Enrico Pietrangeli ha pubblicato nel 2000 il libro "Di amore, di morte" per la Teseo Editore (Roma) trovando riscontri con diverse riviste letterarie e non solo; definito "un piccolo libro aureo di rara autenticità" nella nota di quarta di copertina redatta da Gino Scartaghiande, il testo è da poco disponibile in una versione e book ridotta con download gratuito per la Kult Virtual Press di Modena. Suoi inediti, racconti brevi, traduzioni, articoli e recensioni sono stati pubblicati su riviste ed in rete. Gestisce il sito "Poesia, scrittura e immagine" [www.diamoredimorte.too.it] |
UN GIORNO UNA MOSCA PER CASO di Enrico Pietrangeli – Diritti riservati - 2003
Giselle non era ancora morta, giaceva sul selciato, agonizzante, mentre si dissanguava lentamente, quando mia madre, una vecchia ma saggia mosca, deponeva, una ad una, le sue ultime uova feconde tra le feritoie delle piaghe ancora fresche. Il sole bruciava sul punto di liquefare l’asfalto, ma non sarebbe mai stato abbastanza caloroso da essiccare il sangue arrestando quella fatale emorragia; per mia fortuna la carne permaneva umida, ancora quel tanto che basta, assecondando con la temperatura un precoce e plurimo sviluppo delle future larve. Non ci furono corse all’ospedale, di quelle a sirene spiegate e che, troppo spesso, sembra che compromettano per sempre lo sviluppo del senso d’orientamento delle mosche. Tutto avvenne con la consueta solerte, cinica prassi dei becchini, senza troppi rumori ma, soprattutto, senza incorrere nel più temibile dei pericoli: bombardamenti attraverso flebo di agguerriti antibiotici. Più tardi, all’obitorio, somministrarono un qualche intruglio ritardante dei processi di decomposizione, ma, simili espedienti, garantiscono migliori possibilità di sviluppo e sopravvivenza per quelle larve che sanno aspettare e fiorire, senza troppa ingordigia, solo nel momento in cui, la carne,e che sanno aspettare e fiorire, senza troppa ingordigia, solo nel momento in cui, la carne, trasformandosi, degenera. Lunghe e noiose ore trascorse nelle celle frigorifere, ad aspettare visite e riconoscimenti, firme e snervanti burocrazie. Poi, il giorno fatale, quello più lungo e atteso: l’autopsia. Guai a capitare tra quei frammenti di carne immersi nei reagenti! Occhi curiosi che spiano ogni anfratto della pelle e scavano, scavano…affondando bisturi e sonde…Dio! Che orrida invadenza hanno questi umani, sempre pronti a curiosare oltre la loro natura per attestare la propria. Un sospiro, si fa per dire, lo si può tirare giù solo il giorno del funerale. Anche lì, a rendere tutto più complicato, ci sono sempre loro: gli umani. Capita, non di rado, che molti cadaveri finiscano per esser cremati. Vi lascio immaginare il piacere di finire, senza ancora essere neppure nati, condannati tra le fiamme di un imponente rogo. Per mia fortuna, nel paesino di Giselle, dove venne celebrato il rito e tumulato il feretro, le cose andarono né più né meno come nelle vecchie consuetudini. Trascorsi alcuni giorni dalla sepoltura, saltai fuori, vispo e determinato a divorare quanta più poltiglia possibile. Ero deciso a rendere onore a quella anziana ed energica mosca di mia madre, volevo, in fretta e furia, assumere le sembianze di una vigorosa larva pronta a trasformarsi e volare verso una nuova vita. Furono sufficienti pochi giorni di quel lauto banchetto per raggiungere adeguati connotati e dimensioni. Ero pronto, finalmente, per la grande impresa, ma un’altra prova mi attendeva: il fuoriuscire da tutta quella melma. Il punto più gravoso consistette nel superare quante ermetiche zincature circoscrivevano la bara. Trascorsi interminabili ore, che per gli insetti potrebbero essere mesi, facendo qua e là capolino alla ricerca di un possibile varco. Niente sembrava penetrare oltre e quando, disperato, mi ero quasi rassegnato a morire lì, nel buio di un anfratto, scorsi, salvifico, un rivolo di umida e percorribile terra. Strisciai in tutta fretta, con le ultime forze della disperazione, ascendendo tra quelle cavità più prossime alla luce del sole. Giunsi, non so neppure io dove e come, laddove mi condusse l’istinto. Ero pallido e morente, di quella comunque apparente, pronto per quell’ultima alchimia che mi avrebbe, di lì a poco, trasformato in un giovane e possente moscone. Uscii fuori, lo ricordo bene, che era un giorno soleggiato, proprio come quello in cui mia madre mi aveva concepito. Non c’erano molte persone al cimitero, anzi, a dire il vero, ce n’era una sola: la sorella di Giselle, raccolta, con pochi fiori in mano, sulla tomba. Fui subito attratto dall’odore penetrante della sudorazione della pelle che emanava quella giovane creatura. Non stentai, inebriato, un solo attimo, nell’approssimarmi cercando un possibile angolo dove posarmi e, nella sua distrazione, approfittarne per suggere un po’ di quella profumata ambrosia. Destino volle che, nel voltarsi, mi vide, scaraventandomi, infastidita, la mano contro. Caddi imbambolato a terra, capovolto e, lentamente, persi i sensi, ruotando sempre più a rilento le ancora gracili zampette. Il sole ha fatto tutto il resto, dissecandomi in poche ore; la sorella di Giselle, probabilmente, non si rese neppure conto di tutto questo: era lì che continuava a sostare raccolta sulla lapide, assorta in tutt’altri pensieri.
Enrico Pietrangeli ha pubblicato nel 2000 il libro "Di amore, di morte" per la Teseo Editore (Roma) il testo è disponibile in una versione e book ridotta del 2002 con download gratuito per la Kult Virtual Press di Modena. Suoi inediti, racconti brevi, traduzioni, articoli e recensioni sono stati pubblicati su riviste ed in rete. Collabora con Tam Tam, Generazione Kappa, Supertrigger e gestisce il sito "Poesia, scrittura e immagine" [www.diamoredimorte.too.it]
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di Enrico Pietrangeli © 2003 Nico esibiva orgoglioso una cicatrice sull'avambraccio destro alla piccola Ketty: un evidente fregio da lama che appariva come una virgola di carne tumefatta e rattrappita; lei, non sembrava affatto inorridita da quanto, stando sulla strada, ribadiva dure certezze per un selvaggio vivere. Ketty, con i suoi lineamenti da minuta ragazzina, finiva sempre col rannicchiarsi tra le possenti braccia di Nico, un muscoloso eroe da fumetto con cui condivideva i resti di una costruzione occupata. Era un luogo lontano e notoriamente malfamato dove, tra rifiuti e quant'altro, in un costante raffermo olezzo si guarniva qua e là il paesaggio di anfratti bui, silenziosi della sola desolazione rotta dallo scricchiolio di soffici tappeti di preservativi e siringhe in cui s'incorreva al passaggio. Nico, quella sera, si acquietò presto, nonostante il freddo, mentre, stanco, stringeva a sé le esili forme di Ketty, proprio in un angolo di quelle disfatte cavità in cemento armato; trattenendo ancora, con gli occhi socchiusi, il mozzicone della sigaretta: un moncone irto di cenere che, nel sopraggiungere del torpore, pendeva sempre più vistosamente dal labbro inferiore. Un vento, cupo e gelido, sussurrava le ultime parole non dette mentre loro, avvinghiati, caddero presto nell'agognato sonno intiepidendosi del calore dei soli corpi. La notte, a dire il vero, sembra non aver mai abbandonato certi posti…ma quella, oltre a un tempo da lupi, aveva il sapore di una disfatta stanchezza…Giorni su giorni consumati in un vivere ai margini, fatto di espedienti e furti ma anche di forzati digiuni ed altri intrugli: droghe sporche, di quelle con l’etichetta e che si trovano anche in farmacia. Più tardi, nel cuore delle tenebre (così come sarebbe opportuno dire solo se si vivesse, come loro, bivaccando in qualche sperduto ed informe tugurio all’inferno) al sibilo del vento si aggiunse il rombo più greve di una potente moto. Seguirono passi incerti, costellati di un vociferare alticcio; quello che, all’apparenza, parrebbe l’abituale andirivieni dei soliti quattro ubriaconi. Tutt’intorno il nulla, di tutti senza appartenere a nessuno: una terra senza regole e frontiere dove Nico e Ketty dormivano dividendo lo stesso spazio con tossici e prostitute durante il giorno. Non c’erano ragioni per venirsi a bucare come sorci rintanati durante la notte e, il clan delle nigeriane, si sa, la sera scende giù, sulla statale. Il rumore del motore tornò di nuovo a rombare e, subito dopo, si udì ancora la sola voce del vento. Nessuno, oltre la notte, sembrava presenziare ancora. Scorse in fretta quell’ultimo lasso di oscurità, di verosimile quiete, lasciando addentrare ancora i chiarori di un nuovo giorno, quasi a confortarci della presenza di un Dio persino in quel posto. Non si poteva dire che fosse ancora spuntato il sole quando una pattuglia della polizia costeggiò quella specie di fabbrica dimessa, l’agente Mazzi bloccò immediatamente l’auto richiamando l’attenzione del brigadiere sul del fumo, di quello nero, messo in risalto dal bagliore delle sottostanti fiamme che s’intravedevano dalla fessura di uno sfiatatoio. Il brigadiere Orlandi, senza indugiare, dette ordine a Mazzi di chiamare alla radio e, insieme al terzo agente che sedeva sul retro, non tardò un istante a discendere dal veicolo per dirigersi, nella dovuta cautela, ad effettuare un primo sopralluogo. Mazzi agguantò subito la radio comunicando coordinate ed eventi alla centrale poi, lanciando un altro sguardo attraverso il finestrino, afferrò una mela dal suo tascapane per morderla con un evidente senso di eccitazione. Sputò infine buona parte della buccia, ma solo dopo averla per un po’ nervosamente masticata, quindi tirò fuori un auricolare dalla tasca, socchiuse gli occhi sistemandoselo nel suo orecchio destro e, con determinazione, pigiò il dito sul sensore del play collocando il volume al massimo: - Born to be wild!…- .
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Con "Sympathy for the devil", secondo racconto della serie inaugurata con "Madcap laugh", da un'atmosfera intimista e surreale, per certi versi introduttiva, si sviluppano narrazioni che prendono spunto da titoli di canzoni, anche datate, per vagare tra disagio, emozioni e fantasie collegate a protagonisti, adolescenti e non più, dei nostri giorni. |
Marika è una ragazza carina, spigliata, brillante e piena di vita come buona parte dei suoi coetanei adolescenti in un'epoca in cui tutto gli è dovuto e nulla, tra i presunti desideri, sembra restare inappagato ed idealizzato nella sola mente. Frequenta una scuola di una ricca provincia dove il lavoro, nel fiorire di un'economia di rifinito artigianato, non è più mancato. Un istituto professionale che, negli ultimi anni, con la massiccia presenza di figli di emigranti ha compensato lo scarso tasso di natalità del posto. Sara, sua madre, una donna aperta e di sinistra, si guardava bene dall'esprimere giudizi su Faryd, un ragazzo figlio di operai magrebini. Glissava, ogni qualvolta Marika, infatuata, tentava di comunicare quell'indicibile sentire che, dolcemente, le aveva cinto il cuore liberando la sua anima sognatrice. Con non curanza ed una voluta distanza Sara si convinceva che, in fondo, Faryd non era che un ragazzino, come la sua Marika; un'adolescenziale esperienza che avrebbe avuto il suo naturale, breve corso senza lasciare più segni. Del resto, dopo quella sprovveduta avventura dell'estate precedente, che aveva visto Marika coinvolta in un breve ma pericoloso flirt con un uomo maturo, Sara si sentiva sollevata in una celata e forse inconsapevole ipocrisia che, già all'epoca, aveva messo tutto a tacere. Marika, sensibile a certi materni atteggiamenti, dopo l'ultimo forzato commento, quasi strappato dalle socchiuse labbra di Sara: - Beh! Non so che dirti, se son rose fioriranno...personalmente quel ragazzo non mi da alcuna impressione, ne positiva ne negativa, vivi pure la tua storia e cerca sempre di metterci la testa e fare attenzione! - ...Corse di nuovo a rinchiudersi in camera, sdraiandosi sul letto, sotto il poster di Marylin Manson, assorta in disordinati pensieri. Dopo qualche minuto, si girò per inserire un CD nel riproduttore, una vecchia raccolta di successi dei Rolling Stones che le aveva regalato Erminio, quel mancato ed inquietante padre che aveva incontrato durante la scorsa stagione. Scorsero le note di Sympathy for the devil e, dopo qualche istante, con un breve beep, un SMS comparve nel display del suo cellulare: - Domani c'è un grande party, qui a casa mia, dopo le 21. Ti aspetto. Erminio - . Marika, senza indugiare, selezionando tra le voci del menu sul display quella di reply digitò subito decisa: - Hey! Guarda ke ho un fidanzato, cmq grazie :-) è stato un pensiero carino. Ci penserò su...se non ti offendi - . e giù con il tasto d'invio. ...invio messaggio in corso Faryd, era così innamorato di Marika da voler desiderare di sposarla e portarla via quanto prima possibile, lontano da quella strana famiglia di "mummie" che non gli aveva mai rivolto neppure la parola, oltre formali buongiorno e buonasera. L'amava così tanto ma si sentiva solo, impotente e titubante anche rispetto ai lunghi pomeriggi passati in camera insieme a lei, dove spesso Marika trascorreva più tempo a rispondere al telefono che a scambiare affettuose effusioni che lui, era sempre pronto ad esternare in continuazione. Lei, dal canto suo, pur essendo coinvolta in tante premure ed attenzioni, iniziava, di tanto in tanto, a sentirsi un po' fagocitata dall' atteggiamento del compagno e, esternandolo a quest'ultimo, capitava che lui finisse con l’imbronciarsi. Accadde che, il giorno successivo, il malumore di Faryd lievitò, inavvertitamente, divenendo rabbia e Marika, dal canto suo, pur di spezzare quella terribile aria che aveva condizionato tutta la sua giornata, non esitò a recarsi alla festa in casa di Erminio. Un acre e denso profumo d'incenso faceva da contorno ad una strana carnevalata, dove tutti gli invitati sghignazzavano dietro goffe maschere. Marika, per l'occasione, indossò un abitino dark, comprato durante un piacevole soggiorno di studio a Londra. Aveva un grosso reticolato borchiato che le attraversava il seno: una stuzzicante ed acerba seconda misura e sembrava sentirsi a suo agio, non appena arrivata, in quello strano festino in bilico tra il sinistro ed il trash. Non tardò molto a recepire l'immediato invito ad indossare una maschera anche lei; ce n'erano in quantità dentro uno stanzino prossimo all'ingresso, scelse quella di un Pierrot, gelida e bianca, sembrava tumefatta da due grosse lacrime sovrapposte con della cera. Bevve poi, con i presenti, uno strano intruglio introdotto da Erminio come cocktail di apertura, altro non era che della mescalina aromatizzata con dell'innocente frutta. - Buono! Sa di fragola...- . Esordì, compiaciuta, dopo il primo sorso la piccola Marika. Dopo pochi istanti, un passo dopo l'altro, mentre si dirigeva nell'altra stanza, tutto s'investì di una sinistra presenza onirica nella sua mente divenuta di colpo inerte. Volti e maschere si fondevano in altre presenze, il suo corpo perse consistenza e si distese, sopra un'ara, immolata ai presenti. Faryd, ignaro di quanto stesse accadendo a Marika in quel momento, si rivoltava, tormentato, nel suo giaciglio. Prese sonno, alla fine, ma di quello cumulato nella stanchezza della tensione, fatto d’inquietanti presenze ma, soprattutto, popolato di incubi. Assistette impotente, dentro gli abissi dei sogni, a quel perpetuato stupro, esibito con non curanza, nei confronti di Marika. Lei rideva, innaturale, talvolta sembrava essere sul punto di dimenarsi ma poi continuava a singhiozzare un riso strozzato da improvvisi e violenti gemiti. Marika, con aria stravolta ed intontita, fece ritorno a casa molto tardi, evitando quel naturale materno stato di veglia, del resto Sara ormai ricorreva da tempo a sonniferi e quant'altro. Il sonno di Marika non tardò a venire, fu profondo ed ovattato, tanto da rinvenire solo l'indomani al ridosso del pranzo. Fu il telefono a ridestarla, una chiamata di Licia, sua compagna di classe, che le annunciava: - …ma non hai sentito alla radio? Faryd, si, insomma, proprio quello lì, pare che si sia impiccato! - . Racconto di Enrico
Pietrangeli ã 2002 – Diritti depositati
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