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Racconti della serie : I ragazzi di Via Imbonati
I
RAGAZZI DI VIA IMBONATI Abitavamo allora in Via Carlo Imbonati al 4: un edificio civile, di recente costruzione, alto quattro piani, con ampi loggiati di accesso alle abitazioni e servizi interni. Insomma: un passo avanti dalle ottocentesche costruzioni con stretti ballatoi, e gabinetti fuori casa.. Il cortile comune, proseguiva con un area privata, occupata dalla fabbrica di un marmista. La vista, dai loggiati dei piani superiori, dominava anche il cortile del caseggiato contiguo, del civico numero 6, attrezzato con tre giochi di bocce. Mi perdo in questi particolari perché, di frequente, quando penso alla mia infanzia, mi tornano alla mente quelle calde sere d’estate quando, dopo cena, Papà e Mamma, spenta la luce, si affacciavano alla finestra della cucina, a prendere un po’ d’aria. Io, dietro loro, con le braccia incrociate sul tavolo e la testa sonnecchiante sopra di esse; li sentivo parlare sommessamente, e ne scorgevo le sagome scure che si stagliavano sulla luminosità variopinta dei giochi della casa accanto, da cui, tra le bocciate, provenivano forti le grida dei segnapunti: "Sei al rosso e sette al verde!... Sette al rosso e sette al verde!..". Che suggestione! Dal lato opposto della cucina, avevamo la camera da letto, con un balconcino che dava sulla via Bernardino de Conti, dal quale si potevano dominare gli ampi cortili della mia scuola, ombreggiati da numerosi ippocastani, la cui fioritura, nell’avanzata primavera, profumava i pomeriggi assolati di quella tranquilla strada. Mio padre, nella buona stagione, di sera, si isolava talvolta su quel balcone, seduto a meditare sui problemi del suo lavoro (allora era dirigente di un’agenzia di trasporti) e su quelli di famiglia. Non sempre gli andava bene perché, se non ero indaffarato in qualche mio trastullo, finivo per accorgermi della sua assenza, e gli arrivavo appresso senza tanti riguardi, ritenendomi in diritto di appropriarmi di tutta la sua attenzione. Egli mi accoglieva pazientemente sulle sue ginocchia, in parte compiaciuto e in parte rassegnato, e rinviava le sue elucubrazioni mentali, per rispondere alla trafila di domande, che sapeva, gli avrei poste. "Papà: perché ci sono le stelle?". I bambini pongono interrogativi, a cui molto spesso nemmeno un Premio Nobel sarebbe in grado di rispondere. "... e perché stanno su? E perché sono luminose? E perché...? E perché...?". In quel caseggiato trascorsi la mia prima infanzia, con altri bambini e compagni di giochi, miei coetanei. Aldo Cosmo, due anni meno di me, abitava al terzo piano. Era orfano di madre e viveva col padre, un questurino (allora si chiamavano così gli agenti investigativi), tutto d’un pezzo, vestito sempre di scuro, con due baffetti neri alla Charles Chaplin. Saliva le scale lento e silenzioso come una pantera, e salutava i casigliani con un cortese ma asciutto "Buona sera". Non lo sentii mai redarguire suo figlio, ma quando rincasava, Aldo, se era con noi compagni di giochi, ci diceva brevemente: "Devo andare: é arrivato il mio papà", e filava via. Mai che il ragazzo si lamentasse per un qualsiasi motivo di suo padre, insomma: "ipse dixit!". Accanto ai Cosmo, abitava una giovane graziosa vedova (o separata?): la signora Attuoni, con due bambini: Maria, mia coetanea e Marcello, un infante che ancora non profferiva parola. Maria, era una bella bambina, con capelli corti, spioventi sulla fronte alla francesina e gli occhi azzurri, leggermente strabici, il che non guastava. Veniva spesso a casa mia a giocare con me. Mi piaceva; ma era bugiarda, molto bugiarda. La nostra amicizia finì, perché una mattina, la ragazzina, a casa sua, prese a schiaffi per affari loro, il fratellino; il quale, non avendo ancora imparato a parlare, si limitò ad urlare disperatamente. La signora Attuoni, occupata in faccende domestiche in altra stanza, accorse a vedere cosa mai fosse accaduto e Maria le disse, con aria innocente: "E’ stato Giorgio a picchiare Marcello, e poi mi ha pure detto che ho gli occhi storti!". Sua mamma, bevve tutto e si precipitò a casa mia a puntarmi il dito accusatore, ma incappò male, perché il mio alibi era di ferro: quel mattino non mi ero mosso da casa; testimone la mia genitrice. Ne nacque una epica lite tra le madri, tanto che le famiglie si tolsero per sempre il saluto. Molti anni dopo seppi che Maria, ormai adolescente, presi i voti era divenuta suora e ciò mi lasciò perplesso: si era data al Signore per espiare la sua falsità, o per imbrogliare anche Lui? Al terzo piano abitava anche Anita: ragazzina simpatica dal fare un po’ ironico, con cui ebbi poche occasioni per giocare, come pure con Irene, la cui famiglia; che al primo piano occupava l’appartamento sottostante al mio; raramente le permetteva di uscire nel loggiato. Paradossalmente mentre noi, ragazzi e ragazze, eravamo di quell’età, prepubere, in cui i due sessi tendono, più che altro, a guardarsi in cagnesco, a dileggiarsi, e a farsi i dispetti; molti genitori vivevano ridicolmente in apprensione, temendo chissà quali guai avrebbero potuto scaturire da un innocente intrattenimento, alla luce del sole, tra giovanissimi compagni di caseggiato. Ma una motivazione forse c’era.
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IL
SUICIDIO DI LINDA In quella casa parecchi anni prima, quand’io ero ancora lattante, avvenne una tragedia. Mio fratello Livio, di me maggiore di dieci anni, si trovava sul loggiato, fuori del nostro appartamento, quando notò, nell’altra ala del fabbricato, al quarto piano, una giovane coinquilina sporgersi dalla ringhiera a guardare il cortile. La ragazza si chiamava Linda, ed era noto il suo disperato amore, non corrisposto, per Ubaldo, un bel giovanotto pure abitante nella casa. L’atteggiamento di Linda era sospetto, tanto che mio fratello, in apprensione, non poté distogliere lo sguardo dalla scena: così vide la giovane, togliersi una pianella e, tenendola tra due dita, sporgerla di là della balaustrata, col braccio teso. Dopo qualche attimo, la ragazza lasciò la presa e la ciabatta cadde fino a terra con un piccolo, sordo rumore. Livio, attonito, seguì il volo dell’oggetto e quando, dopo un attimo, con lo sguardo ritornò al quarto piano, vide la ragazza che, ormai scavalcata la ringhiera, si lasciava cadere nel vuoto, con un urlo agghiacciante e l’esclamazione: "Mamma mia cos’ho fatto!". Mio fratello rientrò in casa scioccato, dando testate al muro; così disse in seguito mia madre; come per scuotere e cancellare l’orribile visione di quel ricordo. Naturalmente famigliari e inquilinato si mobilitarono in soccorso della povera Linda, che ormai, esanime, giaceva a terra nel suo sangue. L’alea di quel funereo avvenimento sovrastò per lunghi anni il nostro stabile.
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L
I V I E T T O Il suo nome era Livio Rossati, e fu il mio più caro amico d’infanzia. Giacché avevo un fratello con lo stesso nome, tutti nel fabbricato, per evitare confusioni lo chiamavamo Livietto e questo diminutivo lo seguì anche quando, ormai adulto, veniva a far visita alla mia famiglia, dopo il nostro trasloco, nella nuova abitazione di Via Alserio, 1. Abitava sul mio medesimo piano; suo padre era un contabile della vicina fabbrica di prodotti chimici "Carlo Erba", presso la quale era molto apprezzato per la sua mente matematica, che gli consentiva di effettuare, senza errori, somme di moltissimi fattori, al tempo in cui le addizionatrici meccaniche erano ancora allo studio. Sua mamma, ex maestra, soffriva di una forma di paraplegia: conseguenza di una encefalite letargica, che la colpì quando diede alla luce Livietto. Le faccende di casa venivano sbrigate dall’anziana nonna paterna; ancora tanto energica, da saper accudire, oltre alla nuora inferma, anche ai tre uomini del nucleo famigliare. Il terzo era Orazio, il primogenito, di alcuni anni maggiore del fratello. Era una dignitosa famiglia, i cui membri tutti, collaboravano con affiatamento, per supplire ai disagi, imposti dalla malattia della padrona di casa. Ad ore fisse i ragazzi, a turno, aiutavano la mamma ad alzarsi dalla poltrona, per una passeggiata lungo il loggiato e conversavano normalmente con lei perché, è da dire, che l’infermità non aveva leso la mente della donna, una ex maestra elementare, che era rimasta lucidissima, mentre invece la voce, usciva flebile dalle sue labbra. Alla sera, quando il signor Euclide rincasava dal "Carlo Erba", era lui che portava affettuosamente la moglie a passeggio nel ballatoio. Avanti e indietro, avanti e indietro: nel buio e nel silenzio della casa, si udiva il claudicare della signora, che strisciava per terra con uno dei suoi sandali, e il parlare sommesso del marito, il quale reggendola sottobraccio, le raccontava le novità della propria giornata di lavoro, e le chiedeva anche consigli. Con Livietto andavamo molto d’accordo, anzi non ho memoria che nei nostri rapporti ci fosse mai stato qualche screzio o lite. Niente. E’ da notare ch’egli godeva di molta libertà, vivendo le sue giornate con la sola sorveglianza della nonna; a cui poteva facilmente disobbedire per andarsene per i fatti propri; salvo poi essere accolto al rientro, con scopate in testa dalla vecchia, ma ancora vigorosa congiunta.
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UNA
MARACHELLA COSTATA CARA . Livietto era per me come Lucignolo per Pinocchio. Quella sua possibilità, di poter uscire di casa e andare, per esempio, ai vicini giardinetti, a giocare con altri ragazzi; gli consentiva di accumulare una quantità di esperienze; per cui, agli occhi miei; sorvegliato a vista com’ero in famiglia; appariva come un Cristoforo Colombo. Fra l’altro poi, mentre io leggevo ancora le vicende del signor Bonaventura e di Bibì, Bibò col Capitan Cocoricò sul "Corriere dei Piccoli"; il mio amico già divorava i libri del Salgari, del quale, ispirandosi alle avventure dei "Tigrotti di Mompracem", egli organizzava i nostri giochi, autonominandosi Sandokan e, considerando me l’amico salgariano Yanez. La dipendenza da questo mio coetaneo, che praticamente era l’unico assiduo compagno e amico che avessi, mi induceva a sottovalutare le sue monellerie, e talvolta ad imitarle. Un giorno, lo vidi maneggiare un pugno di materia morbida, bianca, facilmente modellabile, una specie di plastilina, e farne oggettini vari e pupazzetti; e gli chiesi di che prodotto si trattasse. M’informò: "E’ pasta di pane, l’ho presa giù dal Caronni.". Caronni: un marcantonio grande, grosso e ignorante, era il panettiere; il quale possedeva nel nostro fabbricato un negozio verso strada, il cui retro, che aveva uscita nel cortile comune, ospitava, le macchine per la panificazione. Livietto mi spiegò che al mattino, quando il fornaio aveva vuotato l’impastatrice egli, entrando dalla porta sempre aperta del retro, in un momento in cui il locale era deserto, raccoglieva, facendo scorrere la mano sulla parete della vasca, una manciata dei residui dell’impasto. "Vacci anche tu!", m’incoraggiò l’amico ed io, senza pensarci, obbedii. Scesi le scale, attraversai il cortile e, di là dalla porta aperta del retro vidi, proprio di fronte, l’impastatrice. In punta dei piedi, mi avvicinai alla macchina, alzai il braccio, per valicare il bordo della vasca che era più alto di me e, alla cieca, cercai resti della pasta. Niente, non trovai proprio niente. Deluso, continuavo ad annaspare con la mano, quando all’ improvviso avvertii sulla guancia l’impatto di un sonoro ceffone, accompagnato da una bestemmia di chi me l’aveva mollato: quel bisonte del panettietre che, silenzioso, era giunto alle mie spalle. Piangendo, fuggii velocemente di sopra, a casa, dove a mia Mamma, raccontai la disavventura; le cui conseguenze erano stampate sulla mia guancia, col rosso di cinque dita. Mia madre s’infuriò e dicendomi minacciosa: "Con ti i conti li faremo dopo!", si precipitò nel negozio del Caronni, col quale, incurante dei clienti presenti, inscenò ad alta voce un lungo duetto, la cui sostanza era la seguente: "Se mio figlio le ha arrecato un danno, lei doveva dirlo a me ed io avrei indennizzato lei e punito il bambino. Ma lei si è comportato da mascalzone e da vigliacco, perché ha percosso con tutta la sua forza un ragazzino. E questo non lo avrebbe dovuto fare!" . Risalita, visto che la mia guancia non si era ancora rigenerata, Mamma non se la sentì di affibbiarmi un’altra sberla, e commutò la punizione corporale in qualcosa di peggio: d’ora innanzi mi era proibito di scendere in cortile a giocare con gli altri bambini. Questo isolamento, che mi impediva di frequentare normalmente i miei compagni; mi spinse a cercare passatempi solitari. Inizialmente mi dedicai alle costruzioni col "Meccano", un brevetto inglese, costituito da una grande varietà di componenti metallici, con cui si potevano costruire una illimitata quantità di piccole macchine od oggetti; come: gru, carriole, vagoncini, mobiletti, ecc.; tratti da modelli in catalogo o ideati dalla personale fantasia. Quando un oggetto non interessava più, lo si smontava e i suoi componenti servivano per altri lavori. In più occasioni ne avevo ricevute in regalo numerose scatole e potevo quindi dedicarmi a realizzare molti e diversi progetti. Col passar del tempo, sempre alla ricerca di nuovi trastulli, andai ad esplorare il cassettone in cui mio fratello teneva le proprie robe. Livio era molto trascurato nella conservazione dei suoi oggetti personali perché, facile all’entusiasmo, comperava nei limiti delle proprie possibilità, qualsiasi cosa che colpisse la sua immaginazione; ma poi, in breve si stancava del nuovo acquisto, e finiva per abbandonarlo, nel pieno disordine dei tre cassetti del suo mobile. Tra gli oggetti di mio fratello, trovai molti fascicoli dell’ "Enciclopedia dei ragazzi", mi pare edita dalla Mondadori, e in tale lettura passai molte ore della mia solitudine e colmai buona parte della mia voglia di sapere. La proibizione di scendere in cortile, non fu mai revocata da mia Mamma, né io mi sognai mai di chiederne la fine, né tanto meno di trasgredire quell’ordine. Furono sette anni di domicilio coatto. Un isolamento che io, forse per un complesso di colpa, accettai con rassegnazione e senza alcun rancore verso la mia genitrice. Questa mia prigionia terminò solo quando iniziai a frequentare le scuole medie, che erano distanti da casa mia parecchie fermate di tram. Ebbi l’abbonamento tranviario, ebbi le chiavi di casa, ebbi qualche lira in tasca, perché non si sa mai: ebbi in sostanza il passaporto per la città. Mi fu concesso anche di andare al cinema, da solo, la sera. Con Livietto l’amicizia perdurava, ma con l’adolescenza, anche per il trasloco delle nostre famiglie in altre abitazioni, i contatti si allentarono, senza però estinguersi totalmente. Assieme si andava qualche volta in gita, a piedi o in bicicletta, in Brianza, nei dintorni di Erba, al Buco del Piombo, o a Longone al Segrino. Ho ancora esposta in casa una fotografia, ripresa con autoscatto, che ci ritrae diciottenni a braccetto in cima al Monte Palanzone, sopra Asso. Poi, egli fu ricoverato in sanatorio, per una forma polmonare, da cui però guarì. Di tanto in tanto ci scambiavamo cartoline illustrate. Infine la guerra e il servizio militare ci dispersero. Nel 1951, lo rincontrai a Milano, ora abitava in Via Legnone, ancora col padre e il fratello. Mi disse di aver preso moglie e di essere contento, perché: "dove vivono tre uomini soli, una donna fa sempre comodo.". Capii così come la pensasse sul matrimonio. Saputo che lavoravo in Comune, promise che mi avrebbe fatto conoscere la sua dolce metà. Infatti, un giorno venne nel mio ufficio a presentarmela. Una ragazza di media statura, tozza e smorta, con due grandi borse scure sotto gli occhi; la quale mostrò subito verso di me una cordialità forse eccessiva. Suo marito le aveva parlato molto di Giorgio: l’amico d’infanzia. Andammo fuori tutti e tre, al Bar, a prendere un caffè, e ci salutammo. Tre giorni dopo la donna venne sola a farmi visita in ufficio. M’invitò ad uscire perché doveva parlarmi. Andammo al Bar, ma strada facendo incominciò subito, tra una sigaretta e l’altra, a sfogarsi. Si lamentò dei tre uomini che aveva in casa: il vecchio le faceva sempre osservazioni, il cognato era un ospite da accudire di tutto punto, e il marito dava sempre ragione agli altri due. Non ne poteva più e chiedeva il mio intervento. Le risposi che comprendevo le sue ragioni, ma che ritenevo di non intromettermi, perché il mio rapporto di amicizia con suo marito, benché di lunga data, non era abbastanza intimo da potergli parlare delle sue faccende famigliari. Si trattava della verità. I nostri padri, quando erano coinquilini, si salutavano cordialmente per le scale, avevano la massima stima uno dell’altro, e accettavano di buon grado che i figli si frequentassero; ma i loro rapporti non erano andati più in là. Forse entrambi difendevano la propria privacy. Offrii, alla mia indesiderata visitatrice, il caffè. Poi le suggerii, qualora ritenesse di farmi ancora visita, di usarmi la cortesia di venire accompagnata dal marito. Non vidi più né l’una, né l’altro. Così sfumò la mia grande amicizia con Livietto.
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