Vecchio Giorgio 4

Le sue poesie 1 - 2 - Poesie per i bambini - Racconti di vita 1 -2-3-4-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15    

 

Racconti della serie : SCUOLE

I PRIMI GUAI DI UNA VITA  LE BIRICHINATE IL PRIMO GIORNO ALLE ELEMENTARI IL GUAIO DI ESSERE MANCINO ALLA SCUOLA MEDIA "EL GIGI DELLA GNACCIA"  L’ISTITUTO PRIVATO
DISAVVENTURE STUDENTESCHE UN PRECISO "UPPERCUT"  IL "VIVEUR" UN MATCH "REGOLAMENTARE"  IL MIO LUCIGNOLO PRIMO DELLA CLASSE   

 

I PRIMI GUAI DI UNA VITA


Mamma, mi presentava alle sue amicizie così: "Questo è Giorgio, il mio piccolo, il mio dopoguerra".

Non so che importanza avesse, per lei, il fatto che fossi nato poco dopo il Conflitto Europeo 1915-1918. Penso che, inconsciamente, ella avesse diviso la sua vita in due periodi interrotti dalle privazioni, dai sacrifici, dai dolori di quei terribili anni; nei quali col marito al fronte e due figli da nutrire (un bimbo di sette anni, Livio; e una bambina di cinque, Renata, detta Tina); aveva dovuto, come gli altri e più degli altri, faticare strenuamente per non soccombere.

Non è retorica. Ho una fotografia dell’epoca, che ritrae un gruppo di lavoranti dell’ Unione Femminile Nazionale, in Milano, Viale Monte Grappa, 8 (Credo che l’edificio esista tuttora), presso la quale Mamma lavorava, a cucire maschere antigas e divise militari: ebbene tra tante donne, non certo corpulente, ella spicca per una magrezza impressionante, che rende credibile la sua affermazione; quando ricordava quel tempo; di pesare, alla fine della guerra, soltanto 37 chili.

Mio padre, nel contempo, non è che se la fosse passata meglio. Chiamato alle armi nel 1916, partecipò ad una logorante guerra di trincea; fu ferito al fronte, e poi contagiato dalla gravissima epidemia influenzale detta "Spagnola"; alla quale sopravvisse gravemente debilitato, tanto da essere qualificato invalido di guerra; e come tale di percepire la relativa pensione.

Da una coppia così malandata, non poteva nascere che un "dopoguerra", come me, sano, ma gracile; sicché i medici non ebbero mai difficoltà a diagnosticare, per tutto il corso della mia infanzia; l’ingrossamento delle mie ghiandole linfatiche sottomascellari, di quelle ascellari e di quelle inguinali, e a dichiarare la facile predisposizione del mio fisico, alle bronchiti e all’infezione tubercolare.

Io, per non deludere i dottori, regolarmente mi ammalavo almeno di bronchite ad ogni colpo d’aria, e ad ogni cambio di stagione. Per non parlare del dissesto del mio sistema nervoso (emotività, ansia, paure, pessimismo, timidezza), di cui allora nessuno praticamente si curava, tranne Sigmund Freud, che ancora le stava studiando. Il primo ad accorgersi delle mie malattie, era Papà, Alla sera, durante la cena: quando notava che io non ero molesto come al solito, si insospettiva: mi guardava negli occhi e, vedendoli lucidi, esclamava: "‘Sto fio el ga la febbre!" (era veneziano di nascita, e così pure mamma). In tal modo cominciava un rito cautelativo, più volte collaudato: subito a letto, prova della temperatura corporea (38 gradi), peretta (in primis et ante omnia: liberare l’intestino), niente mangiare e mobilitazione famigliare, per sorveglianza a vista. All’infante così spiegavano queste prime torture: "Intanto questo. Poi domani sentiremo cosa dirà il dottore".

La mattina successiva, la febbre saliva a 39 e mezzo. Verso mezzogiorno arrivava il medico di famiglia, un rumeno; si chiamava Pasargiklian: tozzo, pelle scurissima, testa rasata; parlava con voce cavernosa e ostentava modi sbrigativi. Assomigliava all’ Otello di Shakespeare: perfetto per spaventare i bambini. Prima cosa, mi faceva mettere seduto sul letto, con un telo sulla schiena, e mi auscultava i polmoni. Poi, vi martellava in più punti con le dita; per garantirsi che non ci fosse qualche buco interessante. Infine, mi faceva girare con la pancina in su, e avventava le sue manone nere sui miei intestini, affondandovi le aguzze grinfie, e giravoltandoli, come a cercarvi un tesoro nascosto. Dopo tutto ciò, sparava, ai miei genitori in apprensione, diagnosi e terapia: "Una bronchite doppia, catarro, molto catarro. Solo brodo di pollo, non ristretto; due scatole di intramuscolari (e intanto scriveva sul ricettario): una la mattina e una la sera; poi due cataplasmi giornalieri, a dodici ore di distanza uno dall’altro.".


I tre complici, parlottavano sottovoce e con espressioni esoteriche, da stregoni; ma io, benché avessi soli quattro anni, traducevo in simultanea: tante punture e tante polentine; e incominciavo a urlare. Il medico allora mi rimproverava severo con quel vocione: "Su, su, non fare tante storie!". Poi rivolto ai miei genitori: "Con i bambini bisogna essere un po’ severi: io i miei li tiro su come soldatini!". Ciò, mentre io, piangendo, pensavo. "Guarda là, come i dottori rovinano i padri e le madri!".


Acquistati i medicinali, mio Papà; che in tempo di guerra aveva espletato incarichi di "Aiutante Chirurgico" all’Ospedale Militare di Riserva, di Soresina; avanzava indomito, con la siringa in mano, verso il quarto superiore esterno di una delle mie natiche e: Zac! incurante delle mie fiere e altamente acustiche proteste, vi affondava l’ago, concludendo con la serafica dichiarazione: "Xe per el to ben!" che, in quel momento, alle mie orecchie risultava come una gratuita espressione di sadismo.


Non parliamo poi delle "polentine". Incominciavo già a digrignare, quando dalla cucina giungeva al mio lettino, l’odore minaccioso dell’intruglio bollente dei semi di lino. E non ti dico quando, in processione, arrivavano i due carnefici che mi avevano generato (uno per tenermi e l’altra per impiastrarmi), con la timorosa testimonianza di mia sorella; la quale non osava avanzare oltre la soglia della "Camera di tortura". E quando la colata lavica si scaricava sul mio innocente, tenero petto, cacciavo grida acute e annaspavo con le manine, alla cerca di un telefono azzurro, che ancora non era stato ideato.


La febbre! Ah! La febbre! Quando raggiungeva e superava i quaranta gradi, la testa si tramutava in un’officina; con tanto di maglio, che batteva sistematicamente sopra una inesistente lamiera; e di bilanciere il quale, ad ogni battito cardiaco, mi lacerava il cervello, con i suoi: "Slamm!.. Slamm!.. Slamm!..". Per non contare l’aggiunta dei rumori esterni. Mi rintrona ancora nel cranio, l’effetto devastante che, in un pomeriggio di febbre, mi provocò, nel silenzio della mia stanza, lo scalpitio ritmico e lento, di cavalli al traino, sul selciato della strada sottostante. A tutto questo, si sommava il tormento della respirazione difficoltosa, per il blocco di catarro che opprimeva i miei poveri bronchi.


Seguiva, lentissimo, il miglioramento, preannunciato da un progressivo calo della febbre e una espettorazione sempre più esplicita, indi la guarigione e la ripresa graduale dell’ alimentazione: dapprima una sbroscia con poco pangrattato, poi capelli d’angelo molto brodosi, poi semolino al latte e così via. Concessione speciale, in aggiunta alle fiale di fermenti lattici, impostemi dal nero Otello; un vasetto di Yogurt. In commercio esisteva allora una sola marca, la "Balkan", ed era di un unico gusto: quello acidulo del semplice latte coagulato. Seguivano poi i primi incerti passi fuori del letto, e la lunga convalescenza, con le cautele del caso: cioè gli "arresti domiciliari", per prevenire le ricadute.


Quando infine, mi rimettevo al punto di dare sufficienti garanzie per un’indenne uscita di casa, ero affidato, previa maglietta di lana, pulloverino di lana, e sciarpina di lana, a mia sorella Renata, affinché mi accompagnasse, in via Toce, all’ "Asilo infantile". Allora si chiamavano così le scuole materne.


I miei rapporti, con Renata, furono, per tutta la lunghezza della nostra vita, insoliti, speciali; e non posso, in questa sede, incominciare a parlarne; perché sarei indotto a continuare fino in fondo. Non è questo il tempo e il luogo, però, forse, un giorno...


Per il momento, mi limiterò a dire che, alla mia nascita, Renata aveva solo otto anni; e mia Mamma; che era una mamma, è il caso di dirlo, all’antica; incominciò subito ad affidarmi a lei, per quanto ella fosse in grado di assistermi. Prima cosa, la compagnia: insomma doveva giocare con me, o raccontarmi delle favole, quando i "grandi", avevano altro da fare o dovevano ciacolar.



LE BIRICHINATE


Da questo inizio, mia sorella, pian piano e, con l’avanzare dei mesi, fu indotta, per amore o per forza, ad occuparsi di me; come compagna di giochi, bambinaia, istitutrice, ecc.; e così i nostri rapporti, divennero da corte dei miracoli, perché, a seconda delle situazioni, eravamo fratelli, o avversari, o nemici, o complici, o concorrenti, e chi più ne ha più ne metta.


Per esempio, quando nel pomeriggio, Renata era inviata, da nostra Mamma all’Asilo, per prelevarmi e riaccompagnarmi a casa; ella, lontana e libera dal giogo della genitrice, si scatenava finalmente ad inventare qualche monelleria, e mi avanzava proposte che io, giudicavo luciferine e approvavo in pieno con entusiasmo, imponendo addirittura la mia opera come braccio secolare. Un giorno ella mi propose: "Sai cosa facciamo? Suoniamo i campanelli di tutte le villette che troviamo andando a casa. Ci stai?" ed io: "Sì, sì; però suono io!". Renata fingeva di concedermi questo privilegio, ma in realtà la mia pretesa le tornava utile, per scarico eventuale delle proprie responsabilità; difatti replicava: "Va bene, va bene, allora facciamo così: io vado avanti; tu resti indietro e suoni i campanelli; però subito dopo scappa, neh? Se no, ti prendono e sono botte.". Così agivamo, e andò bene alcune volte. Come non bastasse, quando da lontano, vedevamo i beffati alla porta o alla finestra, lanciare insulti e minacce al nostro indirizzo; facevamo in risposta dei grandi segni e sberleffi. Che soddisfazione! Victor Hugo affermava che i bambini, se vedessero l’Inferno, lo applaudirebbero. E’ proprio così!

Santa innocenza! Non sapevamo che: "Tanto va la gatta al lardo...". Una volta; nello scappare, dopo aver pigiato un pulsante; mi cadde per strada il berretto alla marinara che indossavo e, non osando tornare su miei passi per riprenderlo, dovetti rincasare senza. Renata, con la mia falsa testimonianza, affermò; durante il processo di famiglia; che non l’avevamo più trovato, dov’era stato appeso al mattino nel corridoio dell’asilo. Fummo assolti per insufficienza di prove.


Così riabilitati, riprendemmo le nostre scorrerie campanarie, fino a che, un giorno, mentre stavo allungando il mio innocente ditino su un pulsante; mi piovve dall’alto, un intero secchio d’acqua, che mi ammollò fino al midollo. Sempre complici, sostenemmo; al tribunale di casa, presieduto da nostra Mamma; che io ero stato vittima di un criminoso attentato, mentre passavo rasente ad un altissimo fabbricato, per cui non si era potuto identificare la finestra del colpevole. Naturalmente, fui completamente denudato, e asciugato sino all’interno dell’ ombelico, poi mi fu imposto il solito clisterino, perché non si sa mai, e un cucchiaio di sciroppo per la tosse, a scopo preventivo. Renata se la cavò con un poco promettente monito: "... E tu sta più attenta al tuo fratellino, altrimenti...".


Per precauzione, nei due giorni seguenti non fui mandato all’Asilo, ma siccome piove sempre sul bagnato, avvenne che, proprio la mattina successiva a quell’ultima disavventura, una signora, amica di famiglia, venne a farci visita e, nel corso della conversazione, ritenne di informare mia Mamma: "Signora, sa, ho un certo ritegno a dirglielo, ma credo sia bene che lei sappia, che i suoi figlioli, sono stati visti, mentre rincasavano dall’Asilo, a suonare i campanelli delle case; e poi a scappare. Sinceramente mi spiace, ma...". Mia Mamma interruppe: "Ci mancherebbe altro signora! Ha fatto benissimo. Stia tranquilla: provvederò a che non lo facciano più. Posso, signora, offrirle un altro caffè?". I discorsi continuarono poi, su altri argomenti e quando la visitatrice si fu congedata, nostra madre venne in cucina da dove, noi colpevoli, avevamo udito tutto; e si predispose imbronciata, ma senza profferire parola, ad approntare il pranzo per la famiglia, ordinando a Renata un asciutto: "Prepara la tavola!".


Plaff!, poco dopo, come un fulmine a ciel sereno, uno schiaffone a tradimento di Mamma, raggiunse sulla guancia mia sorella; seguito da un secondo immediato stramuson, (manrovescio) sull’altra gota, con spiegazione in dialetto veneziano: "Cussì ti impari a sonar i campanei della gente!".


Renata, piangendo, si difese incolpandomi: "Non son stada mi, el xe sta lu!". Sentendomi chiamato in causa così vilmente; gridai indignato, contraddicendomi in termini: "Non son sta mi: La xe stada ela, che la me ga dito de sonar i campanei!". Tal che, rimediai anch’io uno splendido stramuson. Salomone regnante.

All’Asilo, andavo molto volentieri, perché al refettorio ci servivano dei minestroni favolosi, profumatissimi di basilico, che neanche Mamma, che pure era bravissima nell’ammannire, per dirne una, la pasta e fagioli con le cotenne di maiale, riusciva ad eguagliare. Il secondo piatto, la scuola materna non lo serviva, e ce lo portavamo da casa. Avevo un cestino, a base rettangolare, di paglia, traforato e con coperchio. Quello, me lo approntava mia madre e con grande cura: un tramezzino di pane morbido, imburrato e infarcito di prosciutto crudo magro; una mela Golden, qualche tesserina di cioccolato al latte, alcune castagne lessate. Il menu, naturalmente, cambiava ogni giorno; per cui il prosciutto si alternava col formaggio, o col tonno sott’olio, o altro; ed il cioccolato, con la tortina di "pan de mei" (pane di miglio), che allora con la "veneziana", era per lo più quanto il mercato milanese offriva in fatto di merendine. Poi, frutta di stagione.

Così, ogni mattina, per tutta la strada un effluvio di profumi diversi ed invitanti; fuoriusciva da quel cestino, e mi faceva pregustare il momento magico della sua apertura.
Dopo la refezione, andavamo in aula a sederci nei nostri banchi, per il riposino pomeridiano. Trovavamo seduta alla cattedra la nostra Assistente, che lì, nel frattempo, aveva consumato il proprio pasto, portato da casa nella schiscetta (portavivande). Il poco pane che le era avanzato, lo aveva suddiviso in alcuni bocconcini, messi sul piano avanti a sé, ben disposti in fila indiana.

Ci accoglieva con un: "Bambini! seduti e con braccia in seconda! Fate attenzione! Io ho qui, davanti a me, cinque pezzetti di pane e vi guardo: chiamerò alla cattedra, uno per volta, i più bravi tra voi, e a ciascuno darò un pezzetto di pane in premio". Così ci teneva tranquilli per una mezz’ora, il tempo necessario all’incipiente digestione per manifestare i suoi onirici effetti, appesantendoci le palpebre.

Quando capitava a me, seguito dagli sguardi dei compagni e delle compagne, di andare alla cattedra a prendere il tocco di pane in premio, mi sentivo importantissimo, e camminando impettito, pensavo con boria: "Vedete come sono bravo?". Meno male che in seguito, le esperienze di vita, m’insegnarono un poco di modestia. Non capita a tutti.

Poi, la nostra maestrina ci ordinava: "Adesso bambini, piegate le braccia in conserta sul banco, e sopra appoggiatevi la vostra testolina: si dorme!". Tutti fingevamo di dormire.

Un’ora dopo, andavamo in palestra a giocare. Chi voleva si affidava ad una animatrice che inventava qualche passatempo collettivo, ma molti preferivano giocare per conto proprio. Io mi ero scelto una compagnuccia carina, bionda con un bel visino ovale e simpatico. Giocavamo al "Negozio": io facevo il cliente e lei la commessa. Poi, in un momento di pausa, toglievo dalla tasca un paio di castagne lesse, che, premeditatamente avevo accantonate in refettorio, e le offrivo alla mia damina, che le accettava di buon grado. Queste mie galanterie non sfuggivano alle nostre sorveglianti, le quali sapendola molto più lunga di me, non ritenevano pericolose le mie avances, sicuramente al si sopra di ogni sospetto. Ciononostante, una di queste donne, visto che il nostro rapporto sentimentale durava da qualche tempo, un giorno finì per dire maliziosamente a mia sorella, quando all’ora di uscita mi venne a prelevare, che mi ero fatto la fidanzatina. Renata informò Mamma e questa Papà, e finì che tutta la famiglia ironizzò a mie spese sul fatto. A me questo sarcasmo dava fastidio, perché già allora ritenevo offensiva l’intrusione altrui nei miei sentimenti. Comunque il mio presunto idillio finì, senza lacrime, all’inizio delle vacanze estive. Ormai ero un ometto, pronto per la prima classe elementare.

 


IL PRIMO GIORNO ALLE ELEMENTARI


Ottobre 1925. Non ricordo quale fu la mia impressione sul primo giorno alla Scuola Materna, e se non la rammento, ciò significa che l'avvenimento non causò in me alcun turbamento. Diverso fu invece l'impatto con la Scuola Elementare Maschile "Raffaello Lambruschini", di Piazzale Maciachini. Quando mia sorella Renata, alle 9 di quel mattino, m'indicò, tra una folla di bambini e famigliari, l'ingresso di un edificio alto e severo, con le finestre tutte uguali, come quelle di un ospedale, dicendomi: "E' lì che devi entrare". Io chiesi: "E tu non vieni?"; lei sorniona replicò: "Io ci sono già stata, adesso tocca a te!", e mi portò fino ai gradini d'accesso dove un bidello, sulla cinquantina, magro, basso, con baffetti alla Adolphe Menjou e naso scarlatto; che qualcuno chiamava signor Marelli; sollecitava in modo garbato: "Avanti bambini, avanti!".


Mi trovai solo e abbandonato, anche se non sedotto, a percorrere un lunghissimo e ampio corridoio; in mezzo a tanti altri ragazzetti a me estranei. Avevo un nodo alla gola e le lagrime pronte; ma presto tutto passò. Sulla colonna marciante, or qua or là, si stagliava, per altezza, qualche figura femminile: erano le maestre designate, che aiutavano a mantenere l'ordine. Anch'esse erano gentili, ma si trattava di una gentilezza d'ordinanza, che, a mio avviso nulla aveva di materno. Ce ne fosse stata una passabile, il cui viso mi ricordasse la mia amichetta dell'Asilo! Macché!.


Questo nostro corteo si coagulò in una grande palestra, e quando vi fummo tutti riuniti e ordinati in plotoni; le insegnanti si aggrupparono in un angolo del salone. Poco dopo apparì un signore, alto, distinto, con un bel sorriso a trentadue denti; di cui parecchi d'oro in esposizione. Al suo seguito era giovane donna, anch'ella ben vestita, e luccicante di monili, con dei registri in mano.


Il signore, montato su una pedana a fianco di una cattedra, si rivolse alla scolaresca presso a poco così: "Ragazzi! Io sono il Direttore di questa Scuola; il vostro Direttore e, come tale, vi dò il benvenuto. Tutti insieme noi costituiamo una grande famiglia. Io sarò come un vostro papà; le signore maestre, qui presenti, come tante vostre mamme, e voi sarete i nostri figlioli buoni e studiosi." Continuò dicendo cose che noi non capivamo, né che ci importava di capire, al termine delle quali concluse: "Adesso la qui presente mia Segretaria, farà l'appello; quando sentirete il vostro nome, uscirete dalle righe, e andrete vicini alla porta d'uscita. Non appena una classe sarà formata, una maestra se ne prenderà cura, e vi accompagnerà in quella che resterà la vostra aula, per tutto l'anno scolastico. Auguri di buon profitto!"


Ben presto mi trovai anch'io alla porta d'entrata in mezzo ad alcuni compagni, e quando fummo circa una quarantina, venne vicino a noi una signora, né giovane né vecchia, che ci informò: "Voi siete i miei alunni; adesso, quando io vi ordinerò: "Saluto al Signor Direttore!", voi vi rivolgerete al Direttore e farete il saluto romano: così!". La maestra si irrigidì come un salame stagionato di Varzi, e tese in avanti, all'altezza degli occhi il suo braccio destro, con palma aperta e dita unite; poi continuò: "Visto? Adesso fatelo voi.". Noi ripetemmo il gesto, ma non tutti alla perfezione; tuttavia la nostra Istruttrice, anche per motivi di urgenza, giudicò il risultato accettabile e allora, dopo un "Pronti?", urlò: "Saluto al Signor Direttore!". Mentre noi, ubbidienti, alzavamo il braccio; nella palestra si creò un silenzio cimiteriale. Il signor Direttore guardò sorpreso verso di noi, come a dire: "...Ma da quando in qua?". Poi, con la mano destra, accompagnata dal suo impagabile sorriso, espresse un accattivante "Ciao! Ciao! ".


Usciti nel corridoio la nostra Maestra che, si chiamava Ambrosiani, o qualcosa di simile, ci diede nuove disposizioni: "Mettetevi in fila per due e, marciando verso l'aula, mantenete il passo. Capito? Avanti marsh!". Eseguimmo un po' disordinatamente, ma per mera inesperienza. La signora Ambrosiani, vedendo una certa dissonanza nel nostro procedere; intimò, senza redarguirci: " Unò! - due. Unò! - due. Unò! - due. Passooo! Unò... Unò... Unò... Passooo!". Così invitati; quasi senza rendercene conto, marciammo meglio; divertendoci un mondo, all'ordine di "Passooo!", nel picchiare a terra il piede, nel modo più rumoroso possibile.


Tutti i corridoi di accesso delle aule, erano dotati di un'interminabile fila di attaccapanni in ferro battuto nero, agganciati ad altezza di alunno; e lì, quando arrivammo davanti alla nostra aula, la Maestra invitò a depositare, chi l'aveva, cappello e soprabito. La porta dell'aula, ad unico battente, verniciata di bianco, portava un cartello scritto in gotico: "Classe I^ - D".


Ci precipitammo in aula per accaparrarci un banco di nostro gradimento, ma non tanto velocemente da prevenire l'insegnante che raccomandò: "I più alti prendano posto in fondo!". Poi visto che qualcuno aveva fatto orecchie da mercante, intervenne direttamente: "Tu vai due banchi indietro!.. Tu e tu, scambiatevi il posto!...". Infine, dopo un ripetuto: "Silenzio!"... "Silenzio!", con fronte aggrottata, si sedette alla cattedra e annunciò: "Adesso procederò con l'appello: chi sarà chiamato si alzerà in piedi e risponderà: "Presente!"; così comincerò a conoscervi.".

Finita la chiamata, la signora ci comunicò: "I vostri famigliari sono già stati informati: domani voi verrete a scuola col grembiulino nero e il colletto bianco, com'è d'uso. Nella cartella porterete una matita del numero 2, e un quaderno a quadretti grandi. Avete capito?".

In quel momento nei corridoi trillò lungamente una campana e, anche se nessuno in proposito ci aveva informati, capimmo che era il segnale di termine delle lezioni. Ci alzammo tutti dai banchi e, saltando e gridando, ci predisponemmo, accalcandoci, a guadagnare la porta dell'aula. Allora la maestra con voce stridula per alterazione ci urlò: "Fermi! Fermi! Tornate subito subito ai vostri posti! ". Poi, rossa d'ira in viso continuò: "Sono io che devo dirvi quando la lezione è finita, e non la campana! Ora e in seguito! Capito? Adesso, per punizione starete seduti ai vostri banchi e in silenzio, per cinque minuti; poi sarò io a dirvi quando potrete andar via!".


Furono cinque minuti di tormento, perché nei corridoi si udiva il trambusto dei compagni delle altre classi, che si vestivano, e sciamavano verso le uscite. Poi finalmente la nostra "Kapò" ci autorizzò: "Ora potete andare!". Si creò il medesimo parapiglia di prima, ma la Maestra, finse di non sentire. Anche lei evidentemente accusava il languore dell'appetito.
Il giorno dopo arrivammo in classe quasi tutti col grembiulino nero.
Qualcuno che non l'aveva, si scusò dicendo che la mamma non aveva ancora finito di cucirlo.

La signora Ambrosiani ci ordinò di aprire il quaderno a quadretti, di saltare la prima pagina e, all'inizio della seconda, tracciare con la matita delle aste: cioè una riga diagonale dal basso verso l'alto in ogni quadratino. Per chiarire meglio, disegnò un esempio col gesso bianco sulla lavagna. Poi passeggiò tra i banchi, a controllare, i risultati sui nostri quaderni.

Arrivata al mio posto, mi guardò un attimo a scrivere e poi esclamò: "Bel problema! Tu sei mancino!... Stammi a sentire: tu devi scrivere con l'altra mano, la destra. Hai capito?... Prova!". E visto che io, intimorito, continuavo a scrivere con la sinistra, mi prese la matita, e l'appoggiò sulla mano destra affinché l'impugnassi. Poi continuò paziente: "E' con questa mano che devi scrivere: al principio sarà per te un po' difficile, ma poi imparerai.". Incominciai a tracciare, con la destra delle aste tutte tremolanti, poi la Maestra, incoraggiatomi con un: "Bravo così! Poi vedrai che, continuando, andrai meglio.", mi lasciò, proseguendo a verificare come scrivevano i miei compagni. Ritornata poco dopo al mio banco e visto che, senza nemmeno rendermi conto, avevo ripreso a scrivere con la sinistra esclamò: "Santo Cielo! Ma allora ho parlato per niente! Senti: facciamo una bella cosa: tu domani te ne stai a casa, e informi il tuo Papà che devo parlargli."


 


IL GUAIO DI ESSERE MANCINO

Quando riferii a casa, i miei genitori, che sino a quel momento sapevano del fatto che fossi mancino, ma non se ne erano mai preoccupati più di tanto; parlottarono tra loro e, da quel che ricordo, pensarono di fare un regalo alla maestra, in occasione del richiesto colloquio, per indurla ad avere un po' più di pazienza con me. Optarono per una elegante sveglietta.
Tornato dalla visita alla mia Insegnante, Papà mi comunicò che, per alcuni giorni, avrei dovuto prendere lezioni private, a casa della Ambrosiani. E qui, mi sia consentita una facile illazione. La Maestra avrà detto: "Signor Marchini, la ringrazio del gentile presente, ma non doveva!... Per il nostro problema... non è la pazienza che mi difetta; ma purtroppo il tempo in aula da dedicare personalmente a suo figlio; per togliergli quella brutta tendenza, ormai radicata, di usare la sinistra al posto della destra. Sa... ho più di quaranta scolari e un programma stringente...". Il mio genitore avrà replicato: "Capisco, Signora Maestra; ma Lei, non sarebbe disposta ad impartire qualche lezione privata a mio figlio? Intendo... debitamente compensata." Ottenendone un: "Veramente, non dovrei... Tuttavia trattandosi di qualche lezione soltanto, farò eccezione. Mi mandi il suo figliolo, a casa mia, in via Murat 3, dalle 5 alle 6 del pomeriggio; incominciando da domani. Intanto lo tenga a casa nei prossimi giorni: io lo segnerò indisposto sul registro delle presenze.". Convenevoli finali.

Così, il giorno dopo, all'ora indicata, Renata mi accompagnò in via Murat. La casa della Ambrosiani era una cascina in mezzo a un campo, al di fuori della quale, un lenzuolo di terra era coltivato ad orto. Si riconoscevano piante di pomodori, di patate e; poco più in là, splendevano dei girasoli, delle bellissime grandi dalie di colore arancione e sanguigno, e altri fiori.

La Maestra, liquidò sulla soglia mia sorella, avvertendola di ritornare dopo un'ora, per riaccompagnarmi a casa. Io fui invitato ad entrare e mi trovai in un ampio locale, con un grande camino, cucina economica, una madia addossata alla parete, e alcune pentole di rame appese al muro, a cui era inchiodata anche un'odorante moscaiola. Insomma: una tipica casa colonica.

Liberatomi da cappottino, sciarpa e baschetto, mi accomodai davanti a un lungo e pesante tavolo rustico, di legno massiccio. La Maestra, seria, mi invitò a togliere quaderno e matita dalla cartella, che mi ero portata appresso. Poi mi ordinò: "Incomincia a fare le aste, ma con la mano destra, come ti ho insegnato a scuola.". Iniziai a scrivere con la mano destra, sotto il suo sguardo severo, mentre l'istinto mi diceva: "Cretino, ma perché usi la destra? Lo sai: è con la sinistra che ti riesce meglio!". Ma io, che mi sapevo controllato, continuai a tracciare aste incerte con la destra. Dopo un po', l'Ambrosiani, si allontanò per accudire alle proprie cose, e a me successe, senza neanche accorgermi, che la matita passò di mano.

Ad un tratto, un ceffone mi giunse sull'orecchio destro: deciso, sonoro, tale da farmi rintronare la testa e trillare i timpani, ma non tanto da impedirmi di sentire la mia virago urlare: "La destra, la destra! Zuccone! Hai capito che devi usare la mano destra?". E giù un altro sberlone, sulla parte già offesa. Mi misi a piangere sommessamente, e... imparai subito, tra lacrime e singhiozzi, a scrivere con la destra, e a non distrarmi. Al termine dell'ora di lezione, mia sorella tornò a prelevarmi, e dalla Ambrosiani fu accomiatata con un: "Di' a Papà che Giorgino è un po' testone, ma sta facendo grandi progressi.". Naturalmente, per strada mi sfogai, piangendo, con Renata: "Quella carogna mi ha dato tanti schiaffi sulla faccia! Guarda qua! Mi fa ancora tanto male! Quella carogna! Ma io non avevo fatto niente di male! Stavo soltanto scrivendo! Adesso, a casa, lo dico subito a Papà, così andrà a sgridarla, quella carogna!".

Mia sorella, mi guardò la guancia destra e poi la sinistra, affettando preoccupazione, infine commentò freddamente: "Io non vedo niente, ma è proprio vero che ti ha picchiato?". La conoscevo troppo bene, per non afferrare quanto ella pensava in quel momento, e cioè: "Io non posso mai menarti perché Papà e Mamma, ti difendono sempre: sono contenta che l'abbia fatto almeno la maestra!". E così io, passando fulmineamente dal falso lamento alla vera furia, le regalai un: "Sei una vera carogna anche tu, come lei!".

Quando arrivammo a casa, corsi subito da mio padre. Lo trovai, come al solito, quando rientrava dal lavoro, con addosso la sua comoda giacca da camera, rilassato sulla poltrona a leggere "Il Corriere della Sera", tenendosi a portata di mano un bicchiere, con due dita di vino, a mo' di aperitivo. Lo interruppi: "Papà! Papà! La Maestra mi ha picchiato, ma io non avevo fatto niente! Devi andare a sgridarla!". Egli mi osservò un po' meravigliato, poi guardò interrogativo mia sorella che lo aggiornò, calcando felice la mano: "La signora Ambrosiani ha detto che Giorgino è un grande testone, ma sta facendo progressi.". Ciò bastò perché mio padre mi liquidasse, promettendo, senza tanta convinzione: "Alla prima occasione parlerò io alla Maestra!". Poco soddisfatto, andai in cucina a ricorrere in appello da mia madre, la quale aveva già sentito tutto: nemmeno lei fece gran caso alle mie rimostranze.

A quel tempo, con genitori di quella fatta, il Tribunale per la tutela del minore, sarebbe stato soppresso per assenza di denunce.


ALLA SCUOLA MEDIA

Nel 1933, fui ammesso alla 1^ Classe della Scuola secondaria di avviamento commerciale "Paolo Frisi", in Via Solferino, 47. Di quell’anno, il primo ricordo che balza alla mia mente, mi riempie ancor oggi di rabbia: galeotta la mia timidezza. Uscito con altri in via Solferino, dopo le lezioni pomeridiane, notai che alcuni compagni avevano iniziato, nel bel mezzo della via, a giocare al calcio con una palla semisgonfia che avevano trovato lì appresso. Le porte dell’ipotetico campo, le avevano segnate con quattro delle loro cartelle. Altre le avevano ammucchiate sul marciapiede. Mi fermai ad osservare qualche minuto la partita poi, stanco di tenere con la mano la borsa dei miei libri, pensai di appoggiarla poco distante, sul davanzale di una finestra con inferriata.


Poco dopo vidi apparire da lontano due vigili urbani, con bicicletta alla mano, che sembravano guardare distrattamente in giro. Non mi allarmai, giacché era evidente che io non partecipavo al gioco. I vigili avvicinatisi, sempre con aria innocente, appoggiarono con calma le loro biciclette nel vicino atrio della scuola e poi, fatti alcuni passi sul marciapiede, iniziarono a raccogliere le cartelle dei miei compagni appoggiate a terra. Io rimasi annichilito, e così assistetti senza reagire, anche al sequestro della mia borsa, là in alto isolata sul davanzale. "Guarda come l’è comoda questa chi!", esclamò beffardo l’agente che la prese; poi, in un italiano dall’accento meneghino, riprese rivolto a tutti noi: "I vostri libri li potete ritirare al Comando, dopo che avete pagato la multa di 10 e 10." ( dieci lire e dieci centesimi di tassa). Scioccamente non ebbi il coraggio di far notare al ghisa la mia innocenza.


A casa, pregai insistentemente mia sorella, di darmi un aiuto per trarmi d’impiccio, ma Renata rifiutò: giudicava il mio guaio troppo grave, e non voleva rischiare di essere accusata di correo, dai nostri genitori. Allora mi arrabbiai e le lanciai, mirando alla testa, quello che avevo in mano: una scarpa; la quale sbagliò il bersaglio; che si era scansato; andando a frantumare il vetro smerigliato della porta della sala. Furibondo e disperato urlai piangendo: "Perché ti sei spostata?". La risposta era prevedibile: "Già, bravo!". In quel momento rientrò Mamma a cui dovetti spiegare, temendo le sue ire, le vicende di quel terribile pomeriggio. Evidentemente agli occhi di mia madre i fatti apparirono più comici che tragici, perché insolitamente non fui rimproverato. Insomma mi andò bene e andò bene anche al vetraio. Punita invece fu mia sorella, che ebbe l’incarico di andare al Comando di vigilanza urbana, a pagare la multa e a ritirare la mia borsa.


Di quell’anno non ricordo altro, salvo che avevamo un Preside che sapeva farsi benvolere da noi ragazzi. Quando un insegnante doveva essere supplito per assenza, era lui che arrivava nella nostra classe, con il "Manzoni" in mano, per spiegare, a modo suo, episodi dei "Promessi Sposi". Occhiali alla Cavour e volutamente esagerato nella mimica, questo nostro docente, non si peritava di mettersi in ginocchio o saltare sulla sedia, per meglio illustrare una situazione, e noi apprezzavamo molto quest’insolito modo d’espressione, che ci divertiva e ci consentiva anche di calcare col baccano, quando era il caso di ridere a crepapelle. Questo maestro fuori serie, aveva lo scopo recondito, di farci amare l’indigesto Manzoni. E vi riusciva. Laureato in lettere: si chiamava Enrico Gatti. Il mio diploma di terza media porta la sua firma.


Il Vicepreside era invece un professore di disegno: piccolo, vecchio, ma arzillo; perennemente col mezzo toscano spento, fra baffi bianchi e barba alla Francesco Giuseppe, giallastri di nicotina. Per questo gli avevamo appioppato il soprannome di "Barbicchio". Era bonaccione, ma circolava per i corridoi dell’Istituto, sempre munito di una riga millimetrata di mezzo metro, che picchiava, ma non troppo forte, sui polpacci di qualche ragazzo colto in flagrante mancanza.

 


"EL GIGI DELLA GNACCIA"


Quando a mezzogiorno si usciva dalla scuola; là, in fondo a via Solferino, angolo Bastioni di Porta Nuova, trovavamo puntualmente il "Gigi". Questi era il garzone del vicino negozio di cibi cotti, mandato a vendere castagnaccio (in milanese castagnaccia, e, abbreviato: "gnaccia").


Il ragazzo era attrezzato per la vendita volante della sua merce: disponeva infatti di un trabiccolo, costituito da due rettangoli di listelli di legno, incrociati ad X, che reggevano, incernierato un piano, pure di legno, per collocarvi la grande teglia del dolce. Il marchingegno si poteva ripiegare rapidamente perché, essendo questo tipo di smercio abusivo; il venditore, al primo apparire di un vigile urbano, chiudeva abilmente con la mano sinistra il suo aggeggio; e tratteneva orizzontale la tortiera col braccio destro arcuato. In tale stato, l’agente non lo poteva multare.


Roba da sganasciarsi; da film con Ridolini. Passato il vigile, il quale conoscendo il trucco manco si fermava, il commercio riprendeva.


Gigi, era il nome d’arte che si dava a tutti i giovanotti, che vendevano castagnaccio in quelle condizioni. Era normale che se ne trovasse uno, presso molte scuole all’uscita dei ragazzi: il dolce, appena sfornato e fragrante, spariva, smerciato in pochi minuti a noi studentelli, a quell’ ora sempre affamati.


Molti ragazzi, fatta l’ordinazione, contestavano immancabilmente la grandezza della porzione: "Gigi, l‘è poca!"; e Gigi rispondeva: " ’Ste pretendet per vint ghei." (Cosa pretendi per venti centesimi). "L’è poca! L’è poca: ne vœri ancamò on tochel.". (E’ poca, ne voglio ancora un pezzetto.), insisteva il giovane cliente. Allora il venditore, per toglierselo dai piedi, ne staccava un piccolo pezzo in aggiunta. A lungo andare, tutti i Gigi della città presero l’abitudine, dopo aver tagliata l’adeguata porzione di castagnaccio, di prevenire reclami, aggiungendo senza sollecitazione, un secondo minimo trancio. E se per caso se ne dimenticavano, giungeva implacabile il richiamo: "Gigi, la giunta!". Così anche gli esercenti: macellai, salumieri e altri, quando trascuravano di calcolare nel pesato qualche grammo di merce in più, presero l’abitudine di far notare alla cliente: "Signora, non le faccio pagare il pezzetto Gigi.".


Dopo la guerra, di Gigi non se ne videro più per le strade, scomparvero; come ancor prima erano terminate altre vendite ambulanti del genere, come quella dell’ancioat (se si passa il termine: "acciughiere"); che era esercitata in genere da vecchietti, i quali frequentavano le osterie; bene accetti dagli esercenti; per offrire ai frequentatori acciughe salate, che i beoni consumavano per farsi venire sete, e tracannare qualche bicchiere di vino in più.

 


L’ISTITUTO PRIVATO


La seconda media, la frequentai presso un Istituto privato con sede unica in Via Statuto. Non so perché mio padre prese quella decisione. So però che andò a quella scuola per chiedere informazioni, e per consigliarsi con la Direzione, sull’indirizzo da dare ai miei studi. Per conseguenza, fu concordato che avrei seguito i corsi di avviamento professionale, i quali mi avrebbero portato, con quattro anni di scuola, al diploma di "Computista Regio", anticamera per quello di Ragioneria.


L’Istituto aveva sede al primo piano di un bel palazzone d’epoca, stile Liberty, con apprezzabili decori floreali in cemento alle facciate. Il primo giorno, vi fui accompagnato da Papà, che mi presentò al Preside, Professor Morelli: un uomo alto, distinto, sui settant’ anni, con baffetti alla Charlie Chaplin. Questi mi accolse simpaticamente, con atteggiamento famigliare, per cui subito mi trovai a mio agio. Uscito mio padre il Preside, dandomi del lei, chiarì: "Intanto, per ambientarla un po’, la presenterò agli altri studenti, che ora sono a lezione nell’ Aula Magna.". Percorso un breve corridoio, il professore aprì una grande porta a vetri, ed io vidi un vasto locale, con ampie finestre, cattedra, lunga lavagna a muro, e due file di tavoli affiancati; al momento occupati da una ventina di studenti dei due sessi e, stranamente, di tutte le età: dai miei presumibili coetanei a persone sulla cinquantina. L’insegnante; un Tenente d’Artiglieria in divisa, che stava spiegando un teorema di geometria; s’interruppe per lasciare la parola al mio accompagnatore che si scusò: "Prego un attimo, Ingegnere", poi, rivolto agli studenti: "Signori, vi presento un vostro nuovo compagno, il signor Marchini, il quale resterà con noi sino alla fine dell’anno scolastico". Tutti mi guardarono seri, in silenzio, ed ebbi l’impressione che pensassero, in perfetto stile fascista: "E a me, che me ne frega?". Il Preside continuò dicendomi: "Per il momento lei si accomodi in quell’angolo, dove vedo un posto libero, poi le daremo una posizione migliore". Intimidito raggiunsi la sedia indicatami, mentre il Prof. Morelli, scusandosi ancora con l’insegnante, lasciava l’aula.


Nei giorni successivi, incominciai a rendermi conto di come era costituito e come funzionava l’Istituto. Oltre all’Aula Magna, la scuola disponeva, nello stesso corridoio di due altri locali: un’aula, con lavagna e un paio di tavoli; e un ufficio adibito anche a Presidenza. Subito dopo una toilette. Il corridoio sfociava poi in un’anticamera, con la porta d’entrata all’Istituto e, poco più in là, un secondo uscio che, accedeva all’abitazione privata del Preside.


In quell’appartamento il Prof. Moretti dimorava con la propria moglie; due figli adulti, maschio e femmina, laureati; e la cameriera Domenica; la quale fungeva anche da bidella dell’Istituto.


Presto capii, perché il complesso degli studenti era così eterogeneo. Nell’Aula Magna si svolgevano tutti gli ordini di studi, da quelli delle scuole medie, a quelli delle superiori e via via sino ai corsi universitari di tutte le facoltà: scientifiche, umanistiche e simili. Quando, per esempio, si svolgeva una lezione di filosofia; per cui il docente di turno doveva intrattenere gli universitari magari su Kant e sulla sua "Critica della ragion pura"; a me, e a quelli come me che seguivano le medie, veniva dato da risolvere, nel frattempo, un problema d’algebra o un tema; i liceali dovevano, a loro volta, tradurre dal latino una favola di Fedro, o altro; per conseguenza nell’aula si sentiva solo una voce: quella dell’insegnante di filosofia.


In sostanza, in quella beata confusione, forse imposta all’Istituto da ristrettezza di spazio o per motivi di costi, la formazione di noi studenti avveniva, accidentalmente, in esubero sui rispettivi programmi di studio. Così, se un docente intratteneva gli universitari, sul processo a Socrate e sulla sua fine; io, interessatissimo, trascuravo la mia algebra, per ascoltare ciò che Socrate insegnò ai suoi discepoli, mentre trangugiava, a brevi sorsi, la mortale cicuta. L’algebra poteva aspettare: nessuno mi aveva infatti posto un limite di tempo, per la presentazione del mio compito.


In capo a due anni di siffatte lezioni universitarie estemporanee, finii di saperne quanto uno studente della Sorbona: si... insomma... quasi... In compenso erano dolori quando, alla fine dell’anno scolastico, dovevo; non essendo il mio un istituto equiparato; sostenere gli esami presso la scuola di Stato, di via Solferino.


L’Istituto infatti, avendo soltanto quattro allievi che seguivano, come me, gli studi commerciali, non si curava troppo e, per qualche verso niente affatto, di prepararli in qualche materia come, per dirne una la storia, sullo specifico programma. Cosicché, in sede d’esami, mentre io avevo studiato, e mi attendevo interrogazioni sulla storia romana, l’esaminatore poneva domande, su quella contemporanea, e buona notte al secchio!


Devo proprio raccontare come me la cavai in un tale frangente. Quell’anno, il 1935, dovevo sostenere gli esami per il diploma di scuola media. Alle interrogazioni su "Storia, Geografia e Cultura fascista", mi trovai in aula con una trentina d’altri studenti privatisti, a me sconosciuti perché preparati da diverse scuole private. Trattandosi di esami orali, ci era consentito di tenere sul banco, i libri di studio di nostro interesse. Io mi ero portato un solo volume, ma, tanto per andare sul sicuro, molto esauriente, dal titolo: "L’Italia nella storia"; sottotitolo: "Dalle origini ai giorni nostri"; autore: un colonnello di fanteria: Dante Battaglia.


La Commissione esaminatrice era costituita da due giovani professoresse, che incominciarono a chiamare gli studenti, uno per uno, in ordine alfabetico.


Ad ogni ragazzo venivano poste: due domande di Storia risorgimentale e altre due di Geografia. Nient’altro. Della "Cultura fascista", la Commissione non fece cenno; probabilmente pensando che ne eravamo già abbastanza saturi, per l’abbondante propaganda di regime.


Ero allarmato: i primi esaminandi non avevano dimostrato di essere molto preparati, e le interroganti pazientemente li tenevano sotto torchio, per vedere di poterli promuovere almeno, come si dice, per il rotto della cuffia. Le prove si susseguivano, e qualche testa era già caduta, (eravamo arrivati ai cognomi che iniziavano con la "C"). Io, tenuto conto dell’andazzo, pronosticavo desolato la mia prossima, ignobile fine. Ma, ad un tratto mi colpì una riflessione. Sistematicamente, quando un esaminando non rispondeva ad una domanda, la stessa veniva posta allo studente successivo. L’uovo di Colombo! Da quell’istante, sfogliando freneticamente, il mio libro, alle risposte mancate, mi preparai con un filo di speranza al mio turno.


Dopo avermi chiamato; l’esaminatrice si rivolse a me, così: "Visto che il suo predecessore, non mi ha saputo dir nulla sulla guerra di Crimea, invito lei a parlarmene". Tanto mi aspettavo: cinque minuti prima infatti avevo avuto il tempo di aggiornarmi sul tomo di storia.


"Nel 1854, il primo ministro d’Italia Camillo Benso Conte di Cavour, propose al Re Vittorio Emanuele di cercare un’alleanza con la Francia onde poter battere il potente Impero d’Austria e continuare così l’opera iniziata dal padre del Re, Carlo Alberto, per giungere all’unità d’Italia. In quell’anno la Russia dichiarò guerra alla Turchia. Francia e Inghilterra corsero in aiuto alla Turchia, per scongiurare una possibile invasione dell’Europa da parte della Russia. L’occasione indusse la Francia ad accettare l’alleanza offerta dall’Italia, la quale l’anno successivo inviò in Crimea, 200.000 soldati piemontesi che, insieme ai francesi, si batterono valorosamente e vinsero, nella battaglia che si svolse in una valle detta della Cernaia. I combattenti piemontesi erano comandati dall’eroico generale Alfonso La Marmora.".


Non avrei saputo dire una parola di più, e mi meravigliai di aver tenuto in mente quella filastrocca, che avevo letta in un battibaleno. Sotto tensione si fanno miracoli.


La professoressa commentò: "Bene, bene: si vede che lei ha molto studiato e non le chiederò altro, anche perché la seconda domanda era: ‘Chi comandò i Piemontesi in quella battaglia?’, ma lei mi ha prevenuto dicendo La Marmora. Per la geografia, mi nomini la capitale della Francia e quella dell’Olanda: se mi darà la risposta giusta non le chiederò altro".


"Parigi è la capitale della Francia e l’Aia quella dell’Olanda."


"Bene, se ne può andare". Mentre gioioso tornavo al mio banco, con un sospirone di sollievo, l’esaminatrice alzò la voce commentando: "Stamani è la prima volta che trovo un esaminando ben preparato. Se tutti fossero così, finiremmo in breve gli esami, con generale soddisfazione.".


Al mio orecchio, giunsero i sommessi commenti dei miei numerosi compagni d’esami: "Che c...! Che c...!". La coscienza mi impedì di rimbeccare.



DISAVVENTURE STUDENTESCHE


La diversa età e il tipo di studi selezionavano i rapporti tra gli allievi deI nostro Istituto. Ovviamente una maggiore confidenza legava i compagni di un medesimo corso, mentre gli studenti di corsi diversi si trattavano con una distaccata cortesia.


Le lezioni degli studi classici, occupavano l’Aula Magna per l’intera mattinata, sicché i pochi ragazzi che, come me, seguivano le commerciali, venivano invitati a trattenersi a scuola, anche per una o due ore pomeridiane, da dedicare a materie specifiche, come la stenografia e la partita doppia.


All’una dopo mezzogiorno, consumavamo i nostri pasti, soli, nell’aula piccola dell’Istituto, adibita per l’occasione a refettorio, e sotto la discreta, saltuaria sorveglianza della bidella, Domenica; mandata di tanto in tanto sulla soglia del locale a far capolino.


Qualcuno di noi si portava la colazione da casa, in genere nella classica schiscetta d’alluminio, con coperchio a vite, che d’inverno si collocava sopra un calorifero al mattino, per trovarla poi intiepidita all’ora del consumo. Atri avevano con sé il solito panino farcito, e altri ancora scendevano ad acquistare qualcosa nella salumeria all’angolo, o nell’attiguo panificio.


Finito di mangiare, attendevamo chiacchierando l’inizio delle lezioni. In quell’intervallo di tempo, era facile che il Professor Morelli, terminato il suo pranzo, venisse nella nostra aula, con lo stecchino ancora tra i denti, a familiarizzare con noi ed a porci scherzosamente delle domande. Di quei momenti, mi è rimasto impresso un suo intercalare: quando qualche ragazzo di provincia gli rispondeva astrusamente ad un interrogativo, egli l’apostrofava con fare ambiguo: "Ma che risposta è la sua? Ma da dove viene lei, da Monte Pirlone?". Al che noi ci scompisciavamo dalle risa, chiedendoci poi maliziosamente a cosa alludesse il nostro Preside, e cercando di immaginarci la forma del Monte Pirlone. Naturalmente ci trattenevamo rispettosamente dal chiedere chiarimenti al nostro docente.


Un giorno, mentre impartiva una lezione di latino, al Professor Morelli, caso strano, scappò quella frase; ma non so se proprio involontariamente; all’indirizzo di una bravissima e bella studentessa di liceo, e costei in piena Aula Magna, arrossendo chiese: "Ma, professore: esiste veramente il Monte Pirlone?". Ne seguì ovviamente un orgia di sghignazzate di tutti i presenti, che in sovrabbondanza erano di sesso maschile. Morelli, ritto e impassibile, attese con pazienza che l’aula si ricomponesse, e quando il silenzio fu tombale, rispose mellifluo: "Mi ricorderò di chiederlo a lei, alle interrogazioni di geografia.". E questa volta gli astanti, guardandosi vicendevolmente, rimasero perplessi.


UN PRECISO "UPPERCUT"


Un compagno del mio corso, di cognome Manzi, da poco iscritto al nostro Istituto, proveniva da una scuola speciale per caratteriali. A me sembrava un ragazzo del tutto normale, anzi pure simpatico e spiritoso. Dopo la nostra colazione di mezzogiorno, mi intrattenevo spesso e volentieri con lui, a conversare in presenza di altri compagni. Durante una di queste chiacchierate, Manzi improvvisamente accese un fiammifero e, avvicinandone la fiamma alla tenda di una finestra, annunciò serio e deciso: "Adesso do fuoco alla scuola." Io, allarmato, mi avvicinai a lui strillando: "Ma sei matto?...". Non potei aggiungere altro perché, per un fulmineo gancio al mento, mi trovai lungo disteso a terra. La parola "matto", aveva scatenato un istantaneo raptus nel mio compagno; il quale poi non continuò ad infierire su di me, ma si limitò a guardarmi dall’alto inebetito, quasi pensasse: "Cosa ho fatto?". La bidella Domenica, che presente per caso aveva assistito all’incidente, corse ad informare il Preside, il quale dopo essersi accertato della mia buona salute, sospese per tre giorni il "matto", dalla presenza in Istituto.

 


IL "VIVEUR"


All' Istituto, di studenti non troppo normali ce ne erano in abbondanza, e mi chiedevo se quella Scuola non fosse, per caso, un refugium peccatorum per ragazzi espulsi dalle scuole pubbliche, le quali allora non tolleravano troppe trasgressioni alla disciplina.


Un altro di tali campioni si chiamava Butti, di agiata famiglia toscana, studente liceale diciassettenne, fisico emaciato e colorito cadaverico. Veniva a scuola saltuariamente: in sostanza quando ne aveva voglia. Fumava una trentina di sigarette al giorno, e durante le lezioni, con la scusa di andare ai servizi, scendeva invece al sottostante bar, a consumare caffè e bicchierini di cognac. Era evidente che di soldi in tasca ne avesse molti. Parlava calmo, a bassa voce, ed aveva sempre modi gentili. Ai compagni amava millantare, spocchioso, le avventure della sua vita privata, e tutti d’accordo lo si ascoltava interessati, ma con una certa riserva, come se a parlare fosse il Barone di Münchhausen.


Essendo minorenne, Butti non poteva ancora frequentare, quelle benemerite e rimpiante istituzioni chiamate case di tolleranza; e allora vi suppliva bazzicando le poche libere professioniste, che al Parco Sempione, esercitavano il mestiere più vecchio del mondo. Egli non aveva scrupoli poi a riferire, con aria da viveur; anche a noi quattordicenni, ancora imberbi e naturalmente curiosissimi; queste sue esperienze, che non mancavano d’umorismo, e a cui inseriva anche un po’ d’autocritica, tanto per renderle più credibili.


Un mattino, poco prima dell’inizio delle lezioni, ci chiamò: "Ehi ragazzi! La volete sapere l’ultima?". Ci riunimmo a capannello. "Ieri sera sono andato al Parco a cercare una tr.... e l’ho agganciata. Stavamo trattando sul prezzo, quando ha incominciato a piovere forte, e quella, appoggiata al muro dell’Arena, che non dava riparo, ha aperto l’ombrello. Voleva dieci lire, ma poi accettò per cinque, che è la tariffa dei casotti. Mentre si preparava, mi ha gridato: ‘ Uhi ti! Devi fàa tutt mi? Ten almen l’ombrella! ’. Così dicendo, mi ha piantato tra le mani l’ombrello e ho dovuto fare tutto, impugnando quell’arnese, che, un po’ per il vento e un po’ per il movimento dei corpi, sbandava di qua e di là. Alla fine eravamo ammollati tutti e due, come avessimo fatto un bagno nel naviglio. Vi immaginate la scena?". Naturalmente, all’idea, scoppiammo tutti a ridere.


Il nostro eroe, ascoltava docilmente i paterni rimproveri del Preside, il quale su di lui la sapeva lunga, ma che più di tanto non poteva intervenire, perché il ragazzo, quand’era presente, non disturbava le lezioni. I suoi genitori, per altro, non mostravano di prestare sufficiente attenzione, alle note che ricevevano dall’Istituto, sulle assenze del loro amato pargolo. Evidentemente avevano cose più importanti da fare.

 

 

 

 

UN MATCH "REGOLAMENTARE"


Per concordare la pace bisogna essere almeno in due; per dichiarare guerra basta la decisione di uno solo. E’ assiomatico. Me ne convinsi un giorno quando, finita la scuola, mentre camminavo in fondo a via Volta diretto a casa, sentii una voce alle mie spalle: "Ehi, tu!". Mi volto e vedo un compagno, da poco ammesso all’Istituto: un ragazzo biondo, esile, vestito bene e, dall’aspetto, di buona famiglia. Un solo difetto: è strabico. Non ho avuto mai alcuna opportunità a scuola, di parlare con lui, tanto che non ne conosco neppure il nome. Mi si avvicina e dichiara, quasi fosse un suo dovere: "Ti devo picchiare!". Cado dalle nuvole: "Picchiare?... E perché?". Quello, piazzato nel bel mezzo del marciapiede, già in posizione puglistica da attaccante, ripete: "Perché sì: ti devo picchiare. Stai in guardia!".


Mi rendo conto di avere a che fare con un altro demente, magari meno impulsivo del Manzi, e mentre il mio avversario già saltella, aspettando che pure io mi appresti al confronto, penso quale soluzione prendere. Scappare sarebbe poco dignitoso; fare a pugni in mezzo alla gente, non è nel mio stile. Siamo ai piedi della lunga gradinata che porta in cima ai Bastioni di Porta Garibaldi, un luogo quasi sempre deserto: ho un’idea. "Senti..." dico allo squilibrato. Quello ferma i suoi movimenti preparatori e mi guarda con aria interrogativa: "Picchiarci qui, in mezzo alla gente, non ci conviene; perché se qualcuno chiama i vigili, finiamo tutti e due in questura. Se proprio ti vuoi battere, io dico che potremmo andare lassù, sui Bastioni.". Il mio antagonista vuole proprio fare a pugni, perché senza riflettere né obiettare, decide: "Andiamo!"


Salita la gradinata ci troviamo in uno spiazzo deserto, dove il mentecatto riprende la sua posizione di guardia, mettendo i pugni davanti al viso. Proprio non c’è scampo: anch’io devo prepararmi a menare. Cominciamo a tirarci qualche diretto, mirando alla faccia; ma siccome evidentemente nessuno di noi due ha voglia di prenderle; ci eravamo piazzati istintivamente troppo lontano, uno dall’altro, per raggiungere il rispettivo bersaglio: così finiamo per batterci a vuoto. Intanto vedo spuntare da lontano, alle spalle del mio antagonista, uno studente che, i libri sottobraccio, avanza verso di noi. Approfitto per proporre un break: arretro prudentemente di un passo e avviso: "Sta arrivando qualcuno, sarebbe meglio sospendere e lasciar passare." Quello si ferma: è d’accordo. Il ragazzo viene avanti e va oltre senza badare a noi e, quando giunge ai gradini, incomincia a scendere. Un istante dopo riprendiamo la contesa.


Questa volta nel pugnare siamo più vicini e avviene che; essendo io più alto e avendo quindi il braccio più lungo, finisco per piazzare un diretto in pieno naso al mio bellicoso sfidante. Dal naso cola un rivolo rosso e il confronto, che non è all’ultimo sangue, ha ovviamente termine al primo. Mentre quel fuoristrada si tampona le narici col fazzoletto, io lo pianto lì, e me ne vado dicendogli: "Mi dispiace...", e gli risparmio: "... ma te la sei voluta.".


Il giorno appresso sono in Aula Magna, alle prese con lo svolgimento di un tema, quando la bidella mi informa di andare in Presidenza. Mi accoglie il professor Morelli, con il suo abituale senso di misura: "Stamani il suo compagno XXX, è venuto in Istituto accompagnato dal padre, il quale lamenta che lei sempre dileggia il suo figliolo, per quel piccolo difetto di strabismo di cui è portatore. Mi dica come stanno le cose.". Penso: "La carogna!... Mica ha raccontato a suo padre che gli ho rotto il naso e perché. Ritiro il mio finto rammarico per averlo fatto!". Al Preside rispondo: "Professore, io con quello lì manco ci parlo: ciò di cui mi accusa è falso, o forse, avendo gli occhi storti, ha scambiato me per un altro! ". Penso di essere stato creduto, perché il Preside mi accomiata con un sorriso di tante valenze, e un laconico: "Vada pure e cerchi di essere prudente, con quel suo compagno.".

 

 

IL MIO LUCIGNOLO


Finite le medie, mi iscrissi all’Istituto Tecnico. Anche qui le cose non andarono per niente bene.

Il giorno in cui entrai in quella scuola di Corso di Porta Vigentina; un funereo edificio che più in linea con i miei sentimenti non poteva essere; ero determinato ad impegnarmi nello studio. Appena in classe, infatti, mi premurai di occupare uno dei tre banchi più vicini alla cattedra. Magnifico! In questa posizione non potevo distrarmi.


Tutto andò bene per una quindicina di giorni. Poi, durante una lezione d’inglese, la professoressa m’intimò: "Lei, che è grande e grosso, si scambi il posto col suo compagno, là in fondo, all’ultimo banco.". Sicuramente io; che seduto nel banco, ero una spanna più alto di lei, nana e stortignaccola; ne disturbavo la suscettibilità.


Si vivevano i tempi in cui la rivoluzione studentesca e il TAR (Tribunale Amministrativo Regionale), erano di là da venire; e quindi dovetti obbedire. Mi trovai così, come compagno di banco, un pluriripetente, col pallino della radiotecnica, il quale m’imponeva di fatto, l’ascolto delle sue nozioni, sulle trasmissioni via etere.


La prima volta, fu durante una lezione di algebra, che seguivo attentamente sulla: "Moltiplicazione e divisione dei radicali e riduzione di radicali al medesimo indice" (un titolo alla Lina Wertmüller regista, che però, al tempo, aveva appena sette anni). Cassina, così si chiamava il compagno, mi diede un paio di gomitate, imponendomi di guardare un foglio di quaderno, su cui era disegnato uno schema: "Guarda qua: questo è un solenoide e quest’altro un condensatore collegati in parallelo. Formano un circuito oscillante, che produce una corrente ad alta frequenza, detta anche ‘portante’, perché, al contrario di quella a bassa frequenza, ha la proprietà, se viene collegata ad un’antenna, di irradiarsi nello spazio. Allora: se in serie al cavo d’antenna si saldano i conduttori di un microfono, la tua voce che questo raccoglie; e che è a bassa frequenza; influisce sulla corrente ad alta frequenza dell’antenna, modificandola in corrente portante modulata. Quando questa giunge via etere all’antenna della stazione ricevente, un circuito ‘detector’ trae dalla corrente modulata, la sua componente di bassa frequenza, cioè quella microfonica, con la tua voce, e la invia all’altoparlante, detto ‘diffusore’, il quale fisicamente la riproduce. Questo è il principio su cui funziona la radio. Capito?".


Avevo capito perfettamente, ma avevo capito anche, di preferire la radiotecnica alla "Moltiplicazione e divisione dei radicali". Fu come essere colpito da una malattia infettiva. E, in breve, nonostante cercassi di salvare capra e cavoli, quell’anno a scuola; essendo di là da venir anche il sei politico del ‘68; fui rimandato. A casa non inscenarono tragedia. Troppo preoccupati in famiglia, per preoccuparsi, della mia preoccupante bocciatura.


Quell’’estate la passai lavorando nell‘Agenzia di Trasporti che mio padre aveva da poco aperta, occupandomi dei normali lavori d’ufficio.


Passarono alcuni mesi, poi m’iscrissi all’Istituto Radiotecnico, in via Circo, 4, al "Corso radio". Ogni sera, terminato il mio lavoro con Papà, avevo appena il tempo di un salto a casa, per mandar giù un boccone che, puntualissima, Mamma mi preparava. Poi prendevo il tram, per andare a scuola.


Il corso era tenuto da due insegnanti: quello di teoria: un ingegnere e quello di laboratorio: un tecnico specializzato in apparecchi radiofonici. Alle lezioni di teoria mi appassionai moltissimo, per la chiarezza di esposizione del docente, il quale aveva anche l’onestà di dirci: "Sapete ragazzi, io sono sicurissimo dell’esattezza di ciò che vi spiego in teoria, ma se dovessi dimostrarvi in pratica; con saldatori, fili, valvole e altre componenti elettronici; come si costruisce una radio, confesso, che non saprei come districarmi.".


L’insegnamento era di tipo universitario: L’ingegnere spiegava, e tracciava i necessari diagrammi, schemi e formule, sulla lavagna; mentre gli studenti dovevano aver cura di prendere gli appunti di loro interesse. Non si avevano compiti a casa o in aula. La valutazione degli allievi, avveniva con un’interrogazione a metà ed un‘altra a fine anno scolastico.


Le lezioni di laboratorio erano un fumo negli occhi, per giustificare l’ambiguo occhiello: "Corsi teorici e pratici", nei manifesti della scuola. Mi attendevo una sala, con una serie di deschetti, uno per studente, ciascuno dei quali attrezzato con saldatore, pinze, ecc., e componenti radio per realizzare i primi cablaggi. Niente di tutto questo: forse la mia fantasia era stata troppo fervida. Ci trovammo in una sala con quattro banconi, sui quali, erano presenti antidiluviani strumenti di misura, tipo voltmetri, amperometri (probabilmente di ricupero), dei reostati, delle lampadine e altro materiale elettrico di poco conto. Sopra ognuna di queste unità, erano predisposti gli elementi necessari ad una determinata dimostrazione. Un esempio di lezione pratica? Ci accostavamo ad un bancone; l’istruttore, dall’altra parte, prendeva in mano una lampadina già montata nel suo portalampada: "Vedete: questa lampadina ha due fili (si chiamano reofori); al capo dei quali ci sono due spinotti: se noi inseriamo questi spinotti in una presa elettrica... così: la lampadina si accende. Vedete? Si è accesa. Ora: se tra uno spinotto e la presa di corrente, io inserisco un amperometro, come sto facendo, lo strumento mi indica, in ampère, l’assorbimento di corrente della lampadina. Vedete che la lancetta si muove? Ricordate: l’amperometro va sempre collegato in serie nel circuito. Se lo si collega in parallelo, come avviene se si introducono direttamente i suoi terminali in una sorgente d’energia (tipo presa elettrica), si provoca un corto circuito e lo strumento brucia, divenendo inservibile. La prossima volta vi parlerò del voltmetro, che è indispensabile per la misura delle tensioni.". Una boiata!


I miei studi di radiotecnica andavano bene. Conoscevo a memoria novantadue formule della materia. Avevo compilato, con inchiostro di vari colori, due quaderni completi di appunti, formule, diagrammi, disegni vari; e li tenevo sul mio banco, per consultarli durante le lezioni. Una sera l’ingegnere, passando, ne sfogliò incuriosito uno, e poi guardò anche l’altro; infine concluse: "Bene! Bravo! Molto interessanti!".


PRIMO DELLA CLASSE


Quell’anno fui promosso a pieni voti e, dichiarato primo della mia classe. Il Preside dell’Istituto, ingegner Beltrami, invitò mio padre in Presidenza, e lo informò che le aziende del settore, ogni anno, chiedevano all’Istituto la segnalazione degli allievi più quotati, per offrire loro l’assunzione. Il mio nominativo era già stato comunicato alla Società SAFAR (Società anonima fabbrica apparecchi radio). All’ufficio personale di quell’azienda, cui su invito del Preside mio padre si rivolse, dissero: "Informi suo figlio di tenersi pronto: presto lo chiameremo.". Eravamo nel mese di giugno e a settembre, non avevo ancora ricevuto alcun invito. In ottobre mi iscrissi, al secondo anno del "Corso serale radio". In classe, il primo giorno, ritrovai il compagno di banco dell’anno precedente: "Sai? Ho avuto fortuna, mi sono raccomandato ad un mio amico di famiglia, capo del personale della SAFAR, mi ha trovato un posto in quella fabbrica.". Accusai il colpo doloroso, ma risparmiai al compagno tutto ciò che avrei potuto inutilmente dire, e conclusi: "Sono contento per te!".


Come non bastasse, l’insegnante di teoria non era più l’ingegnere dell’anno scorso: un’affezione alle corde vocali, gli aveva impedito di accettare il reincarico. La Scuola lo aveva sostituito con un perito industriale, tecnico di laboratorio. Una frana: era incapace di esprimersi e assolutamente inadatto al suo compito. In breve: non andai più all’Istituto, e naturalmente i miei genitori sospesero il versamento delle quote. Alcuni mesi dopo, uno studio legale, con una raccomandata, c’intimò il pagamento degli arretrati. Mia madre si recò in quello studio, e all’avvocato presentò i quaderni dei miei appunti di scuola, chiarendo i motivi per cui io avevo sospeso la frequenza dell’Istituto. L’avvocato dichiarò: "Signora, lei ha ragioni da vendere, i suoi quaderni sono prove a discolpa irrefutabili, e le dico che altri studenti hanno sospeso gli studi, con analoga motivazione. Stia tranquilla, non riceverà altri solleciti di pagamento. Buongiorno.". E buonanotte per la mia radiotecnica! Veramente continuai ancora come autodidatta, e "nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai" iscritto alla scuola per corrispondenza Radio Elettra; per merito della quale, arrivai a costruirmi anche un televisore. Bella soddisfazione, ma ormai... la conoscenza dell’elettrotecnica e dell’elettronica non, potè che servirmi, preziosa e remunerativa, al solo uso domestico.

 

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