Voglio essere
Voglio essere quello che sono
voglio che si veda ogni lato
di questo battito imperfetto
cose ed ombre che si intrecciano
come me e te che non siamo mai
quello che vorremmo, eppure
chiari al buio ci sorprende
la stessa luce tonda, durerà
in eterno, non un giorno soltanto,
in questo luogo dove a volte
non sappiamo neanche perchè si vive.
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La
notte è una siepe La notte è una
siepe di buio
noi ovunque
e in nessun luogo
accadiamo nel mondo
come se fossimo soli,
nell' attesa di un evento
per la linfa vitale a cui
ciascun corpo si sottrae.
Ci ha raccolti un filo di luna,
nell'essenza di quel "je t'adore"
ogni cielo si raduna nel ventre
e temiamo la luce dell'alba
che sempre ci contiene dispersi
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Inutili arabeschi
Dopo la fuga del discorso
c’era tutto un possibile
fuori, nel tempo del sole
assente, sui vetri appannati
il fiato incolore era gelo.
Si pensava che qualcuno
potesse scoperchiare il cielo
nel mezzo della stagione
gli uccelli in arabeschi aerei
colpivano l’occhio del cuore
e quell’affanno d’aria sulle labbra
era la voce dura del silenzio
che nessuno soccorre più
neanche per sbaglio.
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Stazione di mare
C’è sempre
un’altalena di treni
che svuota i
marciapiedi
e porta via
come fa il
salire della marèa
con l’argine
consumato
fino alla
statale, fino
alle radici
delle case,
quando l’aria
sostiene appena
il peso del
congedo
qualcosa rimane
nella risacca
qualcosa fa
rumore
e si ripara
dentro una conchiglia
come quella paura, nomade,
di cui non so parlare.
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La solitudine del
lampadario Vedere la fissità della luce farsi onda
orizzonte prossimo sulle pareti
e carezzare l’ombra delle cose
sul rosso del pavimento, sul bianco
smezzato delle ante dell’armadio
socchiuse come chiese,
è anche questa una solitudine
che nell’immanenza muta, abbaglia
e viene da chiedersi se ci sia mai stato
qualcosa da rimboccare che non s’è visto
sul lato destro, dove tutto il niente è desolato.
Soltanto lo spazio si dilata negli specchi,
ma il corpo riflesso non ha incertezze
a guardarlo bene sembra di qualcun altro.
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Poesia d'amore
C’è un luogo dell’anima sul petto
dove giace un dio abbandonato
quasi fosse un barbone fra i cartoni
ma c’è un bene che si spande dal suo nome
come una muffa umile dall’angolo
io lo chiamo fuoco, come se t’avessi a fianco |
L'inizio del tempo
incalcolabile Parlavamo, distanti un tavolo.
La luce a lampi dalla persiana
filtrava negli interstizi
delle dita, fino alle bucce verdi
levate via dalla lama,
ch’era come una vela
quando taglia la vastità
azzurra e non ferisce,
toglieva il superfluo per
arrivare al cuore delle cose,
nel giaciglio della sedia
io ero una farfalla che non
muove l’aria, sta e poi va oltre,
soltanto mi posavo discreta
sull’arte di quel vivere privato
sul profilo suo che mutava
sembianza come le nuvole
prossime alla dissolvenza:
la schiena era un cielo estivo
un chiarore nudo come d'infinito
in quella stanza che non sapeva
ancora d’essere il baricentro
nelle sere di vicina lontananza.
E pure c’era il turbamento
in quella segreta evoluzione a fiore
c’era l’inizio del tempo incalcolabile.
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Visita al camposanto
Nei crisantemi gialli appena
aperti, nel coro di rosa
sotto al cielo slavato
c'è il transito breve
del passo, nelle ore morte
dei cari
nell'innocenza del nome
segnato, che tiene compagnia
c'è ogni carezza perduta
qui, dove nulla muta, sola e
con la schiena china sui gambi
spezzati, s'assottiglia il senso
del tempo che hai davanti
[ l'altro, sta sempre dietro
come le nuvole cupe sui monti ]
e chissà se domani,
basteranno le mani
in posa,
per mettersi al riparo.
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Avevo preso la prima
via, Avevo preso la prima via, non
era quella. Ne presi un’altra. Una terza.
Finalmente la piazza, un cortile
interno non più uguale a se stesso.
Mancava la torre. Il civico era giusto.
Poteva bastare il numero
in fondo, a raccontare la casa.
Non c’era più nessuno, dopo
non c’eravamo più neanche noi.
Il balcone intimo, all’angolo
conteneva la riservatezza verde
di qualche pianta e la cuccia del gatto.
Le case intorno segnavano il confine
di quel luogo privato. La via dritta
nel fresco dei tigli, in quell’ora breve
di luglio, pareva una decisione ovvia.
- Non ci sono più carrozze per fumatori –
anche questa mancanza aveva un peso
nell’aria che mutava ad ogni stazione
il verso dei capelli, c’era la fuga delle cose
il frastuono di segni inverosimili ed io
sempre sul sedile, quello che guarda avanti.
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E' probabile
Quando il senso scivola nudo
nell’obliquità tesa dei giorni,
e la stagione prende il verso
giusto, sulla spiaggia lunga
d’insabbiata malinconia,
io tremo di cura prudente.
Ferma, al margine del non tempo
spoglio le parole e la luce,
vivo l’ appartenenza piena
a questo spazio, sono linea
retta d’intersezione e poi angolo
a contenerti, prima dell’infinito.
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Vi ripenserò ad uno ad
uno, Vi ripenserò ad uno ad uno,
monili nella memoria,
bellezza, che vi tiene insieme,
senza occupare spazio,
nelle stanze del mio cuore,
e pure devono esserci porte
a contenere i volti, vostri,
le parole, i sorrisi, i pianti,
e finestre, da dove siete entrati
coi vostri marchingegni di bambini,
e mi chiedo, se sarò futuro buono
nelle vostre menti, ed in quale forma
tonda o ad angolo,
se nei recinti a maglie larghe del sentire,
resterà l’immagine mia,
o cos’altro,
o sarà il fare con la mano,
con l’amico, il segno,
dell’aver attraversato insieme
un tempo di gioia senz’ombra,
una via che m’è parsa troppo breve
Di tutto quel che è stato
sia in voi, sopra a tutto,
il voler bene a molti
come nel racconto mio, di ora,
mentre mi siete tutti dentro.
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E' il tempo
non finito che già manca Ci sono momenti che
sembrano non arrivare mai
altri, invece, passano in fretta come i voli rasente
di certi uccelli all’imbrunire, che quasi non credi
d’averli visti, d’averli capiti per intero, t’attraversano
con la discrezione delle nuvole, senza rumore,
a volte soffici, altre colme d’acqua trattenuta
a fatica, eppure, sono sempre lì, appese al cielo
senza fili, sazie d’aria, di respiri, forse di sogni
Ci sono giorni che ti fanno compagnia e tu
li vivi troppo poco, troppo presa dalle cose,
da ciò che ti è davanti e perdi, quel poco di grande
che ti sovrasta, come un sole, pronto a donarti
energia, quando ne hai bisogno e non chiede
altro che di raggiungerti con i suoi raggi forti
con la luce bianca e lo senti dentro quel bene
Ci sono parole che non riescono a dire tutto
quello che vorrebbero, se ne stanno in silenzio
dietro ai denti, masticano un affetto che non cede
all’assenza, ma se apri la bocca sono un fiume
che scorre, finché il senso dell’andar via,
sia ben levigato, e senti che una sola riva
non può arginare una piena, ma la vastità
di ciò che sei stata è terra piena di semi buoni
che parlerà di te quando sarai altrove ed io
sempre dentro quel desiderio vivo d’attesa
dentro, questo tempo tuo, non finito, che già manca
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Tagli e sangue
Alle tre di notte
la luce accesa
sul male
tu t’avvicini
con l’orecchio buono
e chiedi
- come stai –
sei quasi bella
nella camicia da notte
bianca e fragile
in quel non saper
cosa fare
c’è tutta la cura
delle parole d’amore
recise sulla lingua
sputate come l’amaro
eppure volute
distanti un niente
tenute vicine
col guinzaglio del pianto
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Il volto posso
solo rammentare il volto
la forza dei poli
le parole composte
l’esistere di colpo
sotto ai rami del tiglio
scoperti dalla luce
nell’ improvviso tremore
come d’aria nel tuono
sul cielo invaso dal verde
un lampo inatteso
folgorata l’indifferenza
veniva meno, un’altra volta
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Lentamente, Bologna
Può essere perfino respirabile
il tanfo d’orina sul marciapiede
di Bologna, se t’accompagnano
i versi dei “Primi incontri”
e le pagine rovesciano addosso
l’odore del bucato di una volta,
lentamente, come fosse amore
Sono stata abbastanza attenta
da non perdere i passi e le parole
e mi rimane ancora una domanda:
se siano di più i cieli con la promessa
o quelli che non hanno fari accesi,
guardati all’infinito ad occhi aperti,
quando la deriva è più probabile del porto.
In quella stanza affollata
di note e vite manoscritte, nel tempo
sensuale dell’Agricanto,
ho visto ponti di parole invisibili
ed immaginato la forma delle anime
l’essenza, che ho compianto in silenzio,
dopo, col sapore buono del pane di Parma.
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Fotogramma Un
click e poi, salva con nome
la sua immagine col mare
[ come a voler portar via
due cose in una ]
perché il nome può scavare
una nicchia nel petto
come un’ondata forte,
quando riduce il margine;
[ in controluce il volto
era come una macchia sulla retina ]
nell’ immanente evidenza
qualcosa era da separare:
la pupilla dalla figura
l’ombra dalla luce o forse
la superficie dalla profondità
Lei, si sporgeva appena
oltre il corpo,
in bilico sull’orizzonte d’aria, lungimirante come un faro
indecisa sulla posa,
concepiva la messa a fuoco
lì, in quel punto,
dove iniziava l’abbandono
a guardare bene, c’era il tutto
e il dirsi, a labbra schiuse, fino al nulla
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Enigma Quando il
buio nega
le cose senza luce
qualcosa preme
prende forma
si fa presenza
cominciamento
senso di assoluto
potrebbe chiamarsi
solitudine
questo immaginare
il volto degli oggetti
o, forse, elevazione
e ripeto per ipotesi
la minuta di un enigma
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Sortilegio Non
per altri occhi
sarà il cercare
da qui all’infinito
un’ eco di labbra
farsi voce;
se il bacio prelude
alla partenza
e piange la mano
ciò che lascia
non posso altro
sostenere
se non la dedizione
piena
alla tenerezza
d’un volto che persuade
con un verso anche
l’ultimo esule pensiero
e capisco
tutto il bene delle cose
e il tuo
essermi cura
come il verde
sulla terra a primavera
con un sortilegio
che sale da dentro
e non lascia mai,
mai, andar da soli
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Fuori dall'ordinario
di quale inconsueta conoscenza
si potrà farne canto
se non quella della parola affine
ed intuirne la cura
come guanto che preserva
dall’inconsistenza fredda,
[ fuori una luce smorta stenta
a sollevarsi sulle palpebre ]
la mappa di cellule
sottomessa
alla tenerezza che smargina
dal corpo
rimane
nello spazio minimo
di un approdo stabile
in un accanto che rassicura
come una casa
definitivo firmamento
fuori dall’ordinario
e viene da domandarsi se la luna
sia stata intenerita dalla pietra
o se nella natura dell’attesa ci sia
infine, una bellezza che tramuta
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Respiro privato
Lasciami entrare nel respiro privato, nelle vene
oltrepassa il confine della terra martoriata
Raddoppiami come il filo nella cruna, congiungi
la sfilatura punto a punto, dipanami e poi
dimmi dell’ombra di Teseo, della via del labirinto
di ciò che muore nel profondo prima dell’inizio
e sia, infine, ogni sinonimo d’addio, dimenticanza
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Teorema
Questa luce inattesa, sbieca
soffocata appena dalla trasparenza
gialla delle tende,
esclude le luci dell’albero,
attraversa la stanza,
supplica i miei piedi
con ritagli d’arcobaleno,
insiste con il rosso
nel palesare
che ciò che è etereo
può anche essere terrestre
reale, come il gelo di stamane
sulle foglie dei cavolfiori.
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Giovanni, era il suo
nome
Scelse, fra le sue vocali
e consonanti,
il nome per me
da affiancare al cognome
- eredità inviolabile -
mio padre.
Non è bastata la lettera “I”
allo slancio corporeo, ma
nella forma rotonda delle “a”
c’è tutto quel che rimane
dell’alfabeto:
un dirupo
il clivio dei colli
la pianura quieta
onestà
voce che ama
corpo
con le sue sembianze
radice
che s’àncora nell’aria
nel cerchio di luce estremo
declineremo
il verbo coniugato
al passivo, il senso
delle parole afone
e di tutto
quel che è stato folgorato
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Anni questo anno
vecchio
si lascia dire adesso
che sparisce [chissà
se lo sa, se ha rimpianti]
nell'aria o in terra,
come tutto, un giorno
quest'anno nuovo
nel travaglio delle acque
scivolerà in punta di piedi
o con fragore, è sempre
un seme - abbine cura -
averlo è già una buona cosa.
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Comandamento
Non dirlo, non dirlo mai
amore
non profanare invano
la piramide e l’unico sepolcro
d’una morte viva per affanno
Lascia che sia poca luce
ad illuminare il pathos
nel silenzio senza passi
dei viandanti
in cerca di dimora
Nel centro esatto della meta
sarai tempo mai sprecato,
tempo puro
tramandato
di padre in figlio
di madre in figlia,
alfabeto che declina il senso
esatto, somma algebrica,
perimetro che sfiora l’universo
finchè è principio, comandamento. |