi per fargliele ripetere.

            Da qualche minuto sul viale stava passeggiando con un piccolo cagnolino una donna anziana, dai capelli bianchi e con un vestito rosso. Gli passò vicino e sul momento si era preoccupata di Francesco pensando ad un malore. Si accorse, invece, che dormiva e non si preoccupo’ di svegliarlo, allontanandosi con il cagnolino al guinzaglio verso il fondo del viale.

            Continuava a sognare la moglie che lo chiamava da lontano. Lui si affannava a risponderle ma non riusciva a far uscire la voce dalla gola. Provava ad alzarsi ma non riusciva a sollevarsi dalla panchina. Avvertiva un senso di impotenza e cercava con tutte le sue forze di farsi sentire e di correre incontro alla moglie.

            L’angoscia lo svegliò d’un colpo. Guardò in giro e vide la donna del cagnolino in fondo al viale che si allontanava sempre più.

            Quel vestito rosso, indossato più volte dalla moglie, e quei capelli bianchi, che in lontananza sembravano biondi, gli diedero l’illusione che realmente la moglie gli fosse stata vicina e che, dopo averlo inutilmente chiamato, si stesse allontanando.

            Si alzò barcollando dalla panchina cercando inutilmente di correre dietro quella lontana figura di donna,  ma non riuscì neppure a muovere un passo. Provò a chiamare: ”Alma, Alma”, ma dalla gola gli uscì un rauco bisbiglio che si spense insieme alla disperazione che l’aveva tutto invaso. Ricadde sulla panchina, con la mano tesa verso il fondo del viale, e mentre cercava inutilmente di lanciare un ultimo richiamo la vita gli sfuggì dal corpo, quasi lanciata dietro la fantomatica figura che ormai si era dissolta nel nulla.

            Lo trovarono alcune ore dopo seduto sulla panchina, con la testa reclinata in avanti, con gli occhiali ancora inforcati ed il giornale stretto tra le mani.

            Sembrava riposasse sorridente, quasi appagato da un desiderio ormai esaudito, circondato dal cinguettio dei passeri e dal canto melodioso dei merli e degli usignoli .

 

                                                                                                            Santoro Salvatore Armando

                                     (Campo Tizzoro 07/05/99 19.10)

 

 

 

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