Salvatore Armando Santoro 1-2
Note biografiche - Recensioni - Le sue poesie
Dopo
tanti anni ch'ero andato via, conservando vaghi ricordi di
Polistena, un grosso centro della Provincia di Reggio Calabria
situato nella Piana della Corona, così ancora oggi chiamata in quanto
appartenne per diversi secoli prima della spedizione dei Mille al Regno
di Napoli, vi ritornai un giorno per i miei impegni nel sindacato. A
Polistena avevo vissuto, circa sette o otto anni da bambino, nel periodo
dell'ultima guerra; poi, la mia famiglia si era di nuovo trasferita nel
Capoluogo, mia città natale. A
Gioia Tauro fui costretto a cambiare treno in quanto la tratta era
servita da una società
privata, la Calabro-Lucana, che da data immemorabile gestiva il servizio
e, penso, lo gestisca ancor oggi. Poche cose erano cambiate da quando
ero bambino se non quelle vetture sempre più logore e sempre più
consunte, e lo sferragliare della littorina, che lenta ansava lungo il
costone che da Gioia Tauro sale fino a San Giorgio Morgeto per
proseguire per Polistena e finire, poi, a Cinquefrondi. Quello
sferragliare mi riportava alla memoria i ricordi dei guerrieri
medioevali dei vecchi films in bianco e nero, che rivedevo più volte da
bambino, con le loto corazze ormai logore e arrugginite. A
Cinquefrondi la Calabro-Lucana arrivava al capolinea, ma io non ricordo
di esserci mai arrivato, in quanto ci si fermava sempre alla stazione
precedente, quella di Polistena, patria di artisti anche famosi, dove la
mia famiglia risiedette per quasi un decennio per motivi di lavoro. In
questo centro frequentai le scuole elementari fino alla terza, che non
potrei concludere perché in quel periodo i tedeschi in ritirata, prima,
e gli alleati in arrivo, dopo, avevano occupato la scuola trasformandola
in ricovero per le truppe e per gli ufficiali. Quel
nome di Calabro-Lucana, sentito ripetere tante volte da mia madre,
rievocava nei miei pensieri reconditi immagini di viaggi sempre
desiderati e mai potuti fare. Spesso mi fermavo incantato, da bambino, a
veder passare quelle vetture, allora trainate da una vaporiera, presso
un passaggio a livello appena fuori dell'abitato di Polistena. Ricordo
sempre quello strano cartello piazzato in prossimità di un passaggio a
livello incustodito con la scritta "Aktung" che non sapevo
cosa volesse significare e cosa ci stesse a fare in quel posto. Per me
quel cartello, con un teschio di morte vicino, richiamava antiche
leggende e lugubri storie della mia infanzia che mia madre spesso ci
raccontava, seduti attorno ad un braciere, nelle lunghe notti d'inverno,
in quelle bigie stanze del Vico Trieste di Polistena, illuminate da una
lampada ad olio scoppiettante o da un lume a petrolio. E
quanti sogni avevo legato a quel treno, quanti fantastici viaggi avevo
immaginato seduto immobile con altri compagni di giochi lungo la
scarpata di quella ferrovia nelle interminabili giornate estive del sud.
Quei volti, oggi assenti ed indecifrabili, mi si sono affacciati per
anni nella memoria ed ho sempre cercato di ricostruirli scrutando
qualche rara e vecchia fotografia di classe di quel tempo. Ma l’unico
ricordo che vive dentro di me è legato alla gioia che si provava a far
girare all'infinito la transenna rotativa collocata a fianco del
passaggio a livello che permetteva il passaggio dei pedoni oltre la
massicciata della ferrovia. Quante
volte mi illudevo di andare lontano, di attraversare fiumi e mari e
poter vedere posti
fantastici, forse dando corpo alle favole materne, e ritornare un
giorno, dopo aver fatto fortuna, indossando vestiti lussuosi e poter
comprare una casa con tutte le comodità e con l'acqua in casa e
permettere a mia madre di non patire più la fame e il freddo che la
guerra ci aveva regalato a piene mani. Seduto
su quei vecchi sedili di legno, colorati dalle scritte piccanti degli
studenti, ogni tanto venivo sbatacchiato da uno scomposto scotimento
della vecchia vettura e lo stridio delle ruote d'acciaio che scorrevano
sopra le logore rotaie, lanciavano intorno nugoli di scintille
incandescenti che mi scuotevano dai miei pensieri riportandomi alla
visione degli ulivi, che fuggivano come giganti immensi per la campagna,
mentre le pecore al pascolo lungo la massicciata, ormai invasa dai rovi,
si sbandavano spaventate. Attraversava
la littorina i vecchi ponti tesi sui burroni e la scarna acqua che
scorreva in fondo alla scoscesa riva mi faceva rivivere gli instanti di
paura che da bambino provavo le poche volte che
con mia madre si intraprendeva qualche raro viaggio per recarci a
Reggio in visita ai parenti, negli anni in cui mio padre era richiamato
da militare nelle campagne di Africa Orientale o di Grecia. Mi
ricordo ancora che non avevo il coraggio di guardar fuori dai finestrini
in quei tratti così scoscesi, e ad ogni scuotimento della vettura,
dicevo qualche orazione quasi a scongiurare la possibilità che il treno
precipitasse in fondo al burrone. Quella
paura riaffiora inconsapevolmente tuttora rimossa dall’inconscio in
cui giace. Ed ogni tanto osservo con una malcelata apprensione la
littorina attraversare quei ponti, sprovvisti di protezione o ringhiera, sospesi tra due dirupi scoscesi. Scorrono
immagini di stazioni deserte, dove lucertole e rovi la fanno da padroni.
E ritornano alla mente quelle folle immense che assaltavano i rari treni
nel corso dell’ultimo conflitto, quando i ponti sul fiume Pedace erano
stati fatti saltare dai tedeschi in ritirata per rallentare l'avanzata
degli alleati. E rivivo anche i miei momenti di terrore e i miei urli di
disperazione quando mia madre si faceva largo a gran forza per prender
posto su uno di quei carri in genere usato per il trasporto del bestiame
che, in mancanza di vetture normali, veniva utilizzato anche per il
trasporto delle persone.. E quelle stazioni, oggi deserte e silenziose,
dove non avrei mai più
pensato di poter ritornare, fermentavano allora
di vita, di commercianti d'ogni genere, di operai. Quelle
folle in agitazione e gli assalti dei viaggiatori per occupare un posto
qualsiasi mi facevano per certi versi sorridere ripensando alle proteste
odierne contro l’organizzazione delle ferrovie in certi periodi
dell’anno quando bisogna rassegnarsi all’affollamento dei treni che,
comunque, non è minimamente paragonabile ai disagi che si dovettero
sopportare in quei tempi viaggiando al buio su vagoni sgangherati, senza
servizi ed in condizioni inumane di sovraffollamento. Un tempo tali
situazioni furono vissute senza alcuna protesta; anzi,
spesso, si era costretti a restare per lunghe ore in piedi per
mancanza di posti e ricordo la disperazione di mia madre, con due bimbi
tenuti per mano che piagnucolavano perché erano stanchi di restare in
piedi ed abbastanza pesanti per essere tenuti in braccio. E grazie
ancora che, in quei tempi,
il senso di solidarietà di qualche viaggiatore, anche meno zoticone
degli altri, aveva il
sopravvento sull’indifferenza di tanti altri e, ogni tanto, lasciava
il posto a mia madre con i suoi bambini
per farci riposare e rinfrancare
con un po' di riposo e di sonno. Io,
comunque, quando potevo me ne stavo sempre lì, con il naso incollato ai
finestrini, e non mi sfuggiva mai nulla, anche i sassi agli angoli dei
ponti e nelle stazioni riuscivo a contare e ricordare. Anche
per questo in tutti questi
anni sembra non sia accaduto nulla, vedo quei sassi
sempre fermi al solito posto: solo i rovi aumentano e le stazioni
vuote con i cartelli bombardati dai colpi di lupara che ogni tanto ti
offrono un senso di desolazione
e dell'abbandono di Dio e degli uomini per questi paesi del Sud. Per
chi ha potuto assistere a tanti tristi avvenimenti, per chi ha vissuto
certi momenti che sono stati tremendi e disperati, anche se si era molto giovani per poter
comprendere fino in fondo il grado di povertà che ci circondava,
il rivedere a distanza di anni certi paesaggi e rigustare ancora l'odore
della paglia secca, che profuma di buono appena qualcuno ci passa sopra
con gli scarponi grossi, il riascoltare i trilli dei grilli e quel
concerto sempre uguale, interminabile, e per certi versi monotono, dello
stridore delle cicale sotto il sole rovente dell'estate calabrese,
si riprova un senso di gioia che ti prende la gola, come un
malessere vissuto, dal quale si è riusciti ad uscirne fuori, ma che per
un senso di strano masochismo se ne avverte a tutt’oggi la mancanza e
vorresti rivivere quei momenti per poter capire fino in fondo la realtà
di quel lontano periodo storico. Non
riesco neppure ad immaginare quale reazione potrei avere a
rivivere, a distanza di tempo ed in condizioni profondamente diverse,
certi momenti di vita e certe situazioni del passato. Sicuramente penso
che se quei momenti potessero essere proiettati su uno schermo sbiadito
dal tempo le emozioni sarebbero profonde ma credo che le situazioni
sarebbero vissute come fatti che non ti sono mai appartenuti. L'incantesimo
di quei momenti, di cui oggi avverti la mancanza e che sono legati ai
tuoi ricordi di bambino ed al tuo vissuto reale, forse si desidererebbe
riviverli veramente per riprovare interamente gioie e sofferenze e poter
ritrovare affetti e sentimenti dimenticati, che non sembrano poi così
lontani, e poter capire fino in fondo il sacrificio fatto da altri per
farti crescere. Solo così, forse, si riuscirebbe ad
approfondire il senso di alcune frasi di mia madre, ripetute più
volte, e che oggi riesco
meglio ad apprezzare nella loro interezza grazie alle mutate condizioni
sociali di gran parte di quei nuclei
familiari che si aguravano, in quel tempo,
la fine delle sciagure in cui era stata coinvolta un'intera
generazione e che speravano che un giorno i propri figli non dovessero
più rivivere drammi e situazioni di quella portata. Speranze
vane perché poi i figli crescono e sono costretti, soprattutto al sud,
di andare a cercare lavoro altrove. E la speranza iniziale di tornare
diventa poi con il passare degli anni sempre più remota ed irreale. Così
i figli vanno via è vero, e generalmente migliorano anche le loro
condizioni di vita, ma le madri rimangono con la
certezza del loro ritorno, che ogni anno si indebolisce sempre più e rimangono con le mani vuote a sperare in una riunificazione
impossibile della vecchia famiglia e dei vecchi valori. Ricordare
quel viaggio in treno di quasi quarant'anni or sono lascia un senso di
vuoto e di tristezza nel cuore anche perché oggi, che mia madre non c'è
più, è subentrata la
certezza che quei ricordi non possono essere neppure addolciti dalla
presenza di un testimone dei tempi che potrebbe meglio di chiunque altro
comprendere i miei momenti di disagio o di gioia e darmi la forza per
superare le difficoltà o meglio gioire nelle soddisfazioni. Così
ti accorgi che il tempo, è vero, sei riuscito a fermarlo
in un preciso momento della tua vita, e lo sogni ancora libero da
impegni e da affanni con una speranza di ritorno a casa la sera
successiva; ma ti accorgi anche che lo specchio dov'è riflessa la tua
immagine è, invece, una galleria infinita di specchi che riflettono
situazioni sempre più capovolte una rispetto all'altra anche se poi
alle fine sono identiche, ma risultano collocate a distanze sempre
maggiori l'una dall'altra senza possibilità di passare dall'ultima
immagine alla prima con l'aprire od il socchiudere di una porta. Ti
rimangono così in cuore gli ultimi flash di un viaggio non recente con
la visione di quel corteo di vecchie con in testa le "quartare"
(*) piene d'acqua: fantasmi ondeggianti che si inerpicano sui fianchi
della montagna e che spariscono poi negli anfratti coperti da siepi di
more e biancospini, dove i merli nidificano ancora
e le serpi continuano a portar via le uova dell'ultima nidiata. Immagini
di donne uguali a quelle di quarant'anni prima, sempre immutabili nei
loro veli neri per un parente morto o ucciso per sbaglio. Ed
ai ricordi si aggiunge la consapevolezza che in questi posti, purtroppo,
la storia sembra essere immutabile: la gente continua sempre, ancora
oggi, a piangere per qualcuno o per qualcosa. Santoro
Salvatore Armando
(Campo
Tizzoro 15.4.1998) (*)
- Otri di argilla
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Dopo
tanti anni di assenza ritornai nella mia città. Mio
padre quando era andato in pensione si era trasferito in Puglia nel suo
paese di origine. Mia madre l’aveva dovuto seguire ma non con troppo
entusiasmo, anche perché era molto legata alla casa dove era nata ed a
tutti i ricordi d'infanzia ed agli effetti che essa rappresentava. Dopo
la morte di mia madre la casa era stata venduta e, quindi, le occasioni
di ritornare nella mia città si erano ridotte a zero. E
poi a fare cosa? Quando una persona si trasferisce ad oltre 1200
chilometri dalla terra dove è nato con il tempo dimentica ogni cosa;
appena rimane l'affezione, una piccolissima radice che di tanto in tanto
ti fornisce un po' di linfa che alimenta i ricordi di una fanciullezza
spensierata anche se vissuta in un periodo non certamente facile come
quello dell'immediato dopo guerra con la battaglia giornaliera per la
sopravvivenza. Tornare
a Reggio, rivedere la mia casa senza più mia madre, sapere che quelle
stanze, dove avevano vissuto anche i miei nonni ed i miei zii, adesso
erano abitate da gente estranea ed insensibile ai miei sentimenti, era
una cosa insopportabile e, pertanto, avevo rinunciato per lunghi anni a non più rivederla; preferivo così sentirla ancora mia perlomeno nella memoria. Eppure
la città dove ero nato l’avevo sempre amata intensamente. Ma tutte le
volte che vi ero arrivato, il degrado urbano a cui avevo assistito, le
difficoltà di circolazione e l'immensa confusione che la pervadevano,
ed alla quale non ero più abituato, mi davano un senso di profonda
oppressione ed un bisogno, quasi immediato, dopo poche ore che ero sceso
dal treno, di ritornarmene da dove ero arrivato.
Preferivo
restarmene lontano e sognarmela così come l'avevo lasciata tanti anni
prima, con le strade ordinate e pulite e con le donne del mio rione che
tutte le mattine rassettavano e lavavano abbondantemente le corti
antistanti le loro abitazioni dove, per godere della frescura nelle
serate estive, sedevano e pettegolavano sugli avvenimenti della giornata
e sui fatti del rione. E
così preferivo ricordarmi la mia casa, con la sua vista un tempo totale
sullo Stretto di Messina, e mi rivedevo bambino, con un piccolo binocolo
da teatro, osservare le navi solcare il mare davanti l'Etna innevata, o
fumante per le periodiche eruzioni, e li seguivo fino alla loro
scomparsa al di là dello stretto oltre la punta di Ganzirri. Ma
dopo tanti anni eccomi ancora qui, ancora una volta a riprovare la
solita delusione di ritrovare una città sempre più degradata, assalito
dalla voglia di ritornarmene via al più presto possibile da dove ero
arrivato. “Non
so se ritornerò ancora - pensavo dentro di me - può darsi che questa
volta sia davvero l’ultima”. Questa
convinzione mi aiutava a reprimere il disgusto che mi pervadeva. Il mio
viaggio voleva essere un ritorno nel passato, un tentativo ultimo di
ricostruzione di tanti ricordi che periodicamente mi ritornavano alla
mente anche se i volti che incontravo per strada appartenevano a persone
sconosciute che non mi ricordavano più nulla. Solo
passeggiando per i viali del cimitero, dove mi sono recato per ricercare
le immagini di persone ormai abissalmente lontane dalla mia memoria,
spero di ritrovare elementi che mi possano aiutare a ricostruire i miei
ricordi di infanzia. Una necessità avvertita a livello inconscio forse
per ritrovare attimi di vita dimenticata attraverso i volti dei morti
che mi guardano dalle lapidi, incorniciati di fiori e di lumini accesi. Un
bisogno strano a sessant'anni, ma forse la consapevolezza che la morte
può arrivare d'un tratto senza aver tentato di ricostruire per un
attimo le radici perdute. Una esigenza indicibile di riscoprire affetti
persi, ignoti a coloro che vivono la realtà quotidiana senza porsi
tante domande. Una necessità di risentirmi attorniato da un mondo di
personaggi che d'un tratto mi ritornano vivi, con tutti i ricordi che
conservo nel cuore, che mi riportano indietro nel tempo come se dalla
mia città non mi fossi mai allontanato. Una possibilità di ritrovare
gli antichi valori, i forti legami di solidarietà che univano tanta
gente, che non si sentiva
mai sola e che sapeva, nei momenti di difficoltà e di bisogno, di poter
contare sempre su qualcuno. Ed era anche un legame che univa tanti al
rispetto delle cose belle che avevamo intorno a noi, rispetto che oggi,
invece, è stato completamente cancellato. Il
cimitero è oggi immenso se rapportato alla vastità che avvertivo
attorno a me quelle volte
che da bambino andavo con mia madre a deporre i fiori sulla tomba di mio
nonno, di cui conservo ormai un vago e lontano ricordo. Vedo
affacciate alle lapidi visi mai conosciuti, tanti a dire il vero e forse
tanti altri dimenticati. Ma lentamente le immagini recuperano i vecchi
contorni. Volti scomparsi nel silenzio del tempo improvvisamente
ritornano come diapositive proiettate sullo schermo della memoria e mi
ritrovo tra loro, nelle tante serate delle vacanze scolastiche
natalizie, a giocare interminabili partite a carte attorno ad un tavolo
pieno di ragazzi vocianti e rumorosi. Provo
un batticuore strano e quei volti, sembrano fissarmi intensamente e
sembra vogliano dirmi qualcosa. Li immagino
tutti allineati, quasi giudici a rimproverarmi d'averli
abbandonati, di averli ignorati per tanti anni e d'essere andato a fare
altrove le cose che era necessario che io avessi fatto per la mia città. Mi
sento inseguito da quegli sguardi mentre affretto il passo tra le lapide
e mi sembra che quegli sguardi d'un tratto non siano più sorridenti, ma
torvi e minacciosi. Vivo
una situazione di insicurezza ed un
disagio immenso mi opprime. Ma
d'un tratto su una di quelle lapidi vedo un volto che mi sembra di
ricordare. Poi leggo un nome che mi fa dare un balzo al cuore: Cucinotta
Paolo. . D’un
colpo mi ritrovo seduto sui banchi di una scuola elementare attorniato
da tanti ragazzi chiassosi. E rivedo il mio vecchio maestro, che adesso
mi sorride dalla lapide. Non mi sembra cambiato. Sempre con la sua
calvizie incipiente, sempre con quel sorriso di eterno bambino
soddisfatto. |