Le sue poesie 1 - 2 - Poesie per i bambini - Racconti di vita 1 -2-3-4-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15 |
Racconti della serie: "Servizio militare" ...continua...
PREFAZIONE |
TROMBETTIERE
DELLA "REGIA" Nei lontani giorni del 1943; ventiduenne; mi trovavo a Milano, all’Aeroporto "Forlanini" di Linate, con oltre due anni di servizio militare sulle spalle; in tempo di guerra. Dovevo la fortuna, di servire la "Regia" (Aeronautica), nella mia città natale; al fatto che, due anni prima, al CAR (Centro addestramento reclute); presso l’Aeroporto di Perugia, ero stato destinato, con altri commilitoni, a seguire un "Corso trombettieri". L’opzione, ovviamente, non era stata mia, bensì del Comando dell’Aeroporto; che mandò un furiere, a chiedere ai coscritti, chi fosse in grado di suonare uno strumento musicale. Molti alzarono la mano: pianisti, violinisti, chitarristi e altri. Alzò la mano anche il sottoscritto, il quale, come trombonista; aveva fatto parte, fino a pochi giorni prima; della Fanfara del Gruppo rionale fascista; "Benito Mussolini"; e suonato boriosamente "Giovinezza" e altre marce di regime, per le strade milanesi, del rione di Porta Volta, Via Canonica, e giù di lì. Il furiere, togliendo dal taschino notes e lapis; e sorvolando sulle nostre domande (speravamo tutti di andare a Roma, a far parte della "Banda dell’Aeronautica"); annotò i nostri dati, dicendo che, il giorno dopo, avremmo avuto una comunicazione in proposito. E fu di parola, perché, all’indomani, il Tenente del CAR ci disse: "Siamo vicini al termine del "Corso reclute", e quindi, presto, tutti voi sarete trasferiti in altri aeroporti; salvo coloro, che ieri hanno dato il loro nominativo al furiere, e che invece, verranno trattenuti qui, per frequentare la "Scuola Trombettieri". Delusione generale di chi sperava di andare a Roma; ma i più arrabbiati erano naturalmente coloro che, da civili, avevano suonato strumenti non a fiato. Gli improperi piovevano, ma in sordina, è il caso di dirlo, su quell’incompetente ufficiale del Comando, che aveva deciso della loro sorte, senza nemmeno saper distinguere uno strumento a fiato dagli altri. Questa forma insensata di "cattura"; non era poi mica tanto insensata. Si trattava di un trucco, abbastanza diffuso, nell’ambiente militare, per scovare dei "volontari per forza". Mi spiego con un esempio. Il Comando, nella persona del Colonnello, dice ad un ufficiale subordinato: "Tenente, il Generale si è lamentato con me, perché la sua autovettura, non è ben pulita. Provveda! E faccia in modo, che un’altra volta, il fatto non si ripeta". Il Tenente: "Signorsì!". Si allontana, e manda a chiamare il "Sergente di giornata": "Sergente! Il Generale si è inquietato, perché la sua macchina è sempre sporca! Possibile che debba ripetere ancora la medesima cosa?". E il Sergente, timido: "Veramente, signor Tenente, è la prima volta che...", ma il Tenente interrompe bruscamente, rabbuiandosi: "Vuol dire che io mentisco?" e l’altro, confuso: "Sì... cioè no... no, ... volevo dire che..., ma provvedo subito". Saluto militare e, rosso in viso, via come una lepre. Quasi subito, vede passare un aviere: "Pst!.. pst! Ehi tu aviere!", l’altro si ferma e, fortuna sua, scatta sull’attenti. "Vammi a chiamare il Caporalmaggiore dell’ autorimessa e mandamelo in Fureria". L’aviere, sicuro di avere in mano un Jolly: "Ma sto andando..." e non finisce, perché il Sergente, urlando: "Me ne frega niente, dove stai andando... Corri!". L’aviere resta li, un attimo, annichilito. Allora il superiore, alzando al massimo il tono: "Vaiii!". Quello finalmente rinviene e sparisce. Il sottufficiale sogghigna soddisfatto: insomma anche lui, ha avuto, la sua vittima. Arriva in Fureria il Caporalmaggiore dell’autorimessa. "Sergente; hai chiesto di me?". Il Sergente, ormai sbollito, e ora più abbordabile, dice: "Là, in alto, vogliono la macchina del Generale più pulita. Dai una girata, là da te, perché la si pulisca meglio, anche per evitarmi queste rogne. Stop.". Il Caporalmaggiore, laconico: "Sarà fatto." e ritorna, senza alcuna fretta, donde è venuto, per rivolgersi al caporale motorista: "Che rottura, che menata! Senti: fai lavare la macchina del principale; guardaci anche tu dopo: che sia ben pulita; altrimenti perdiamo la guerra...". Il caporale motorista, è uno specialista, e certe cose non è tenuto a farle; per cui si rivolge, secco, al caporale "di governo": "Trovami una burba, per lavare una macchina!". Nella naia si dice che: "La disciplina è quella cosa che: sorvola gli ufficiali, sfiora i sottufficiali e finisce in c.... alla truppa.". Un po’ becero, ma è così. Allora che fa il caporale dei "Servizi"? Si reca allo spazio asfaltato, davanti all’hangar, dove i coscritti stanno esercitandosi con marce e maneggio delle armi; chiede il permesso al Sergente istruttore, e poi si rivolge direttamente alle reclute: "Sentite un po’: chi di voi ha la patente?". Venti mani di gente che spera di smettere le manovre e di mettersi al volante, si alzano. Il Caporale prosegue: "Sì, sì, va bene; ma a me occorre uno che ha guidato di mestiere.". Le mani alzate sono ora soltanto cinque: quattro autisti privati e un camionista. Il Caporale insiste, per sapere chi dei cinque è il più esperto. Trovatolo; se lo porta all’ autorimessa, dove: "Ecco il tuo uomo" dice al Caporale motorista. Questi, rivolto alla recluta comanda serio: "Lava quella millecinquecento, e tirala a specchio; fuori, dentro, sopra e sotto. Guarda, che è di un Generale, con tre lasagne sul berretto: se non fai bene, ti manda a Gaeta.". La recluta tenta una ritirata: "... Ma il caporale , mi aveva detto che dovevo guidare una macchina!". Il Caporale di governo che, scafato, non si è ancora allontanato dal reparto, interviene: "Che?"; e socchiudendo gli occhi: "Cos’ho detto io?..."; e alzando la voce, offeso, rimbrotta: "Io ho chiesto soltanto se avevi la patente.". Adesso piantala e mettiti, buono, al lavoro; se no ti faccio un rapporto lungo così; e quindici più trenta non te li leva nessuno, neanche il Padreterno. Marsch!". E se ne va, tronfio come un pesce luna. Gli avieri anziani dell’autorimessa, presenti al fatto, ridono sottecchi; poi, il più ipocrita tra loro, si avvicina alla recluta così mortificata, e con accento toscano, la consola: "Via, ‘un te la prendere, in fondo con le auto hai sempre lavorato: meglio lavarne una, che marciare sotto il sole: ‘un ti pare?". E gli mette una sigaretta accesa tra le labbra; mentre pensa senza pietà: "O grullooo! Se non parlavi, toccava a uno di noi!". Poi, si allontana, con espressione contrita, perché il novellino, con la sigaretta penzolante dalla bocca, lo guarda incredulo e un po’ dubbioso.
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LA
"SCUOLA TROMBETTIERI" Pochi giorni dopo, sfrondato l’aeroporto dalle reclute del CAR; ebbe inizio la "Scuola Trombettieri". Le lezioni, durarono quattro mesi. Di solfeggio: neanche parlarne. Fu data, a ciascuno di noi, una tromba d’ordinanza già usata, con un solo pistone; e restia ad emettere un suono, quanto un mulo bardato, a camminare. Eravamo, agli ordini di un Sottotenente di prima nomina, romano, cordiale e molto gentile con noi subordinati; ma il nostro istruttore, era un maresciallo di governo. La prima lezione, fu consumata nei tentativi di far uscire, dalla tromba, una nota qualsiasi. Per me, il compito, data la mia esperienza col trombone fascista, fu abbastanza facile; ma quelli, che da civili non avevano mai suonato uno strumento a fiato, traevano, da quel tubo contorto e duro; che guardavano con tanto disprezzo, soltanto dei sibili che, ricordavano lo sbuffare di una vaporiera. Comunque, bene o male e presto o tardi, tutti finimmo per emettere una prima nota; poi una seconda e, infine, tutte le altre. Da allora, la musica, si fa per dire, cambiò, nel senso che gli esercizi furono diversi; dovendo arrivare alla giusta "imboccatura": indispensabile per l’emissione di note "pulite". Do, do, do, doooo...! Re, re, re, reeee...! MI, mi, mi, miiiii...! Che solfa questi esercizi: otto ore al giorno e per una ventina di giorni! Le labbra, dapprima si gonfiarono, poi si screpolarono, e infine formarono una callosità, alla vista della quale il nostro istruttore, dichiarò esultante, che l’ imboccatura, si era formata. Si passò, quindi, ai segnali veri e propri, quelli che regolano la vita delle caserme: "la Sveglia", "il Rancio", la "Chiamata di chi marca visita", ecc.. fino alla " Ritirata". Per ricordarci la filastrocca di note, corrispondente ad un dato segnale, l’Istruttore ci insegnò delle frasette insulse, talvolta licenziose, che tuttavia erano molto utili alla memoria. Per esempio, la chiamata dei consegnati si ricordava così: "Caporale di giornata, porta abbasso i consegnà, cosa fanno in camerata?.. C’è il cortil da ramazzà!". Oppure, per l’incetta viveri: "Chi vuol scopar Teresa?.. Con i soldi della spesa?". Per il rancio invece: "La pappa l’è cotta, la pappa l’è cotta: venila a mangià..!". E così via. Come rendimento: lasciamo perdere. L’asino cadeva soprattutto sugli squilli dell’ "Attenti!": quattro note: "Ta...ta,ta,taaa...". L’ultima, la più alta, talvolta si degradava in un tragico "prrrrrrffff ...". E’ da dire che l’ "Attenti!", è il segnale più impegnativo; quello che si suona nei momenti più solenni, come: l’ "Alzabandiera", o gli onori a un generale; ad una autorità; al Sanctus della Messa; ecc.; insomma, in situazioni in cui è presente tanta gente e nel massimo silenzio. In tali condizioni, il trombettiere è molto emozionato e, salvo non si tratti di un Louis Amstrong, la pernacchia è sempre incombente. E quando succede, non ti dico: provare per credere! Evidentemente, io dovevo avere l’aspetto di un giovane per bene, perché facilmente entravo nelle simpatie dei miei superiori, sia di quelli dai modi urbani, sia, per quanto possibile, di quelli decisamente carogne; i quali, pronti a dare, giorni di prigione al malcapitato che, soltanto con gli occhi, avesse manifestato il minimo dissenso alle loro reprimende, si accontentavano, quando la rampogna toccava a me, del buffo aspetto, che istintivamente assumevo: impalato come un baccalà; la testa incassata nel tronco; quasi attendessi la caduta di una tegola sul cranio. Ho avuto conferma di ciò, recentemente quando, tra le altre, rinvenni una lettera, da me scritta a Mamma, che l’aveva conservata tra le cose a lei più care. Data: 12 Aprile 1941, Così cominciava: "Carissima Mamma, stamani il Maresciallo istruttore dei trombettieri, mi ha guardato in viso, ha detto che sono un bravo ragazzo e, senza che nulla chiedessi, mi ha segnalato per avere un permesso, per andare a Perugia domani. Sono felice.". Come il Corso trombettieri ebbe termine, il nostro Sottotenentino, ci informò che, presto, avrebbe ricevuto l’ordine di assegnare, a ciascuno di noi, le rispettive destinazioni. La tensione era alta, tutti speravamo, quanto meno, in un avvicinamento a casa; ma v’era anche il rischio, non tanto remoto, di finire in Grecia, o, peggio ancora, in Russia. Finalmente, un mattino, "Radio scarpa", (versione militare di "voci di corridoio"), comunicò che era giunto il momento, di spedirci al nostro destino. Infatti, poco dopo, il Sottotenente, con un foglio in mano, ci riunì nel campo; lontano dalle palazzine; dove sempre avevamo fatti gli esercizi con la tromba; e cominciò con un discorsetto preparatorio: "Ragazzi, io so che ciascuno di voi, vorrebbe l’indirizzo di casa... Con ogni buona volontà, non ci è stato possibile accontentare tutti... Non dobbiamo dimenticare che abbiamo.. innanzi a tutto... il nostro dovere di soldati...". E via di questo passo. Finito il pistolotto, diede inizio alla lettura dei nostri nomi, ciascuno dei quali seguito dalla località assegnata. Giunto a me, disse, come tra sé: "Questo lo mandiamo a Milano; se lo merita, è stato molto bravo.". Di là dalla grande gioia, per la bellissima notizia, mi sorprese l’ "encomio sul campo": mai, m’era sembrato d’essermi comportato meglio degli altri. Comunque incassai contento. Incredibile: al mondo c’è posto anche per gli antieroi.
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DESTINAZIONE:
MILANO! Così, il giorno dopo, zaino in spalla e foglio di via, presi il treno che mi avrebbe portato a Milano, dove, avrei dovuto presentarmi ad un distaccamento dell’Aeronautica militare, che si trovava in una villetta, al numero dodici, della via Francesco Ferruccio. Non potevo immaginare, allora, che in quella strada, ci sarei andato ad abitare, trent’anni dopo, per viverci poi, altri decenni. Non fu quello un caso isolato. Per esempio, in via Statuto, frequentai, quando avevo 14 anni, un Istituto Privato; e, in quella medesima via, al numero cinque, tredici anni dopo, quale dipendente del Comune, fui trasferito presso l’Ufficio d’Igiene, dove rimasi per cinque lustri, sino al mio ultimo giorno di lavoro. Scherzi del destino. Chiuso l’inciso. Giunsi in vista della Madonnina, poche ore dopo, e giacché, foglio di via alla mano, avevo ben tre giorni di tempo per presentarmi a destinazione, pensai ovviamente di andare innanzitutto a casa mia. Non avevo preannunciato il mio arrivo, perché era mia intenzione fare una sorpresa. Fui quindi un poco deluso, dall’apparente scarso calore, con cui i miei genitori e mia sorella mi accolsero. In seguito, mi resi conto però, che per me, l’avvenimento era di grande importanza, mentre loro, che di me avevano avuto sempre buone notizie, ben altro avevano a cui pensare, che a farmi grande festa. I tempi si facevano sempre più duri, anche per la popolazione civile. Ricordo che, nell’anno precedente; il 10 Giugno 1940; dopo che, al tramonto, dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, Benito Mussolini aveva annunciato, la dichiarazione di guerra, "a fianco dell’alleata Germania", a Francia e Inghilterra; gli italiani affollarono i negozi, per incettare viveri e altri generi, sino all’esaurimento di tutte le scorte. Lo svuotamento, fu naturalmente accelerato, dall’ accantonamento dei prodotti, a cui, in contemporanea, provvedevano gli stessi commercianti. Nacquero così le tessere annonarie, che assicuravano alla popolazione, una quantità risibile di generi alimentari di prima necessità; per altro, di qualità scadente. L’immancabile reazione, diede vita alla "borsa nera" che, in sostanza, era un commercio clandestino di alimentari e generi vari; sottratti all’ammasso governativo, da contadini, artigiani ed altri produttori, per cederli, a condizioni più vantaggiose, a trasportatori privati, definiti "borsari neri"; i quali poi vendevano le merci nelle città, a prezzi di strozzinaggio. Naturalmente, la "borsa nera" era ufficialmente perseguita, e moralmente condannata da tutti, ma; come al solito "all’italiana"; per cui, in caso di necessità, o di occasione, tutti vi ricorrevano, e senza tanti scrupoli; se ovviamente, i soldi in tasca lo consentivano. Capii presto, dunque, il motivo delle preoccupazioni dei miei famigliari, tanto più che il futuro, si presentava fosco: la guerra prometteva tempi lunghi, e se questo era il principio... Quando mi presentai alla palazzina del distaccamento della "Regia", in via Ferruccio, trascorsi, in un opprimente cortiletto di quel villino, una mezza giornata di noia, in attesa di sapere, quale sarebbe stata la mia definitiva destinazione. Finalmente un solito caporale di fureria, mi consegnò, un solito foglio di via, per l’Aeroporto Militare "Forlanini" di Linate: una manna! Ci si poteva arrivare in un’ora, con autobus di città; ma a me diedero, per presentarmi, 48 ore di tempo. Ne passai quarantasette, a casa, seduto, come tempo addietro, sul tavolo di cucina, a conversare con Mamma, e a rubarle qualche polpetta di chissacché facendomi, come una volta, chiamare amorevolmente: "ladro!".
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IL
PRIMO SERVIZIO DI TROMBA All’Aeroporto 105 della 1^ Z.A.T. (Zona Aerea territoriale), ovvero: Forlanini di Linate; mi presentai in Fureria, dove un caporale, con la puzza sotto il naso, mi disse semplicemente: "Vieni con me", e s’incamminò. Lo seguii fino al Corpo di guardia, dove il graduato ordinò al piantone: "Quando vedi Collazzo, digli che questo è il nuovo trombettiere" e, senza neanche degnarmi di uno sguardo, se ne andò. Due minuti più tardi, sentii la tromba chiamare i "Consegnati", e, seguendo il suono, vidi il trombettiere che ripeteva le note della chiamata, e poi notai che veniva, senza fretta, dove io attendevo. Saputo che ero l’atteso rinforzo, per poco non mi baciò per la gioia e, tutto eccitato, prese fiato per dirmi, con spiccato accento pugliese: "Meno male che sei arrivato; non ci contavo più. Stammi a sentire: da cinque giorni filati, non smonto di servizio: mi sono fatto un c... così. L’altro, l’hanno trasferito a Ghedi, perché là erano rimasti senza trombettiere. Ascolta!... Alle cinque e mezza, suoni il "Rancio", alle sei e mezza "L’Ammaina Bandiera"; là dove c’è il palo; e alle sette la "Ritirata". Poi te ne vai dove vuoi, perché il nostro servizio termina con la "Ritirata". Se qualcuno reclama per l’orario delle chiamate: mandalo a Vaffan..., e digli che questi sono gli ordini; tanto qui nessuno sa niente, e gli ordini, con la tromba, li diamo noi. Domani mattina, la "Sveglia", la suono io, e anche "L’Alza Bandiera". Poi ti spiegherò meglio il servizio. Sul tavolaccio del Corpo di guardia ci sono due trombe: prenditi quella meno scassata. Ciao, adesso me ne vado, corro: sono cinque giorni che non vedo la mia ragazza, e non so niente di lei...". Detto tutto questo in apnea, si allontanò correndo verso l’uscita dell’ Aeroporto, gridandomi ancora qualcosa. La sua voce si spense in lontananza, con queste parole: "... chissà intanto a chi glie l’ha data quella p...". Io rimasi un po’ confuso e frastornato, con la preoccupazione di chi sa di dover affrontare, da solo e per la prima volta, un nuovo importante compito. Può sembrare strano, che un trombettiere potesse andare e tornare in Aeroporto, a suo piacimento; ma in quel periodo, il Comando aveva disposto soltanto, che i trombettieri assicurassero; 24 ore, su 24; il "servizio; suddiviso in turni, concordati tra loro; e che il tempo tra i turni, fosse di libertà. Se però un trombettiere rimaneva solo, per trasferimento, malattia, ecc., degli altri; allora non poteva smontare dal servizio, sino all’arrivo di un rinforzo. Ciò infatti, era accaduto al commilitone appena conosciuto. Alle 17,30; suono il "Rancio". Un aviere mi chiede: "Perché così presto?"; un cuciniere, invece: "Perché cosi tardi?". "Rispondo salomonicamente: "Sono gli ordini". Nessuno fiata più. Un’ora dopo, col "Sergente di giornata" e la guardia al completo, andiamo, allo spiazzo, per l’ "Ammaina Bandiera". Alle diciannove in punto, trombetto la "Ritirata". Niente proteste; anche perché, i più sono in libera uscita, con permesso TST (Termine Spettacolo teatrale); e, quelli rimasti, gironzolano per il campo in attesa del buio, per andare in branda a nutrire le cimici. Quando arrivai al "Forlanini", due distinte palazzine ospitavano ufficiali e sottufficiali; mentre gli avieri erano alloggiati nel grande hangar, in disuso, dove centinaia di brande erano piazzate in fila, come le tombe del Cimitero di Musocco. Gli spifferi arrivavano dai quattro punti cardinali, e il brusio di centinaia di uomini, non dava requie. Sembrava di essere alla Stazione Centrale. Accettavo tutto con rassegnazione, pensando con nostalgia, alla mia silenziosa cameretta, di Via Alserio. Questo disagio durò fortunatamente poco; perché presto furono costruite, dietro l’hangar; a un centinaio di metri di distanza; sei lunghe baracche, che si fronteggiavano ai lati di una strada interna, ciascuna delle quali composta da un locale centrale, in muratura, con gabinetti e lavabi; comunicante con due baracche laterali, di legno; capaci, ognuna, di cento posti, in brande a castello. Da allora tutto andò meglio. Facemmo abitudine, anche al rumore assordante, di motori d’aereo in collaudo, piazzati su tralicci in ferro, a cinquanta metri da noi, e per lunghi periodi spietatamente funzionanti, giorno e notte. Eravamo nel Giugno 1941. Il rancio era buono. Anzi: ottimo. Mangiavamo ai tavoli, con piatti e posate di alluminio, pensando con un po’ di commozione ai commilitoni dell’ Esercito, che dovevano servirsi di gavette, e cercarsi poi un posto nei dintorni per sedersi e consumare il loro pasto. Menu, per il rancio di mezzogiorno: pasta al sugo o minestrone; carne in umido o lessata; contorno di patate o altra verdura, e un frutto. Alla sera, si cenava più sobriamente, con minestra, poi, come secondo: formaggio, o salumi, o frittata. La Domenica, avevamo anche il dolce: una pasta del Motta. La mattina seguente il mio arrivo, Collazzo; alle cinque e mezza, in punto, suonò la "Sveglia", raccogliendo, dai commilitoni assonnati, una serie di improperi, il più gentile dei quali, faceva, rima col suo cognome. Lui, però, non si adombrava più di tanto perché, mi disse poi, "... noi trombettieri, ci prendiamo le nostre vendette.". Una delle quali, la inventò dopo la costruzione delle nuove baracche, e consisteva nel punire, l’intera camerata; intonando la "Sveglia"; al prossimo turno, nel locale dei gabinetti il quale; avendo pareti di muro; decuplicava il volume delle note. Mezz’ora dopo la sveglia, Collazzo chiamò per il "Rancio"; inteso come colazione, con caffelatte e pane. Poi, altra suonata per "L’Alzabandiera": tre squilli di "Attenti!"; mentre la Bandiera nazionale viene issata; e infine il segnale di "Riposo", col significato di "In libertà": ciascuno, va a svolgere il lavoro assegnato. Collazzo, colse quel momento, per spiegarmi il nostro lavoro: "Prima di tutto, devi sapere che noi, quando siamo in servizio, dipendiamo dall’Ufficiale di Picchetto; che è di turno per una settimana. Siccome per lui quell’incarico, è una grande rottura di palle; allora comanda al Sergente di giornata, di occuparsi lui del servizio; e tutti i Sergenti, dicono a noi: ‘Trombettiere! Siccome tu sai come funziona il Corpo di guardia; conosci gli orari delle chiamate, eccetera; pensa tu a mandare avanti questa baracca. Se poi ti occorrono ordini: io sono al circolo sottufficiali.’ E se ne va col nostro: "State tranquillo Sergé: penso io a tutto.". Così lui non rompe, e noi facciamo i nostri cavoli... o quasi insomma.". Era vero. Ma se arrivava un generale in ispezione, i cavoli erano amari .
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ARRIVA
IL GENERALE ! Di norma, il Generale giungeva a bordo di un’autovettura, percorrendo il rettifilo dei tre chilometri di Viale Forlanini, che noi potevamo esplorare interamente dal Corpo di guardia. L’aeroporto era militare, e quindi solo autoveicoli militari avevano motivo di accedervi. E se l’autoveicolo era un’autovettura, poteva solo trattarsi, di quella di un generale. Quando qualcuno di noi, dal Corpo di Guardia vedeva, lontano sul viale, un puntino scuro, che velocemente si faceva sempre più grande; urlava, con la soddisfazione di chi per primo vede una cosa: "Allarmi! Un Generale!". Allora, come fossimo stati programmati: una guardia correva alla palazzina degli uffici a chiamare l’Ufficiale di picchetto; un’altra andava a cercare il Sergente di giornata, un’ altra ancora, filava ad avvisare il Colonnello Comandante dell’Aeroporto. Dopo tanta fibrillazione, il Corpo di guardia; rimasto deserto, per la diaspora dei suoi uomini; andati a caccia di ufficiali e sottufficiali di servizio; si rianimava all’improvviso, e schierava, all’entrata dell’Aeroporto: dodici avieri tutti in fila sull’ attenti; elmetto in testa e armati di fucile; con a fianco il sergente di giornata e l’Ufficiale di picchetto. All’altro capo dello schieramento, stava il trombettiere; il quale, alla vista del Generale che, sceso dall’autovettura, si apprestava ad entrare in Aeroporto; lanciava con la tromba il triplo segnale di "Attenti", che imponeva: alla Guardia schierata, di presentare le armi; all’Ufficiale e al Sergente di servizio, di salutare con la mano tesa sul berretto; e a tutti i militari, di qualsiasi grado fossero, sia che si trovassero all’aperto, sia al coperto; di impalarsi sull’ "Attenti", come altrettante statue di sale. Così, sino allo squillo del "Riposo!", che veniva dato quando il Comandante dell’Aeroporto e il Generale, dopo il saluto militare, si stringevano la mano. Tutto questo per un’esibizione di Trombettiere. Rammento che, dopo una di queste necessarie pantomime, fui chiamato all’entrata, dal Capoposto, che mi disse: "C’è fuori una visita per te. Vai, ma non ti allontanare.". Uscii, con la tromba ancora in mano e l’elmetto in testa. Era mia Mamma. Intuii, che non avendo mie notizie da qualche giorno, si era allarmata e, preso l’autobus, era venuta ad indagare. Il motivo della mia assenza da casa, è presto detto. Il Comandante, a cui l’Ufficiale di picchetto aveva presentato relativo rapporto, ritenne di infliggere la punizione di "Consegna" (divieto di libera uscita), a tutti gli avieri dell’ Aeroporto, e ciò sino a che non fosse stato individuato, colui che rubava le coperte nelle camerate. Logica militare. Chiarita la motivazione della mia assenza da casa e, calmatasi; mia Mamma mi guardò meglio in viso e, facendo caso finalmente all’elmetto, mi disse, nel suo abituale dialetto veneziano: "Non ti me piasi con quel capèo!". Ci abbracciammo. Lei poi si allontanò col passo incerto della sua età, mentre io la guardavo con un maledetto groppo in gola. Digressione. Presto fu scoperto, l’autore dei furti di coperte, nella persona di un autiere, il quale; con la scusa di essere piccolo, e quindi di non arrivare a vedere bene di là del parabrezza, quando usciva per servizio con l’autocarro; si procurava una coperta, prendendola "a prestito" dalla branda di un commilitone, per mettersela, sotto le terga piegata in otto. Ciò che il colpevole non seppe spiegare al Brigadiere dei Carabinieri della Stazione aeroportuale; era come mai al ritorno, anche senza più coperta sotto il sedere; egli non lamentasse problemi di guida.
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LE
MISSIONI Un mese dopo il mio arrivo all’Aeroporto 105, 1^ Z.A.T.; arrivò il rinforzo di un nuovo trombettiere. Adesso in tre la vita era proprio divenuta comoda: due giorni di libertà e uno di servizio. Il nuovo collega si chiamava Luigi Gattico, nato a Marano Ticino, dove i Luigi Gattico, si contano a mazzette. Era molto intelligente e arguto; con un’ aria sorniona di furbo contadinotto. Gattico simpatizzò subito con Collazzo, tanto che presto incominciò a prenderlo in giro chiamandolo, ogni tanto, "terrone", ma lo faceva in forma così bonaria, quasi affettuosa, che l’altro non si riteneva offeso; anche perché sfoderava la sua arma segreta, dando a Gattico di "polentone". A questi epiteti, seguivano le immancabili critiche, agli usi e costumi dei rispettivi paesi d’origine; ma il tutto senza veleno. Era un modo per passare il tempo e, anche, uno spasso per chi li stava a sentire. Andavamo tutti e tre in perfetto accordo, scambiandoci amichevolmente i turni in caso di necessità, o nel sostituirci, senza rimbrotti e senza ricuperi, se le circostanze lo richiedevano; come quando, per esempio, io andavo in "Missione". La Missione, era un incarico speciale, che comportava il distacco temporaneo di un aviere dall’Aeroporto; per svolgere un certo compito. Poteva trattarsi della consegna di un plico al Comando Militare di un‘altra città. Come pure del ritiro di materiale, da qualche industria bellica. O altro. Usciva un caporale dalla Fureria, e urlava: "Chi vuole andare in missione?". Si chiedeva un volontario; se nessuno si fosse offerto, qualcuno sarebbe stato comandato. Molti non gradivano questo genere d’incombenza, perché ti davano quattro soldi di diaria, più il documento di viaggio e niente altro; per cui, dovevi sempre aggiungere qualcosa di tasca tua. Però eri ospitato, per rancio e branda, negli aeroporti di destinazione, o in qualsiasi altro distretto di transito, dove per altro, ti trattavano molto bene. Inoltre, i Comandi a cui si era diretti, largheggiavano con visti, timbri e date, sui tuoi documenti di rientro, in modo da prevenire largamente ogni eventuale contrattempo che dovessi incontrare sul percorso. Poiché, in genere, era raro che avvenissero contrattempi, ti avanzavano, dopo la missione, alcuni giorni di libertà da impiegare secondo i tuoi desideri. A me, questo andava particolarmente bene, perché la mia casa era comunque sull’itinerario dei ritorni. Anche se questi viaggi, non potevano considerarsi veri e propri diporti turistici, davano però modo; di conoscere nuove città, sia pure un po’ tristi, dato lo stato di guerra; di sentirsi padroni del proprio tempo; e di correre all’avventura. Perché, certo è, che le sorprese di viaggio, non mancavano. Rammento che, nel 1942, in quel di Firenze, nel corso di una missione, e in attesa di un treno diretto, (sempre treni diretti e non tradotte per questo tipo di incarichi); mi ritrovai, di notte, a zonzo per le Cascine. A un certo momento mi sentii, apostrofare: "Bel militare! Come va?". Era un omuncolo, alto un metro e mezzo, o poco più, che proprio non mi faceva paura. Risposi: "Tutto bene!". E lui: "Che fai da queste parti?" E io: "Segreto militare!". Lui; che intanto, nella semioscurità di quel parco, mi si era avvicinato; continuò col suo bell’ accento fiorentino: "Si fa un po’ di strada insième?" Cominciai sentirmi a disagio e pensai: "Come faccio ora, a togliermi di dosso questa piattola?". Intanto la piattola, mi si era affiancata sulla sinistra e, passando il suo braccio dietro la mia schiena appoggiò, allungandosi un po’, la sua mano sulla mia spalla destra. Stava bene la notte, stavano bene le Cascine e, forse, ma non ebbi il tempo per accertarmene, anche la luna. Non escludo nemmeno che, data la poetica atmosfera, potessi avere in comune col nanerottolo, anche certi pruriti, ma se c’erano, erano sicuramente di natura molto molto diversa. Un po’ turbato, non diedi la risposta che lui, per altro, non aveva affatto attesa e replicai invece: "Tu sei ammogliato?". Egli, sospettoso, mi rispose con un secco: "Sì.". Quasi contento di sentire, ora, lui in imbarazzo, continuai: "Si potrebbe andare a casa tua...". Ora, qui prima che qualcuno faccia fiorire maligne fantasie, devo precisare, che in quel momento non covavo alcun progetto definito. Di sicuro avevo tanto sonno, e, anzi, tra me e me, dissi preoccupato: "E se questo accetta, che fo? Dico alla moglie: "Buongiorno signora: come sta?". Alle tre di notte? E se quella, magari, sa che suo marito è... è di un’altra sponda: che figura faccio? E se quei due sono d’accordo e lui mi dice: "Prima lei, e poi io?"... E se sua moglie avesse degli attributi, non proprio femminili: come va a finire? E se mi derubassero? Questo no: i soldati, per antonomasia, sono sempre in bolletta. E se..., e se... Penso, che sarei andato avanti ancora un bel pezzo, con supposizioni più o meno astruse; invece la piattola che; durante le mie elucubrazioni mentali, aveva avuto tutto l’agio di riaversi dallo shock della mia domanda; mi disse bruscamente: "Ciao!", e si dileguò, con mio grande sollievo, nel buio della notte. Un’altra missione, mi portò, verso sera, a Sesto Calende, dove presentai i documenti agli uffici di una certa fonderia. Mi dissero che presso una vicina locanda, avevano prenotato una cena e un pernottamento per me; e di ritornare la mattina seguente, per il ritiro del materiale. Quando, il giorno dopo, tornai; mi presentarono un gran cassone, triangolare, alto tre metri e largo uno: destinazione Merano. Chiesi quasi sarcasticamente, se avrei dovuto provvedere io ai mezzi di trasporto. Mi risposero assolutamente seri: "Pensiamo noi a tutto". Arrivò un’enorme autogrù, sollevò il cassone e lo depose su un carro ferroviario, già in attesa sul binario morto della fonderia. Mi fecero firmare una ricevuta e mi restituirono le scartoffie, con qualche aggiunta. Intanto un locomotore, aveva già portato via il mio carico. Intuita la mia preoccupazione, fui ancora una volta rassicurato: "Non si allarmi: il suo carro è avviato alla stazione, dove lo troverà agganciato a un treno per Merano. Partirà tra un’ora. Buon viaggio!". Diffidente, corsi alla stazione: il mio cassone era là; solo e troneggiante sopra un carro scoperto, in coda a un vagone di terza classe, di un treno passeggeri. Salii su quel vagone. Durante il viaggio, mi sporsi più volte dal finestrino, per essere sicuro, che il carico, mi seguisse. Trovai anche il tempo di soddisfare una lecita curiosità. Che cosa trasportavo di tanto pesante? Cercai tra i documenti in mia mano: "Elica tripala per aereo da bombardamento". Caspita! Mi chiesi allora, quale fosse il mio dovere in questa missione: salvare dai furti un paccone di dieci quintali? Difenderlo dal nemico? Come, col tirasassi? Mah! E mi venne da ridere, perché tornò alla mia memoria, che al CAR, il fucile lo davano solo per le esercitazioni: non ce ne erano infatti abbastanza, per assegnarne in dotazione, uno a ciascuno. E di pallottole? Proibite! Un giorno; mi munirono di fucile e mi caricarono, col mio plotone sopra un autocarro. Ci portarono ad un poligono di tiro dove, a gruppi di sei, occupammo le postazioni. Al fianco destro di ciascuno di noi, si presentò un graduato; il quale, consegnatoci un caricatore con sei pallottole, ci ordinò: "Mettilo nel fucile... Sì così. Adesso metti una pallottola in canna... Adesso: vedi là, in fondo, davanti alla montagnetta d’erba, quella sagoma nera, a forma di uomo, con un disco bianco, al posto del cuore? Sì?... Ecco: spara le sei pallottole su quel disco bianco". Sparati i sei colpi; vidi, lontano, sul mio bersaglio, agitarsi la paletta dei risultati. Allora chiesi al mio Servente: "Com’è andata?". Quello mi guardò con schifo e, rivolto al resto del plotone, urlò: "Avanti un altro!". A sera arrivammo a Merano. Tirava un’insistente, fastidiosa arietta gelida, che mi resta come ultimo ricordo di quella missione.
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LE
RONDE: UNA NAIA AL QUADRATO!. Nelle stazioni ferroviarie, o sui treni; era facile incappare in qualche Ronda Militare: un sergente, in mezzo a due soldati; con giberne alla cinta, fucile alla spalla, sottogola abbassato, aria severa. "Ehi, aviere!". Mi volto. Accidenti! E’ una ronda dei Bersaglieri! Non poteva capitarmi di peggio, perché; sempre per quel fatto, che gli avieri mangiano nel piatto e i fanti nella gavetta; esisteva, tra le due forze armate, una certa ruggine. Per lo stesso motivo, anche i marinai non erano ben visti dai fanti. Il tutto quasi sempre, ma non sempre, a livello di bassa forza. Saluto subito con la mano sulla bustina. Il Sergente con tutta calma e gesto teatrale, toglie di tasca un taccuino. Poi, col fare di quell’agente della stradale del Texas, che nel film ferma un’automobilista e gli dice: "Dove andate a tutta velocità? A pagare le tasse?..."; mi chiede: "Non ti hanno insegnato a salutare la Ronda?". Rispondo: "Ho salutato, Sergente", e lui: "Non fare il furbo, tanto non te la perdono. Priiima, non hai salutato: quando eri voltato di là". Una affermazione cretina, impone una risposta altrettanto cretina: "Quando ero voltato di là, Sergente, la ronda non potevo ancora vederla, Sergente. Ma le pare che io non saluti la Ronda, che proprio è in giro per fregarmi? Sergente." Il sottufficiale annaspa in cerca di una replica, poi taglia corto: "Ah! Lo sai. Fammi vedere il foglio di licenza". Tolgo i documenti e glieli porgo, precisando: "Non sono in licenza, Sergente: sto ritornando da una missione.". Quello prende in mano le carte, dà un’occhiata e, quasi deluso: "Ah! Sei in servizio, allora!". Intanto i due militari di supporto, che si guardavano attorno come volpi alla caccia di conigli selvatici, gridano insieme: "Sergé: là in fondo: c’è uno della Marina.". Il sottufficiale ha un sussulto; mi restituisce in fretta i documenti e mi dice, a bassa voce, con un’occhiata di complicità: "Tu va’ tranquillo! Adesso corro a rovinare la vacanza alla Regia Marina.". Mi pianta lì e, affiancato dai due subalterni si mette a correre, con rumore di ferraglia, lungo il marciapiede della Stazione. La gente non si allarma: i bersaglieri corrono sempre. Un’altra volta; viaggiavo su un direttissimo per Milano. Non ricordo da dove provenissi, rammento però, che l’ultima stazione in cui il treno aveva sostato, era Parma. Si apre la porta dello scompartimento: la Ronda! Il Sergente mi chiede i documenti, li guarda, e mi accusa: "Non puoi viaggiare su questo treno, perché è un direttissimo." Rispondo: "Sergente, sul foglio di via, c’è il timbro per viaggiare con i diretti." Lui non risponde subito, perché sta già trascrivendo sul suo libretto, i miei dati e il mio Aeroporto di appartenenza. Nel momento in cui volta la pagina, con lo sguardo gli chiedo spiegazioni. Lui categorico: "A Piacenza scendi! Attenderai un treno diretto per proseguire. Qui non puoi restare perché, ti ho già detto: è un direttissimo." A Piacenza scendo: è piena notte, guardo l’ora: sono le quattro. Penso, che se quel figlio di cane, non mi avesse sbattuto a terra; sessanta minuti ancora e sarei arrivato a Milano-Centrale. Nella sala d’attesa, guardo il tabellone delle partenze: ore 9.45 - Accelerato per Milano. Ore ll.45 - Diretto per Milano. Benone! Ho l’autorizzazione per i diretti, ma se voglio arrivare prima, adesso devo prendere l’accelerato. Mando un altro moccolo a quel figlio di buona donna. Già, a proposito: di che arma era? Le mostrine sul bavero della giacca, mi erano sconosciute, ma il grigioverde della divisa era inequivocabile: Esercito! Rientrato all’Aeroporto di Linate, consegno agli Uffici della palazzina Comando, i documenti della missione, e racconto il fattaccio al Maresciallo di Fureria: "Non te la prendere - mi consola il sottufficiale senza emozionarsi - tu eri a posto: il timbro ‘Diretti’, include anche i direttissimi.". Dopo una quindicina di giorni, sono in servizio al Corpo di guardia. Mi chiama un caporale: "Ti vuole il Colonnello!.. Subito!". Dico esterrefatto: "Il Colonnello?..." e quello: "Sì, sì. il Colonnello, e muoviti!". Mentre corro al Comando penso: "Ci vado proprio, o mi faccio disertore, già che sono in tempo?" Intanto sono arrivato, e non posso più disertare. Un sergente, apre la porta di un uno studio e mi annuncia: "Signor Colonnello: c’è qui l’Aviere convocato". Una voce semibaritonale, risponde: "Fatelo entrare e chiudete la porta." Mi trovo davanti ad un uomo alto, segaligno, rigido come un palo, con due baffetti alla Douglas Fairbanks: cinque strisce di nastrini multicolori, al di sopra del taschino sinistro, sormontate dall’aquila d’oro con le ali spiegate dei piloti e, sotto al taschino sinistro, un paracadute rosso: quello del "Corpo speciale guastatori!". Mi sento un verme! Il Colonnello, prendendo l’atteggiamento di quel tale Agente americano, mi dice, apparentemente calmo, ma preparandosi ad inghiottirmi: "Tu hai viaggiato su un treno diretto, senza autorizzazione. Ti rendi conto della gravità di questo fatto? Eh?". Rispondo timidamente: "Ma, signor Colonnello, io l’autorizzazione l’avevo per... i treni diretti". Lui: "Non mi smentire! Qui c’è un rapporto, del Comandante di un Reggimento del Genio Pontieri, che parla chiaro. E fa il tuo nome. Hai capito?". Sull’orlo di una commozione viscerale, rispondo: "Sul documento di viaggio della mia missione, signor Colonnello, c’era il timbro per i treni diretti, io non so che altro dire!". L’Ufficiale superiore mi guarda severo; poi, di scatto, preme un bottone sulla sua scrivania, e intonando dal basso un crescendo di voce, mi scarica: "Senti un po’: io non sono qui, né a perdere tempo; né a farmi prendere per i fondelli da nessuno. Adesso mi faccio portare il tuo documento di viaggio, e prega il tuo Dio, che ci sia il timbro dei treni diretti. Hai capito?... Se non c’è; ti mando in fortezza per il resto dei tuoi giorni!". Le ultime parole, urlate, le sentono, alla faccia della porta chiusa, anche Collazzo e Gattico, che tifano per me, a piano terra. Entra il Sergente: "Signor Colonnello: ha chiamato?". "Sì: faccia cercare il foglio di viaggio del signore qui presente." E, rivolto a me:"Tu aspetta!". Il Sergente esce; rientra un minuto dopo col documento, lo consegna e se ne va. Il Colonnello, legge attentamente il foglio; infine caccia un’imprecazione e, incavolato più di prima, pesta un pugno rabbioso sulla scrivania. Poi, ricordandosi della mia presenza, mi ordina secco: "Vattene!" e, senza darmi il tempo di muovermi, ripete meno rudemente: "Vai!... te ne puoi andare!". Io, porto la mano alla visiera e mi avvio, lemme lemme, insoddisfatto, guardando lui, il foglio e la sua scrivania. La tremarella mi è sparita completamente. Davide ha battuto Golia. Il Colonnello capisce, ma abbozza. Qualche giorno dopo, incontro il Maresciallo della Fureria: "Maresciallo, mi può dire come è finita poi, col rapporto che mi hanno fatto?". Il Sottufficiale, mi guarda; incomincia a sorridere, poi finisce con una aperta risata. "Dovevi sentirlo il tuo Colonnello... Non te lo dovrei dire, ma... insomma... Ha chiamato il dattilografo e gli ha dettato una letteraccia da spedire a quel suo pari grado del Genio Pontieri; dicendogli, che prima di fare rapporto a un aviere, insegni ai suoi sergenti a leggere i documenti di viaggio, e che deve finire il malvezzo, che i militari dell’Aeronautica, che sono i più disciplinati delle tre Forze Armate, siano sempre vittime delle antipatie di quelli, appartenenti all’Esercito... Ah!,... e poi... che si riservava di presentare un rapporto, al Comando di Stato Maggiore. Contento?". Rispondo: "Sì ma a me, però, non ha dato soddisfazione." Il Maresciallo, divertito, mi sussurra all’ orecchio, come se parlasse a un infante: "Sai perché? Perché aveva paura dei tuoi sculaccioni.". Mi pianta in asso, e se ne va.
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TRA
CASA E AEROPORTO. Ritornato da una delle mie missioni; nello scampolo di un giorno di libertà, ottenuto come già detto; una sera, arrivai a casa dai miei famigliari: genitori e sorella. Mio fratello maggiore: dieci anni più di me, già ammogliato, con una bambina, viveva per suo conto in una casa popolare. Ma, al momento, era un richiamato alle armi; di stanza a Vibo Valentia. "Artigliere, di Artiglieria Pesante Costiera!"; amava sempre, affermare, con vanto, quando ne parlava. La cena fu misera, data la scarsa qualità e quantità di alimenti: una minestrina, con brodo di dado e orzo; un trancio di frittata dai componenti indecifrabili; pane nero che, si diceva, contenesse una buona parte di segatura di legno. E "caffè" d’orzo tostato. Dopo cena, quando stavo raccontando le mie avventure di viaggio; le sirene d’allarme cominciarono lugubremente ad ululare ad intermittenza. Papà sentenziò con freddezza: "Questi, sono gli Inglesi; che vengono a restituirci le bombe, che la nostra aviazione, in compagnia di quella tedesca, è andata a scaricare su Londra." Non sempre i bombardieri inglesi arrivavano su Milano: quindi qualche allarme, per la nostra città andava a vuoto. Tuttavia, gli inquilini più prudenti, comprese mia Mamma e mia Sorella, scendevano sistematicamente ad ogni urlo di sirena, nella cantina dello stabile, che era attrezzata, come molte altre, a rifugio antiaereo. Papà ed io per contro, quella volta, rimanemmo soli in casa a conversare; pronti comunque, alla prima colata di bombe, a scendere velocemente anche noi. Ricordo quel colloquio! Ebbi l’impressione che Papà si accorgesse, in quel momento, che io ero cresciuto, divenuto uomo; e che questa constatazione, lo turbasse. Mi parlò, come non mai; senza più quel tono conciliante (quando lo era) e paternalistico, che prima gli era solito con me. Insomma: dava più peso alle mie considerazioni. Parlammo della guerra, dei valori della vita, dell’importanza degli affetti. Seguiva i miei discorsi con attenzione, come se volesse rendersi conto, di quanto mi avevano cambiato, quattro mesi di servizio militare, lontano dalla famiglia. Ancora poco prima della mia chiamata alle armi, frequentemente mi avvicinavo a lui, lo abbracciavo e lo baciavo sulla guancia o sulla fronte, come sempre avevo fatto sin dalla mia prima infanzia. Un giorno, nel corso di una di queste mie effusioni, mi disse infastidito e, direi, per un certo verso perplesso: "Andemo! Ormai ti xe un omo: no sta ben questi stomeghessi!". Conosceva bene la lingua italiana, dopo anni di ginnasio e liceo; ma non c’è verso: per i veneziani; almeno tra le mura domestiche; la lingua madre è il dialetto di San Marco. Replicai: "Ma cossa ghe xe de mal? Ti, ti xe sempre el mio Papà!". Tacque, ma capii, che, sotto, sotto, era compiaciuto; anche perché, credo, la mia risposta gli fugò certi sospetti; se mai li avesse avuti. Quand’ero bambino, m’inebriava il profumo dei suoi capelli e della pelle del suo viso. Non lo vidi mai profumarsi; ma, un giorno sì e uno no, si faceva radere dal barbiere, il quale terminava l’opera, col tocco finale della spruzzatina. E, oltre che addosso a lui, quel profumo, lo trovavo, anche sul suo cuscino da letto. Quand’egli, al mattino, si alzava, io chiedevo subito: "Mamma, posso venire nel tuo letto?". E, ottenuto il permesso, annusavo e riannusavo, felice, quel guanciale, come un cane da tartufi. Era il profumo del mio Papà!
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IL
FATTACCIO Quando le sirene di "cessato allarme", e per quella volta, anche di scampato pericolo, risuonarono, come di norma, ad ore antelucane, Mamma, Papà e Renata, morti di sonno, andarono a letto subito. Io tardai: avevo fame; abituato com’ero alle razioni militari. Aprii la dispensa, con un certo senso di colpa e vidi, paradossalmente sollevato, che non conteneva nulla. Anzi, trovai, per la precisione, un barattolino aperto di latte in polvere e una bustina, sigillata; con l’illustrazione di alcuni rossi d’uovo, e la scritta: "Contiene l’equivalente di otto tuorli d’uovo". In sostanza, mi fu detto dopo, si trattava di avanzi abbandonati, che nessuno, in casa, nonostante la carestia, aveva osato consumare. Alé! Un po’ d’acqua, a scaldarsi sul gas in un pentolino e poi: giù il quarto di scatola di latte in polvere; un pizzico di sale e giù anche, crepi l’avarizia, tutta la polvere di rosso d’uovo (ma lo era?): una mescolatina, col cucchiaio, e: "buon appetito!". Il ricordo del sapore di quell’intruglio, è in me offuscato, da quello catastrofico, delle conseguenze dell’ eroica ingestione. Rientrato il giorno seguente in Aeroporto, percepii inizialmente un’insolita avversione per gli spezzatini di manzo del rancio: mi davano nausea. Dopo due giorni un pomeriggio, radendomi allo specchio, vidi che il mio viso aveva preso un colore decisamente giallo-ocra. La nausea non mi dava pace e il fegato si faceva sentire. L’urina poi, aveva un bel colore topazio carico. Allarmato; corsi all’Infermeria e denunciando dolori al fegato, chiesi una visita urgente. Il Tenente Medico mi guardò senza espressione, tirando con un dito la mia palpebra inferiore, scoprì la sclera, ed enunciò telegraficamente all' infermiere: "Ittero catarrale", cioè, per i non addetti ai lavori: "Itterizia". Sempre rivolto al suo assistente l’Ufficiale; mentre io lo osservavo come un asino guarda il suo veterinario; decretò: "Questo, lo mandiamo all’ Ospedale Militare di Baggio, come gli altri.". Ma; dopo un istante di riflessione, corresse il mio destino: "Anzi, no! Questo lo teniamo qui, in Infermeria. Voglio fare un esperimento, per vedere se riesco a guarirlo io. Poi, se non riusciremo a tirarlo fuori, lo manderemo a Baggio e se la vedranno loro.". Infine, sparò la terapia: "Infermiere: ricorda bene! Due iniezioni intramuscolari di XXX: una al mattino, e una alla sera alle 17. Gliele farai tu. Poi, tutti i giorni alle 14, prepara il laccio emostatico, e la siringa da 20 cc. sterilizzata; perché gli praticherò un’endovena. Dieta: latte, latte, e solo latte". E se ne andò. Il Caporale infermiere, pensò bene di consolare francescanamente la mia apprensione, dicendomi: "Mo’ sei a posto: quello, quando fa le endo, si annoia. Ce ne vuole di tempo, per mandare in vena 20 cc.; e lui lo passa fischiettando e guardandosi in giro. Una volta, per quel vizio, ha pompato in vena a uno, un po’ d’aria. Quello, ha cambiato subito colore e ha perso i sensi. L’hanno rifilato di corsa, con la nostra ambulanza, a Baggio. E di là non è più tornato. Non so se è morto. Ma da allora il Tenente, ha mandato tutti quelli con l’itterizia a Baggio. Adesso, vedo che ricomincia qui, con te." Lo ringraziai del pronostico. Il graduato, tolse poi dall’armadio bianco, una canna telescopica da pesca e un secchiello; e riprese a parlarmi: "Ascolta: mo’ vado a pescare qui fuori in Darsena: ci sono dei bei cavedani. Alle cinque, torno per l’iniezione.". Ed anche lui se ne andò, senza togliersi il camice bianco; che fa tanto dottore; lasciandomi solo, a guardare le nude pareti, dell’infermeria deserta. Tornò, puntuale, alle cinque e premuroso mi chiese: "Devo farti l’iniezione?" E io: "No!". E lui: "E va be’!.. Di latte non ce n’è. Mo' friggo queste alborelle, appena pescate; e poi, se vuoi, te ne do un po’.". Non risposi, né lui attese risposta. Prese invece un fornello a spirito, che serviva per bollire l’acqua delle siringhe; lo posò sul piano di vetro del deschetto dei prodotti per le medicazioni; vi aggiunse dell’alcool denaturato; l’accese e, sopra, collocò una gamella entro cui versò dell’olio, barattato con le cucine ("io ti do il cotone idrofilo; tu mi dai l’olio per friggere".), lo scaldò; e poi vi immerse i pesciolini già sventrati e puliti; mentre a mezza voce canticchiava: "Vincere, vincere, vincere! E vinceremo in terra, in cielo e in mar...". Poco dopo, rivolto a me insistette: "Mo’ sono cotti. Allora proprio non ne vuoi?". Accennai di no col capo. Egli fece spallucce e si sedette a mangiare sul letto vuoto accanto al mio: la pagnotta in mano, e il piatto d’alluminio appoggiato sulle cosce. Il giorno dopo, alle due del pomeriggio, non potei sottrarmi all’endovenosa. Laccio emostatico stretto sul braccio destro, e siringa gigante con 20 cc. di liquido... esoterico. Fui invitato a sdraiarmi sul lettino delle visite, e a guardare in alto. L’Ufficiale Medico, dopo tre vani tentativi, azzeccata finalmente la vena, cominciò ad iniettare. Qualche istante dopo, lo sentii fischiettare. Incrociando, al di sotto del lettino, due dita della mano libera, recitai mentalmente, chiedendo perdono a Dio, un rosario di vituperi, tutti diretti, al mio incosciente carnefice. Sono comunque sopravvissuto.
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IL
NUOVO COLONNELLO Autorità! Autorità! A che serve l’ Autorità se non se ne fa abuso? Al ritorno da una missione, trovai Gattico, in turno di servizio al Corpo di guardia. Mi accolse con un: "E’ finita la bella vita!". Gli chiesi con un po’ d’ansia: "Cosa è successo?". Si allontanò di pochi passi, e squillò il segnale per la chiamata di chi marca visita. Ritornò verso di me e: "Dunque! Durante la tua assenza, è stato cambiato il Colonnello Comandante l’Aeroporto. Quello nuovo, dopo un’ispezione a tutti i livelli, ha detto che qui la vita è troppo comoda e che bisogna aumentare la disciplina; e ha iniziato subito con nuove disposizioni e minacce di punizioni". Il collega continuò ad illustrarmi i cambiamenti, con la sua solita aria sorniona, e avendo capito che a me premeva di avere notizie, soprattutto sulle eventuali modifiche al nostro servizio; lasciò volutamente, con una punta di sadismo, queste informazioni per ultime, come la famosa ciliegina sulla torta. Non è che il nuovo Comandante avesse avuto con noi trombettieri, la mano tanto leggera. Come primo provvedimento, ci fu tolta la facoltà di assentarci dall’aeroporto, nel tempo libero tra i turni di servizio. Lo potevamo fare, ma soltanto alla sera, nelle ore di libera uscita per tutti. Inoltre, il Vicecomandante, Capitano Ostali, aveva avuto l’ordine di trovare del lavoro, per i trombettieri in turno di riposo. Il Capitano era un ufficiale di complemento, richiamato in servizio per "Stato di guerra". I suoi capelli, più sale che pepe, tradivano un’età sui sessant’anni. Sempre serio, parlava un italiano corretto, ma asciutto, da buon meneghino. Era secco nelle sue espressioni: un atteggiamento imposto dalla disciplina militare, ma si capiva che ne avrebbe fatto volentieri a meno. Curiosamente, ai subalterni dava del "Voi". Io, quando lo vedevo da lontano, giravo al largo: per istintiva soggezione. Un giorno, me lo trovai alle spalle, ad una quindicina di metri. Lo vidi, con la coda dell’occhio; ero in servizio, vicino al Corpo di guardia, e non mi fu difficile guardare con naturalezza da un’altra parte. Sentii un paio di: "Pst!... Pst!...". Non mi voltai. Allora egli fu più esplicito: "Ehi! Trombettiere!". Ora, non potevo non aver sentito. Mi girai di scatto: finsi di vederlo in quell’ istante, corsi e mi piantai, a un passo da lui, sull’attenti. E’ da dire che la posizione di "Attenti", di un trombettiere è un po’ ridicola, perché; oltre ad assumere l’irrigidimento dello stoccafisso, bisogna appoggiare l’imboccatura della tromba sulla spalla destra, con lo strumento in posizione orizzontale e diretto in avanti. Una figura, che richiama molto la sagoma di un lampione stradale. Il mio Superiore, mi guardò un attimo, severo, in silenzio, tenendo un occhio socchiuso, mentre con l’altro mi esaminava attentamente. Pensai che si chiedesse: "Questo è scemo, o lo fa?". Dissimulava: a me sembrava più divertito che irritato. I miei occhi guardavano, inespressivi, nell’infinito dell’orizzonte; come disciplina vuole. Egli mi si avvicinò e diede una pacca sulla tromba sbilanciandomi. "Abbassate questo strumento!". Risposi: "Signor Capitano, questa è la posizione d’ordinanza, dovuta di fronte a un superiore!". Non si scompose: "Abbassatelo lo stesso!". Capii che era una persona pratica, che non amava le formalità: un rappresentante della nobiltà ambrosiana, che guarda al sodo e non fa chiacchiere. Obbedii. Entrò subito in argomento. "Ditemi un po’. Vi sentireste di organizzare qui, un’orchestra per il tempo libero?". Soppesai le mie capacità e non ci volle molto per dichiarare: "Ho suonato da civile il trombone tenore, e, al massimo, potrei riprendere, come elemento sotto direzione; ma dal punto di vista amministrativo e logistico non avrei problemi, signor Capitano.". Sembrò soddisfatto della risposta, perché mormorò, come tra sé: "Difficile è trovare gli strumenti. Vedrò." E se ne andò, lasciandomi con la tromba a mezz’asta. Qualcuno, in seguito, mi confidò, che aveva parentela o interessi con la grande Casa Editrice e Musicale "Sonzogno". Evidentemente qualche progettino era transitato nella sua mente. Comunque non me ne parlò più. Gattico mi precisò che il Maresciallo di Fureria, aveva già comunicato a lui e a Collazzo, mentre io ero in missione, gli ordini del Capitano Ostali, relativi ai nostri compiti aggiuntivi: Collazzo in rinforzo alle cucine; Gattico, alla cassa della mensa Ufficiali e Sottufficiali; e il sottoscritto in aiuto amministrativo al Maresciallo Quarelli, del Magazzino vestiario. Da quel brav’uomo che era, il Capitano Ostali, nello scegliere per noi trombettieri, il nuovo lavoro, non calcò la mano, anche perché ben sapeva che l’ordine del Colonnello, andava contro il regolamento, il quale escludeva il trombettiere da qualsiasi impiego, che non fosse quello della sua specializzazione. E’ da rilevare che, il turno di servizio di un "Trombettiere segnalista di Caserma", era di ventiquattrore filate, (pari a tre giorni lavorativi), nel corso delle quali, il soggetto doveva indossare la divisa d’ordinanza; la sua presenza al Corpo di guardia, si intendeva ininterrotta; e la notte, gli era consentito di riposare, ma completamente vestito, solo sul tavolaccio inclinato del Corpo di guardia, e in ogni modo, doveva ritenersi disponibile per qualsiasi evenienza. Nella migliore delle situazioni, i turni alternavano 24 ore di servizio con 48 di riposo. Nel più disperato dei casi invece, come quello in cui il cambio non fosse possibile per una qualsiasi ragione; il trombettiere aveva il dovere di continuare il suo servizio sine die. Gattico, mi affermò, che il nuovo lavoro, gli piaceva, anche perché, ufficiali e sottufficiali, frequentemente gli allungavano qualche mancetta, e lui migliorava questi introiti, elargendo, in quell’ambito, piccoli favori a destra e a manca. Ero contento per lui.
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LA
CAMERA OSCURA In quel periodo, allacciai invece una buona amicizia, con un commilitone della Palazzina Comando. Si chiamava Renzo Vanzini, era di Mirandola, e da buon modenese amava la cucina casalinga; tanto che qualche volta, la sera; dopo che il suo ufficio si era svuotato di gente; vi allestiva uno spartano e privato angolo di cottura, per ammannirsi le tagliatelle al matterello, che mamma gli inviava da casa. Casualmente un giorno, in mia presenza, Renzo, per riporre le stoviglie della sua improvvisata cucina, aprì, dietro la sua scrivania una porticina, di là dalla quale vidi un ripostiglio, cieco, di circa tre metri quadrati; con un tavolo appoggiato ad una parete. La mia fantasia corse istantanea, ed esclamai: "Bello! Io ci piazzerei un laboratorio fotografico". Renzo, che sapeva della mia passione per la fotografia; ne avevamo parlato nel corso delle nostre lunghe chiacchierate; rispose serio: "Se te la senti, ci puoi provare; tanto questo vano non interessa a nessuno, anzi, per la verità ne è ignorata anche l’esistenza. Naturalmente potresti lavorare solo di sera, quando l’ufficio è deserto.". Accettai l’offerta, ma per trasformare quell’angusto sgabuzzino, in una specie di camera oscura, dovetti rinunciare a qualche comodità. Mi procurai intanto il minimo indispensabile materiale: tre bottiglie di liquidi chimici; tre vaschette di vetro per i bagni di trattamento; una tank della "Paterson", per sviluppo di pellicole; un marginatore, una lampada a luce rossa per pellicole ortocromatiche, e infine, un ingranditore; messo insieme da me, con mezzi di fortuna; adattando allo scopo, una vecchia macchina fotografica a lastre, con doppio soffietto; scelta nella vetrina delle occasioni, da Jenzi, al passaggio degli Osii, di fronte al Duomo. Non essendoci nel locale acqua corrente, sopperii con una tanica d’acqua potabile e un paio di secchi. L’assenza di un aspiratore, in quella cella, si faceva sentire sotto forma di aria pesante e sudore, che mi imponevano di socchiudere la porta d’ingresso, quando non ero costretto lavorare a luce inattinica. Mi fu così possibile sviluppare e ingrandire, in aeroporto, le mie foto private, che scattavo in libera uscita coll’amico Renzo; usando la "Bessa Woigtländer con telemetro"; che Mamma mi aveva regalato (ovviamente raccomandandomi di non fiatare con Papà), poco prima della mia chiamata alle armi. Un giorno, in turno di riposo, girando per l’aeroporto col mio apparecchio fotografico, in cerca di qualche scatto interessante; capitai davanti a un plotone di reclute, nuovi arrivi, che nel solito spiazzo asfaltato, davanti all’hangar facevano, esercitazioni di marcia e di maneggio del fucile; agli ordini di un caporalmaggiore. In un momento di sosta, dopo la rottura delle righe, una burba, mettendosi in posa mi strillò: " Tromba! Fammi una foto! ". Potevo dirgli di no? Come mi disposi allo, scatto, arrivarono, fulminee, a sistemarsi attorno al mio soggetto, tutte le altre reclute. Finii per fare una foto di gruppo. L’episodio ebbe un seguito...diciamo industriale; perché, sollecitato dalle richieste dovetti, dal negativo di quella posa, stampare, di notte nel mio "laboratorio aeroportuale", una trentina di ingrandimenti; che però mi furono regolarmente pagati. Fatti i conti, rilevai che questa attività era redditizia: un foglio di carta da stampa, mi costava 20 centesimi e vendevo ogni ingrandimento agli interessati per due lire. Tuttavia, il lavoro di camera oscura, in quelle condizioni, era molto pesante, per cui ritenni di non incoraggiarne l’incremento.
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AL
MAGAZZINO VESTIARIO Ricevuto l’ordine dalla Fureria, andai a presentarmi al Magazzino vestiario. La porta d’entrata, in testa alla baracca, era aperta. All’interno sulla sinistra si intravedeva un ufficio. Chiesi permesso. Una voce cordiale, dall’accento emiliano, rispose: "Avanti!... Avanti!". Entrai e ad una scrivania, abbastanza malridotta, vidi seduto il Maresciallo Quarelli. Il Sottufficiale, era di Parma. Alto, magro, divisa impeccabile; aveva un viso che stranamente richiamava quello di una volpe argentata: le guance scavate, pallide; il naso regolare e un po’ allungato; due occhi chiarissimi e pungenti. Ci conoscevamo di vista, ma, sino a quel momento, non avevamo mai avuti rapporti diretti. Dissi: "Maresciallo, sono ai suoi ordini." Lui mi indicò una sedia esclamando: "Ah! Tu sei il nuovo aiutante. Siediti!". Mi informò che con tre altri avieri, stava provvedendo all’inventario del magazzino, e che io avrei dovuto dargli un aiuto, nel conteggio di brande, coperte, ecc.: tutto ciò insomma, che riguardava gli effetti letterecci. Mi assegnò la scrivania che si trovava di fronte alla sua, e mi diede un registro nuovo, perché, del settore appena assegnatomi, nulla ancora era stato controllato. Mi misi subito al lavoro, e così conobbi gli altri tre avieri addetti all’inventario. Tra noi non poté mai stabilirsi, in seguito, un rapporto di aperto cameratismo, perché uno era sciapo, il secondo sempre ingrugnato e l’altro m’ispirava un’istintiva diffidenza. Durante il mio lavoro d’inventario, una volta esplorai tutto il magazzino. Fui colpito da un solo fatto. In uno scaffale, dentro una cassetta di legno aperta, c’erano alcune pistole "Beretta", se ben ricordo, calibro 7.65 e 9. Al momento, mi meravigliai che fossero lì, a portata del primo venuto; ma dopo, ripensandoci, conclusi che in quel luogo eravamo in definitiva tutti dei militari, e quelle pistole non erano altro che arnesi del nostro mestiere. Presi in mano una calibro 9: arma da guerra. Era la prima volta che ne avevo una a mia completa disposizione, e ne approfittai per conoscerne il funzionamento. Nel soppesarla giudicai che superava il chilo. Tirai indietro la culatta, poi tolsi il caricatore dal suo alloggiamento: era vuoto. Nella cassetta non c’erano né caricatori completi, né pallottole. Dovetti quindi interrompere la mia esercitazione a freddo, perché mi veniva a mancare la materia prima. Riposi l’arma e continuai il mio giro. La mia obbligata assenza, di un giorno su tre per il turno di tromba, interferiva negativamente sul mio lavoro nel magazzino. Oggi inventariavo novanta coperte e dopodomani, ad una verifica, ne ritrovavo soltanto ottantotto. Così, per le lenzuola e così anche per altra roba. Mancava sempre qualcosa. Nessuno degli altri tre avieri che lavoravano con me, mi sapeva dire, chi avesse prelevato i capi mancanti. Informai del fatto il Maresciallo Quarelli, il quale non ebbe la reazione che mi sarei aspettata. Prima mi chiese se fossi sicuro degli ammanchi, poi mi consigliò di modificare le registrazioni, per adeguarle ai risultati del nuovo controllo. Mi chiedevo che razza di inventario avrebbe poi presentato al Comando; e che razza di Comando avrebbe accettato quell’inventario. Conclusi che, in ogni caso, io ero lì per legare l’asino dove voleva il medesimo, come diceva un mio conoscente di spirito. Un giorno, ero solo in ufficio, il Maresciallo arrivò fuori di sé, urlando: "Ma siamo scemi? In magazzino mi manca una pistola! Capisci? Una pistola, non un paio di scarpe!" (sparivano anche quelle). Pausa. "Roba da Gaeta!... A chi glielo vado a raccontare adesso?... Al Colonnello?... Quello mi deferisce alla Corte Marziale!". Io rimasi di stucco, e pensai che questa volta il furto, sarebbe stato denunciato al Comando Carabinieri dell’Aeroporto, con la conseguenza, anche per me, di indagini, interrogatori, processi. Mi vedevo già deportato a vita al Castello d’If, a fare compagnia all’abate Faria. Del mio pallore e del mio sconcerto, si avvide anche il Maresciallo, che, nonostante il suo turbamento, mi acquietò con un’affermazione che mi ricondusse alla vita: "Non ce l’ho con te; Io so che queste cose tu non le fai!". Sapevamo entrambi chi era il ladro, ma come provarlo? Il fatto non ebbe conseguenze, non seppi più nulla di quella storia, e mi astenni bene dal fare domande al riguardo. Il lavoro nel magazzino, continuò in quella maniera poco ortodossa, e mai scoppiò una grana per tutta la mia permanenza al Forlanini. Io lasciai l'Aeroporto qualche mese dopo, per trasferimento a Rieti, alla Scuola Sottufficiali. A guerra finita, incontrai un mio ex commilitone dell’Aeroporto di Linate, che mi ragguagliò sui fatti successivi al mio trasferimento. Mi raccontò, che l’Aeroporto fu gravemente bombardato pochi giorni dopo la mia partenza, alla fine di Luglio del 1943; e che nel Settembre successivo, il Comando fu preso dagli ufficiali tedeschi della Luftwaffe. Egli allora disertò, e visse a Milano, nascosto in casa di sua madre, sino all’arrivo degli Americani. Aggiunse che Il Maresciallo Quarelli, era stato fucilato dai tedeschi, e che non ne sapeva la motivazione. Ne fui addolorato. Povero Quarelli!.
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