IL
CAMMINATORE ( SOGNANDO TRA CIELO E TERRA)
Alto,magro come l'osso,Vicè
era cresciuto allampanato.Più che camminare
ondeggiava come un gozzo alla marina.Le sue braccia, ad ogni
passo, prendevano
l'aria come i remi l'acqua. E di marinaio era lo sguardo che s'appuntava
all'orizzonte come i pescatori. Alta era la sua fronte che era resa
ancora
più spaziosa dalla chioma che pareva vela al vento. Vicè il mare però
lo
vedeva solo dalla sua campagna. Con qualunque tempo, alla sei,
puntualmente
si affacciava a Portaterra; con lunghe falcate proseguiva per via
Umberto
I e, poi, su per il carrubo ed i mulini. Qua dove la trazzera partiva
verso
monte,da S. Barbara, cominciava la sua ascesa per Giardinello. Se
minacciava
pioggia un ombrello adeguato alla sua altezza gli faceva compagnia
stretto
sotto il braccio.In campagna ci stava tutto il giorno. Solo a sole
caduto,
dopo il tramonto, tornava infatti in Via Gioeni. Così era da quando il
padre
aveva cominciato a portarlo a lavorare la terra. A volte gli veniva di
pensare
che a Giardinello ci sarebbe potuto arrivare ad occhi chiusi, come l'asino
del padre,tanto si era abituato a quella strada. Qua, sepolta negli
ulivi,lo
attendeva una casa in pietra color terra. A cinquanta anni Vicè s'era
dovuto
rassegnare a restare solo. Il suo primo pensiero la mattina era la
zappa.
Con essa aveva un rapporto più che ventennale,anche se altri , prima di
lui, se ne erano serviti. In campagna l'aveva portata il padre quando la
strada che andava a Gibilmanna ancora non aveva tagliato in due la
campagna.
Suo padre l'aveva adoperata tutta la vita. Piatta, lunga al punto
giusto,
quanto cioè bastava ad entrare nell'argilla,mastro Guercio l'aveva
forgiata
proprio ad arte. Vicè anzitutto ne lisciava il manico che, col
tempo,aveva
assunto un bel colorito tipico del legno stagionato e molto usato. Se la
guardava quindi attentamente da ogni lato, apprezzandone stile e
consistenza.Piano
piano,aveva finito col rivolgerle la parola, a chiederne i consigli, se
cioè era meglio fare le conche o tirare i filari per metterci le fave,
se
era più conveniente zappari o zappuliari. Le risposte se le dava egli
stesso
perché da lustri si trovavano nella sua testa. La zappa era lo
strumento
che egli adoperava con maestria come il musicante fa con il clarino.
Essa
sempre più era divenuta la sua compagna e come tale egli la trattava.
Se
nella terra c'era una difficoltà da superare, erano insieme a trovarne
la
soluzione; s'era convinto che anche la fatica venisse divisa in parte
eguale.
Quando le fave ed i ceci venivano fuori e cominciavano a puntare verso l'alto,
assieme ai frutti, egli accarezzava le piantine con la zappa come con le
mani. L'altro suo amico e compagno era l'albero di fico che era
cresciuto
storto sopra la strada, pressato, com'era, da una selva di pini alle sue
spalle e dagli ulivi dei vicini.Il padre spesso gli diceva che era stato
proprio lui a piantarlo; che egli ne aveva portato la varvotta dal
Pisciotto
e che avrebbe fatto fichi zuccherini ad agosto, i cimaroli, verdi
fuori
e dentro rossi. Vicè non si ricordava dell'evento che d'altronde
era accaduto
quando ancora aveva i pantaloni corti. La campagna allora era
attraversata
dal fumo delle vicine fosse di carbone, azzurrognolo all'inizio, bianco
al momento di tirare fuori il carbone dalla terra. Di esso si ricordava
persino l'odore acre che prendeva alla testa. Quell'albero egli se lo
era
curato come un figlio. Concime non gliene aveva mai fatto mancare, tutt'attorno
al tronco anzitutto, ma anche nel resto della terra che teneva ben
pulita
togliendovi le erbacce, facendovi le favate, piantandovi i luppini.
L'acqua
gliela portava col secchio, prendendola dal pozzo sotto casa, oltre la
strada; ogni volta, due, tre viaggi, fino a quando, crescendo, esso non
era stato in grado di trovarsela da solo. Il terreno, che era pietroso
ed
arido in superficie, dicevano che sotto avesse infatti un fiume d'acqua,
quella che dalle Madonie scendeva verso il mare. L'albero lo ripagava
con
i frutti, piccoli ma buoni. Certo preoccupazioni gliene aveva date. Una
volta le foglie si fecero così gialle che egli temette assai per la sua
sorte. In quella brutta circostanza , Vicè , oltre ad accrescere le sue
zappettature tutt'attorno, pronto a spegnere ogni filo d'erba, che le
sostanze
poteva portare via, chiese consigli a questo ed a quello; gli stava
accanto,
scrutandone ogni cambiamento, e gli diceva di tenere duro. L'albero si
comportò
come se avesse sentito i suoi incoraggiamenti. Una mattina le foglie
gialle
caddero a terra e ne spuntarono tante nuove e di un bel verde. Vicè
quando
si accorse che l'albero era sbocciato come un fiore,per la gioia, se lo
abbracciò tutto, stretto, stretto. L'indomani i suoi cari vennero
informati
della guarigione. Vicè con i genitori mai aveva cessato di
parlare.Dalla
campagna il cimitero si coglieva con una mano.Alle dieci,ogni giorno,
egli
si armava di una sedia e si andava a posizionare sotto i pini. Là,
incurante
delle macchine che passavano nella strada, cominciava a raccontare: le
case
erano cresciute a destra e a manca ed ora anche loro, morti, se
continuava
così, rischiavano di essere sfrattati. Certo cambiamenti ce n'erano
stati.
Da tempo non c'erano più carretti e carrettieri. Per la verità, pareva
che
nel paese non ci fossero più contadini. A suo padre rimproverava di non
essersi più fatto sentire,nonostante le promesse, neppure per dirgli
cosa
succede dopo che si è morti. Gli raccontava delle cose della campagna,
che
tutti ormai la terra la giravano con la motozappa, che niente più si
faceva
e che era cambiato anche il tempo. Quando le novità del giorno erano
finite,egli
se ne stava ancora per un poco, zitto a guardare il mare e la Rocca col
castello, così come si fa quando si va a visita e muti si sta perché
non
si sa più di cosa parlare. Poi,si avviava verso casa. Un giorno la
novità
arrivò da S. Elia. Gli uomini vi avevano scavato una galleria e le
macchine
ora sbucavano da sotto la collina, per interrarsi poi, di nuovo,a
Castidduzzu.
Vicè rimase affascinato da quel fatto e cominciò a dividere equamente
le
sue mattinate sotto i pini tra i discorsi con i suoi cari e la conta
delle
auto che sbucavano da sotto la collina e poi scomparivano dall'altro
lato.
Le cose continuarono così per tanto tempo. Un giorno il fico venne
assaltato
dalle formiche. Pareva un esercito in movimento. Vicè si mise le mani
nei
capelli. Tutte le tentò per farle allontanare.Ci riuscì alla fine
avvolgendone
il tronco con un foglio scivoloso.Da allora però mai più si alzò per
recarsi
le mattine sotto i pini, e se ne stette seduto sotto il fico.
Durò poco, comunque, la cosa perché una mattina Vicè non si recò più
in
campagna a trovare i parenti ed i suoi due amici.
Teresa, che abitava al piano di sotto,insospettita dal silenzio di
quella
mattina, dopo averlo chiamato a lungo inutilmente, diede l'allarme e Vicè
fu trovato morto.
|
"
LA CASA DELLO ZIO "
La diagnosi non lasciava
dubbi : tumore. Eppure, giorni prima, altre analisi
erano state rassicuranti. Da un po' di tempo non si sentiva bene,preso,
come era, da una sorta di astenia che gli rendeva tutto
difficile,persino
fare quei due passi che lo separavano dall'ufficio. La sua prima
preoccupazione
era stata quella di non fare allarmare il nipote. Si era, comunque,
voluto
informare a fondo dello stato del suo male. Come in un primo tempo si
era
sentito incoraggiato per i primi risultati e ne aveva data comunicazione
al nipote, così, ora, tuttavia, preferì dirgli di persona per telefono
dell'esito finale dell'accertamento, precisando che si trattava di un
tumore
al fegato e che, comunque, i suoi amici medici lo avrebbero seguito
affettuosamente.
Forse avrebbe dovuto fare altre analisi a Palermo. La comunicazione non
tranquillizzò affatto il nipote .Da tempo, per evitare emozioni che
potevano
risultargli fatali, cercava con cura di evitare ogni genere di incontro,
le riunioni, soprattutto, quelle nelle quali c'era da esprimere la
propria
opinione, confrontarsi con le idee degli altri. Era stato come rinnegare
sé stesso, il proprio passato. Da giovane, si era distinto per le
accese,
tante, battaglie fatte in prima persona su vari argomenti che
riguardavano
il suo paese. Tutto s'era fatto lontano, appena ricordi, e non sempre
nitidi:
i comizi in Piazza Duomo. Un giorno aveva capeggiato una sorta di
rivolta
dei pescatori, portandoli in Piazza con alcune barche che depositarono
avanti al Municipio. Il motivo della protesta era stato la mancata
conclusione
dei lavori del porto, che si protraevano da sempre e che,appunto, era
invalsa
l'abitudine di chiamare ''tela di Penelope'', perché quello che gli
uomini
facevano, ''mangiandosi'' i massi della Rocca sovrastante, per la
cattiva
conduzione, fatta ad arte, il mare sistematicamente distruggeva . E,
poi,
quell'altra per le case popolari che in paese mai nessuno aveva voluto
costruire, i suoi scontri pubblici con i proprietari delle aree
edificabili
che ne disponevano sin dai tempi dell'Unità d'Italia ed anche prima,
buone
sole per farne dei palazzoni, quelli che stavano distruggendo il paese.
Una vita, insomma,in cui la folla sempre era stato il contesto e le
battaglie
oratorie il mezzo di lotta. Queste battaglie si erano, poi, trasferite
in
Consiglio comunale, il luogo in cui si prendevano le decisioni,perlomeno
quelle che le conferivano sacralità formale. Senza tema di retorica,
anche
con il suo impegno in paese si era creata una alleanza grazie alla quale
gli interessi dei più emarginati avevano acquisito un certa consistenza
ed una visibilità prima impensabile.. In tutto questo, lo zio si era
ritagliato
un piccolo spazio da cui gli era possibile seguire, con trepidazione ed
anche orgoglio,le vicende del nipote. Del resto, cattolico praticante
com'era,
trovava una certa coerenza in quelle idee. La malattia del nipote si era
manifestata all'improvviso in una brutta giornata di Novembre. Si era
recato
quella volta, solo, all'ospedale dopo una notte col petto squassato dal
dolore. Infarto era stata la diagnosi. Poi, la corsa a Palermo; il lungo
soggiorno all'ospedale. Da allora era cominciata la sua nuova
storia:accertamenti,
due interventi a cuore aperto,e, tuttavia, il nipote non aveva mai perso
la speranza di potere continuare. ''Alla vita occorre dare un senso. Una
parte significativa può essere sposare la causa dei più deboli''
soleva dire
allo zio nei momenti di intimità, quando tra i due si creava una
atmosfera
di sincera vicinanza. Un punto li univa: la causa di tutto quanto non
poteva
che essere il cristianesimo, l'esempio di Colui che per gli altri aveva
sacrificato la propria vita. Si non ci potevano essere dubbi; non
potevano
esserci due modi distinti di vivere , quello personale e quello che
riguardava
gli altri, la gente, il paese,la politica. La vita era una sola. Nessuno
dei due ignorava la complessità e la difficoltà del discorso. Ma
quella
era la meta e si trattava di incarnare la loro fede nelle cose concrete
di tutti i giorni. In fondo, era fare una rivoluzione , quella che tanti
avevano tentato di fare in ogni tempo. Certo non c'era da aspettarsi
molto
proprio dai beneficiari, ma anche questo rientrava nella norma. La sfida
era però esaltante. Essa si legava al perché della vita stessa .Ora,
all'improvviso,
dopo questa notizia del male di cui sapeva tutto, lo zio si sentiva
svuotato.
In lui era subito nata una sorta di malinconica rassegnazione.
Ai medici egli aveva chiesto le solite cose che chi già sa chiede in
simili
casi .Le risposte erano arrivate altrettanto precise, come richieste: il
male, purtroppo, s'era già diffuso al punto tale che non era il caso di
intervenire chirurgicamente perché sarebbe stato controproducente.
Anche
per il nipote le cose da tempo non andavano per il verso giusto. Il suo
cuore, come era naturale, col tempo, s'era dilatato tanto da cadere
nello
scompenso; questo fatto lo aveva costretto a dare un taglio netto a
tante
cose a lui prima care, che, del resto, non sarebbe stato più capace di
fare.
Ora camminare era fatica , la pur minima emozione metteva in crisi il
suo
fragile equilibro. Gli amici medici per porlo al riparo da un probabile
arresto gli avevano applicato un defibrillatore. Ma egli, pur rendendosi
conto che quella era l'ancora di salvezza,non si era abituato a
convivere
con quell'apparecchio, con le conseguenze della sua entrata un funzione
che, ogni volta, lo gettavano nel panico e lo ponevano nella condizione
di aspettare con terrore il nuovo attacco. Aveva finito col ripiegarsi
su
se stesso , trovando nello scrivere un modo di sentirsi ancora vivo:
qualche
articolo sul foglio locale, un breve racconto, una poesia. In fondo
anche
quello era un modo di servire il proprio paese : tentare di mettere
insieme
gli accadimenti più significativi,comporre la memoria del paese, della
gente,
di una terra troppo bella per non avere un significato particolare . Un
giorno il nipote chiese ad un dottore che aveva preso in cura lo zio
come
stessero le cose. Franca fu la risposta: ''non era molto il tempo che
gli
restava da vivere. Lo zio, comunque, era a conoscenza di tutto, aveva
dato
prova di accettare la diagnosi con la serenità che in questi casi è
consentita''.
Un giorno che andò a trovarlo a casa sua, zio e nipote si trovarono
abbracciati
, tenendosi però dentro ogni dolore, e come era abitudine dicendo di
questo
e di quello, finendo addirittura col far finta di scherzare sulla loro
comunione
di ammalati,pronti a parlare di pietose bugie, di future passeggiate,
appena
il tempo lo avrebbe consentito. Di recente, zio e nipote si erano dati
appuntamento
ogni sera per lavorare su di un racconto di quest'ultimo scritto appunto
per lasciare traccia di un mondo paesano che loro due avevano avuto la
fortuna
di assaporare e che ora stava crollando giorno dietro giorno .Lo zio si
metteva al computer, era lui l'esperto, ed il nipote gli forniva i
chiarimenti
che gli venivano chiesti; a volte ne nascevano appassionate discussioni
che si spegnevano all'improvviso così come erano nate. Ne seguivano
brevi
pause lungo le quali il nipote rivolgeva allo zio domande che in altri
momenti
non avrebbe trovato il coraggio di rivolgergli., ad esempio cosa
aspettava
l'uomo dopo la morte, perché mai nessuno era tornato dall'al di là a
dire
le cose come stanno,perché tutto pareva destinato a cessare, a perdersi
nel nulla. Lo zio lo ascoltava, ben conoscendo il perché di quelle
domande.
Capiva che la domanda altro non era che malinconia, accorata richiesta
di
aiuto. Una sera, in cui forte i due sentivano l'afflato che li univa ,
fu proprio il nipote a chiedergli se avesse potuto aiutarlo a prepararsi
a quell'evento in cui avrebbe dovuto affrontare il mistero della morte.
Si pentì però di quella richiesta sapendo della gravità della
malattia del
suo interlocutore. Lo zio, però, non si scompose , ne diede altro segno
di smarrimento. Guardando tra le sue carte, gli disse che gli avrebbe
dato
da leggere un libro che certamente lo avrebbe aiutato nella soluzione
dei
suoi perché che, chiaramente, si legavano alla fede. Si era fatto tardi
e faceva caldo. Si affacciarono alla finestra e si affidarono al
silenzio
della notte. Non c'era alito di vento; la vicinanza della casa al mare
si intuiva dal profumo che giungeva della leggera brezza. Lo zio gli
disse:
''Senti che profumo di gelsomino che sale dal giardino. Non è stato più
curato
da quando è morto tuo padre. Farò togliere le erbacce, ne farò
rivoltare
la terra e farò mettere delle rose attorno alla vasca dei papiri''. Era
assai
affezionato a quella casa lo zio. Egli, anche se allora piccolo, si
ricordava
dei giorni della sua costruzione quando tutti, compreso lo zio,
aiutavano
a farla venire su, anche se c'erano i migliori mastri, dell'albero di
fico
che disordinato si dipartiva in ogni direzione e che si era dovuto
abbattere.
A quella casa, del resto, egli si sentiva legato : là era cresciuto,
essendovi
i suoi trasferiti, zia compresa, per assistere sua madre gli anziani
nonni
ed accudire al fratello. Era lo studio dello zio che lo affascinava con
la macchina da scrivere, una remington, con la radio Marelli con la
quale
poteva seguire le partite d calcio, e, dopo, con l'arrivo del primo
televisore
attorno al quale la sera, alle otto, si riuniva puntualmente, tutta la
famiglia
, per cedere tutti a turno al sonno, tranne loro due. Era la ''nonnetta'',
così egli chiamava sua nonna, che,anche se cieca, ne accarezzava il
profilo,
come a cercarlo, prima di abbracciarselo al petto. Erano due i suoi
piccoli,
diceva.: lo zio e il nipote. Erano volati quegli anni, come era naturale
che fosse. Primo ad andarsene era stato il nonno, un vecchietto sempre
allegro,
che egli chiamava compagno e con il quale erano lunghe partite a
briscola
o a scopa. Nei suoi occhi gli pareva di vedere tutta la saggezza del
mondo.
I suoi racconti spesso riguardavano l'America, dove aveva fatto il
minatore,
i tre anni passati su di una nave da guerra a girare il mondo, anche la
Cina da cui aveva portato delle tazzine in porcellana Morì per una
bronchite
che si era presa in miniera, ad Hastings, Colorado, dove era nata
anche
sua madre. Fu,poi, la volta della zia paterna, una donna mingherlina che
da sempre si era dedicata a lui, meglio che ad un figlio. Quanto dolore
quel giorno e, dopo qualche anno, l'altro per la morte della madre
colpita
da tumore. Era agosto, e, come ogni anno, si trovava in campagna quel
giorno
assieme alla famiglia. Là sua madre avrebbe dovuto raggiungerlo tra un
giorno,
tanto lo zio poteva pure badare a se stesso e lei così dedicarsi un
poco
al nipotino. Non riuscì a portare a termine il suo atto di ribellione,
tanto
era la dedizione che aveva per il fratello; a lui,infatti, si era votata
trasferendosi in quella casa . L'altra sorella, la più giovane,che era
di
ben altro temperamento, se ne era andata per la sua strada. Sarebbe
stata
disposta a fare la sua parte , ma una cosa avrebbe voluto che quella
casa
del fratello fosse intestata a lei per un giorno essere sua. Quel
ricatto
ebbe come risposta un netto rifiuto e l'effetto fu la separazione di dei
dal resto della famiglia per tanti anni. La frequentazioni con lo zio si
andarono assottigliando col crescere della sua famiglia e cessarono
formalmente
con la morte di sua madre. Era tornata la sorella, quella della
casa e
si era prestata ad assistere il fratello rimasto solo,pur senza
rinunciare
alla originario proposito, ma accantonandolo con la sicurezza che in lei
era nata dalla nuova situazione. Lo stesso giorno della morte della
moglie,
suo padre si presentò a casa di suo figlio, con una valigia, chiedendo
ospitalità.
Poveretto, anch'egli sarebbe morto dopo qualche anno, il tempo comunque
di vedere venire al mondo un altro nipote, di dare al più grande
qualche
pera della sua campagna, che per lui teneva nelle tasche dei pantaloni,
e di vedere il più piccolo spiluccare l'uva ancora acerba , diceva,
ridendo,
come fanno le galline.
Morì un giorno che il figlio si trovava lontano da casa.. Lo
accompagnarono
nell'ultimo viaggio tantissime persone che avevano avuto la possibilità
di apprezzarne il carattere buono e generoso. Sentì il figlio, quel
giorno,
che , con suo padre, era una pagina di Cefalù, senz'altro bella, che si
stava chiudendo e che tutte le responsabilità ormai erano cadute sulle
spalle
di quelli della sua generazione. Al funerale non ci andò l'unico
fratello
che gli era rimasto. Così aveva voluto sua cognata che, entrando a casa
dello zio, aveva messo le cose in modo tale che i due fratelli più non
si
incontrassero. La casa così nessuno un giorno gliela avrebbe più
potuto
insidiare. Rimasta sola miele anzi cercò di farsi. Ci riuscì ad
allontanare
tutti dalla casa quella donna; anche il nipote cominciò più a non
frequentarla;
capendo di non essere gradito, preferì incontrare lo zio fuori e spesso
in ufficio, portandosi con sé tanti ricordi.: una vecchia panca,due
lumi
di vetro soffiato di azzurro, un letto verniciato a fiori e tanti
comodini
intarsiati nelle stanze da letto. Quella casa era il motivo dell'abbandono
della sua che era in Via Umberto I° e che mai, comunque, avrebbe
dimenticato.
Poi, essa, pian piano s'era fatta anche sua; era stata testimone di
nuovi
rapporti affettivi , quelli con i nonni , i loro oggetti ,la casa
moderna
dello zio al quale, in sua assenza, sottraeva la penna ''aurora'' o i
tanti
fogli di carta che erano tenuti da lui in ordine nei cassetti della
scrivania
che, nonostante le chiavi,lasciate sul posto, finirono col non avere più
segreti, Passarono gli anni.. Poi, la malattia del nipote ed il suo
impegno
per il paese. Furono queste le due cose che riportarono i rapporti tra
nipote e zio come ai vecchi tempi. Si rese conto il nipote che lo zio
aveva
dovuto fare buon viso a cattivo gioco, e tuttavia, mai si parlò tra i
due
della cosa. Infine il tumore dello zio e la sua sincera preoccupazione
che
questo potesse aggravare il suo già fragile stato. Quando il male
si fece
più grave lo zio cercò di allontanare le sue già rare visite ,
mostrando,
invece, di gradire assai la compagnia di sua moglie che conosceva prima
ancora del matrimonio col nipote.
Quando il nipote lo andava a trovare, egli lo metteva subito a suo agio
e i due cominciavano a tessere un fitto dialogo su come si erano messe
le
cose in paese,su come stessero pian, piano ritornando situazioni che
parevano
fossero state definitivamente superate con la guerra. Insomma si
comportavano
come se tra loro la malattia fosse solo qualche acciacco. Soffrivano i
due,
ma non ne davano segno l'uno all'altro. Col crescere del male dello zio
la sorella cominciò a non mancare più in ogni loro colloquio, anche
quando
muto lo zio rimaneva per un dolore che cercava di risparmiare al nipote.
Quella sorveglianza a vista, non ci voleva molto a capirlo,dava fastidio
allo zio e si leggeva dal suo volto. Un giorno, ancora poteva muoversi
sia
pure sorretto, riuscì insieme al nipote ad evadere a quella vigilanza.
Si
fece accompagnare in terrazzo da cui ben si poteva cogliere quel
fazzoletto
di terra che lui continuava a chiamare giardino. ''Vedi'', gli disse, ''la
farò mettere un albero che crescendo possa dare ombra a chi sotto si
mette
a leggere; là. invece, tutto attorno, una siepe che ci protegga dai
passanti''.
Il nipote, col cuore fattosi piccolo, gli disse che era d'accordo con le
sue scelte. Dentro, si sentiva morire di dolore. Quanto all'albero di
alloro,
che era un altro suo desiderio, gli disse di non comprarlo, gliene
avrebbe
portato una bella piantina dalla campagna, tra quelle profumate che
libere
crescevano dentro il burrone. Nulla seppe più il nipote, tranne le cose
che voleva, la sera, raccontargli sua moglie. Tanto meno seppe delle
pressanti
richieste della zia per farsi mettere su carta il lascito della casa
,pronta
ormai ad approfittare delle cose del fratello che ormai non era più in
grado di alzarsi dal letto e, sempre più spesso, di rendersi conto di
ciò
che gli stava accadendo attorno. Ne sarebbe morto di dolore a sapere di
tutte quelle miserie e dell'angoscia dello zio sottoposto a quella dura
prova. Lo consolò sapere che quella mattina lo zio era morto tenendo la
mano di sua moglie. Un mistero rimase la sorte di quella casa, perché
la
zia, comunque. non riuscì nel suo intento. Tante cose in paese si
dissero:
della disperazione della donna, della sua rabbia,di un testamento
cercato
la stessa notte della morte,anzi pare prima dell'evento, di un
testamento
trovato ma strappato. Di certo risultò che lo zio era morto ì senza
fare
testamento e tutto dovette essere diviso tra gli eredi, anche tra i
nipoti
che mai lo avevano conosciuto perché emigrati in America. Ma tutto
questo
poco importò al nipote:lo zio ormai se ne era andato ed il nipote
sapeva
di avere perduto un amico.
|
MAESTRALE
Erano
stati anni spensierati, come succede in certe stagioni della vita.
Il giorno erano passeggiate nel bosco con gli amici, tra luce filtrante
il verde scuro dei corbezzoli, le vrusche, i pini che si aprivano al
cielo. Era il sole, caldo,il sapore della vacanza. A sera, era
abitudine riunirsi con gli amici. Giovanni e Milena si conobbero una
sera d'agosto, durante una di queste riunioni, al riparo di un sughero
contorto, attorno al quale avevano luogo interminabili discussioni
inutili, si facevano i programmi per il giorno successivo. Era
soprattutto questo il luogo in cui si assaporava il piacere di sentirsi
amici, parte del gruppo. Fu il silenzio ad avvicinarli, una comune
timidezza, a male appena mascherata e che, quella sera, si intuiva dalla
insistenza con la quale, entrambi, incrociando i loro sguardi,
guardavano la luna, ormai quasi piena, che saliva lentamente. Ebbero
entrambi la sensazione di un incontro atteso da sempre; e questo
sentimento ciascuno di essi portò, a notte, nel silenzio della propria
casa. Furono per tutti giorni di mare, di passeggiate, a sera, lungo lo
stradale, di riunioni serali attorno ad un vecchio grammofono per il
piacere di stare vicini, tra sguardi complici e abbracci teneri,
destinati a durare solo l'ascolto di un disco. Una sera, tornando a
casa, Milena e Giovanni si trovarono con la mano nella mano, senza nulla
dirsi, provando il piacere di quel contatto, protetti dal buio
della sera. L'estate per loro due andò avanti con incontri furtivi,
spesso nel primo pomeriggio, a sole ancora alto, avvolti dai rami
di un vecchio carrubo. Giovanni, una mattina, sentì il bisogno di
prendere Milena tra le sue braccia e, impacciato, sfiorarle le
labbra con le sue . Si sentiva il fruscio degli ulivi argentati mossi
dal vento, e la vallata sottostante che si apriva all'orizzonte dava
loro la strana sensazione di essere sperduti nel mondo. Giovanni sentì
che ormai non avrebbe più potuto fare a meno di Milena. La fine
dell'estate si fece così, ogni volta, per entrambi più che malinconia
per il distacco che ne seguiva con quella interminabile parentesi
invernale, lungo la quale si sarebbero scritti puntualmente, nell'attesa
di incontrarsi a fine settimana. Quegli incontri per loro avevano la
durata di un attimo. Era sempre troppo poco il tempo per dirsi le loro
cose,tenersi per mano, camminare lungo strade di rumore senza
quasi avvertirne il fastidio, presi com'erano l'uno dell'altro. Erano
tutti fuori sotto la pergola, quella volta, a chiacchierare, nel tepore
della serata avanzata. Giovanni aveva la sensazione che la sua presenza
incoraggiasse il padre di Milena a dire tante cose sue e si sua moglie:
la vita in Toscana, il loro peregrinare per l'Italia, dopo la
guerra, fino a giungere in Sicilia, gli intimi rapporti con uomini
importanti del fascismo. Quella sera il professore aveva ecceduto nel
bere. Ad un certo momento fu l'Africa l'oggetto del suo racconto, al
culmine di una eccitazione ormai non più controllabile. '' Che
tempi '', gridava con una strana risata, '' la gioventù poteva
avere libero sfogo ai propri ardori; si beveva , si cantava;e tutti quei
neri sempre pronti a piegare la schiena, a servirli,in tutti i sensi;
per un non nulla, bastava una pagnotta, davano anche le loro donne ''.
Il professore parlando riusciva bene a comunicare ai presenti le cose
che andava dicendo in un silenzio generale. '' Non erano uomini quelli,
con le mosche sempre appiccicate addosso, prolifici, però, come topi.
Non era raro il caso che i loro pargoli diventassero il bersaglio
dei nostri fucili in certe serate indimenticabili. Il divertimento
consisteva, tra una bevuta e l'altra, nel lanciarli in alto e poi
colpirli prima che avessero il tempo di cadere a terra: ed i loro
genitori a starsene zitti, i vigliacchi, perché sapevano che noi
avremmo potuto farli tutti fuori ''. Il silenzio, che per tutto il tempo
aveva accompagnato quel monologo, parve trasformarsi in gelo. Era
come se nessuno dei presenti avesse più il coraggio, la voglia di
riappropriarsi della parola. Giovanni più che rabbia o disgusto, si
sentiva svuotato, impietrito dalla atrocità della confessione. Milena,
che se ne stava rannicchiata, ai piedi della passerella che univa lo
spiazzo alla casa, gli suscitò d'un tratto un sentimento sincero di
compassione. Fu Giovanni ad interrompere quel silenzio. Disse che
s'era fatto tardi e che era arrivato il momento di rientrare a
casa. '' A domani mattina '' disse Giovanni a Milena, che
continuava ad apparirgli smarrita. Il buio, come in tante altre sere,
non impedì il cammino di Giovanni verso casa. Fu Milena , per ore, il
suo pensiero. Ciò che era accaduto la sera, l'indomani diede a Giovanni
la sensazione di avere attraversato un incubo. Milena lo accolse
dicendogli che suo padre,di buon mattino, era partito per Palermo.
Inerpicandosi per la collina degli ulivi, fu Milena a riprendere l'argomento.
Gli disse che era assai spiaciuta per il comportamento del padre. ''Quando
parla di certe cose, però, è come se fosse morso dalla tarantola. Ha
sempre i nervi a fior di pelle. '' .Le parole di Milena gli giungevano
gradite. ''Non mi sono mai piaciuti i fascisti '' le disse.
Abbracciati al riparo degli ulivi, più tardi, la tenerezza che li
prese disperse ogni loro ambascia. Il tempo andò avanti. Gli incontri
di Giovanni e Milena si fecero noti ufficialmente. I genitori Giovanni
li informò pochi giorni dopo.
D'inverno,
verso le otto, Via Vittorio Emanuele era quasi deserta. All'angolo con
Piazza Marina c'erano, quasi sempre, Franco, il rigattiere,in attesa di
qualche cliente occasionale, due o tre vecchi pescatori, che da tempo di
mare però si occupavano solo nei loro discorsi, e che aspettavano il
sole per riscaldarsi; gli altri , quelli della marina che non andavano
più a mare ma che erano ancora utili, se ne stavano rintanati nei
magazzini a riparare le reti, a mettere a posto sugheri e piombi. Ci
sarebbe voluta qualche ora ancora per ascoltare il vociare delle donne
che uscivano o tornavano a casa per la spesa. L'unico segno di vita
giungeva da Via Porto Salvo,dalla bottega di mastro Fava, il falegname.
Lo stridore, ad intervalli regolari, della sega elettrica in azione,era
parte delle giornate,un rumore piacevole all'ascolto,perché appunto
rivelava un segno inequivocabile di vita tra tanto silenzio. Erano anni
che Giovanni, ormai, era costretto a svolgere le sue giornate dentro
casa,con le stesse cadenze, gli stessi spazi da attraversare. Suoi
compagni erano appunto i rumori di fuori dai quali si era abituato a
trarre la sensazione del normale scorrere della vita. Quell'ora segnava
l'inizio della capitolazione della speranza di uscire da quel cerchio
che lo aveva costretto lontano dalla ordinarietà di ogni
giorno:camminare, parlare, essere tra gli altri. Era quello il
momento in cui sua moglie lo lasciava per andare a lavorare. Giovanni
sapeva che la malattia lo stava consumando lentamente. Ormai s'era fatto
sottile il filo della speranza e ciò lo caricava di responsabilità che
sono note solo agli ammalati, lo esponeva a scoramenti intimi che, per
sua fortuna, ancora gli lasciavano momenti di tregua senza i quali
sarebbe stato facile perdere la ragione, lasciarsi prendere dal panico.
Un poco di sollievo gli veniva dalla musica, Mozart, soprattutto,
di cui, negli ultimi tempi, aveva preso l'abitudine di ascoltare più
volte il Requiem. Aveva luogo in lui una sorta di trasfigurazione che,
liberandone lo spirito, gli dava la sensazione di ascoltare l'universo,
dentro il quale si perdeva il suo destino. Lo prendeva un desiderio di
riposo, di pace, di riuscire ad annullarsi nel mistero. Alzandosi dal
letto, a volte raggiungeva la stanza accanto che dava sul mare del
molo e gli era dolce mescolare l'armonia della musica con lo
svolgersi delle onde gonfie del maestrale che andavano a liberarsi in
bianca spuma lungo la spiaggia. Milena apparteneva ai ricordi.
Dopo
la laurea era stato tutto un precipitare di eventi: il lavoro,
lontano dal paese; il matrimonio , una breve corsa attraverso l'altro
lato della Sicilia e, infine, la partenza; l'arrivo a sera, il sonno e
il risveglio, aprendo la finestra dell'albergo,nel silenzio bianco ed
ovattato di un giorno di neve. Era stato breve il distacco comunque
perché dopo circa nove mesi erano riusciti a tornare. La casa dove
andarono ad abitare si alzava da un giardino d'aranci. Era piccola, la
cucina soprattutto. All'uscio si arrivava da una scala aperta al cielo
dalla quale era sempre un fatto unico cogliere , in fondo, il paese,
raccolto attorno alla sua Cattedrale. La casa si apriva ad un filo
di mare che si allargava lungo tutta la spiaggia verso l'orizzonte;tutto
attorno le colline. Giovanni non riusciva a spiegarsi il perché di
questi ricordi. Forse era la risacca del mare; il silenzio che forte
sentiva tutto attorno.
Di
quei tempi, tutto, comunque, gli giungeva in maniera incapace di
provocargli significative emozioni, al di fuori di una malinconia
che era fragile quanto quel pulviscolo di mare che attraversava la
spiaggia prima di perdersi tra le canne degli ultimi orti e le prime
case. Il mare; gli scogli frastagliati, dalle più strane forme, a
ridosso delle vecchie case che si arrampicavano sulle mura; il suo
colore cangiante e la sua trasparenza nelle giornate di calma verso S.
Antonino,là dove la Rocca si ergeva in tutta la sua forza. Quel giorno
il mare , già alle sette,annunciava il caldo che avrebbe presto preso
il paese in una cappa. La barca, con Milena, Giovanni e Roberto
superata l'ultima casciata del molo,scivolò su di un mare che era
tavola, non lasciandosi dietro quasi traccia sotto la spinta dei remi
Avevano deciso di andare a pesca, a ridosso delle case.
Milena fu la prima a rinunciare ; si sdraiò a prua e si abbandonò
al sole. Roberto puntò verso il largo dalle parti dello scoglio
ubriaco. Qua il mare era di un bel colore verde. Lasciò i remi dentro
barca e si tuffò a capofitto. Giovanni e Milena attesero che
risalisse; venne fiori all'improvviso e chiamando Milena la invitò a
raggiungerlo in quel paradiso; poi cominciò a bagnarla. Giovanni gli
disse che non se la sentiva di bagnarsi in un mare tanto profondo. Ne
valse a convincerlo il fatto che Milena aveva deciso di raggiungerlo.
Tra Roberto e Milena così cominciò un gioco di schizzi d'acqua,di
inseguimenti. Roberto, prendendo Milena per la nuca, finse, più volte,
di volerla costringere a stare sott'acqua, ma alle sue urla finiva poi
col graziarla. Stanchi, poi, entrambi si girarono sul dorso, lasciandosi
cullare dall'acqua, con gli occhi chiusi, rivolti al cielo,tenendosi per
mano. Fu allora che Giovanni provò una sensazione di disagio. Era l'atteggiamento
compiacente della moglie la cosa che più gli dava fastidio. Milena
continuava a tenersi aggrappata a Roberto e questi pareva volerla
portare ancora più lontano. Solo l'incresparsi del mare, all'improvviso,
ricondusse entrambi nella barca: ''Bel bagno'' disse Roberto. ''Veramente
bello'' confermò Milena. C'era da affrettarsi a rientrare perché il
mare s'era fatto scuro e già le onde si infrangevano contro gli scogli.
I cavalloni più volte pareva dovessero rovesciare la barca. Fu cosa non
facile tirare la barca al secco perché le onde la stavano
riempiendo d'acqua. '' Il cambiamento ''. Quello di Milena era arrivato
all'improvviso. Le solite premure nei suoi confronti si erano
trasformate in un senso non dichiarato di fastidio. Senza dirle nulla,
per giorni si chiese cosa avesse potuto provocare in lei quella
mutazione. A sera, lei si girava dall'altro lato del letto ed ignorava
ogni suo discorso. Col passare del tempo, l'atteggiamento di Milena fu
chiara avversione nei suoi confronti. Lo evitava senza farne mistero; si
chiudeva,a volte, in camera con la figlia. Le insistenze affettuose di
Giovanni avevano l'effetto di scatenare in lei crisi di rabbia. Un
giorno a casa loro, verso le tre pomeridiane, giunsero inaspettati i
genitori di Milena. La signora gli disse che erano venuti perché
Milena aveva bisogno di riposo. '' Siamo venuti a prenderla, assieme
alla bambina e portarla a Palermo. Questa separazione non potrà che
giovarle '' disse. Col volgere del tempo, di quel giorno Giovanni finì
col ricordare solo il pianto disperato di sua figlia. Nel silenzio di
casa, per giorni, si chiese le ragioni improvvise di quella catastrofe.
L'appuntamento, poi, quella mattina in Piazza Duomo, con il padre
e la madre di Milena. ''Rischi di perdere Milena'' le disse la signora
''Devi darti da fare per riconquistarla '' continuò il suocero.
Giovanni non riuscì che a balbettare frasi senza senso. Dissero
in paese che Milena lo aveva lasciato per una relazione. Seppe che
si trattava di Roberto e che la cosa andava vanti da tempo.
Per
tanti anni Giovanni provò quello che si sente in simili casi quando si
vuole davvero bene. Norina, sua moglie, entrò all'improvviso nella sua
vita un giorno d'inverno. Giovanni, erano molti gli anni che
li separavano, cercò di resisterle, ma lei lo precedette: '' Io ti vorrò
sempre bene. Il resto non conta ''. Norina da allora gli era rimasta
sempre accanto. Giovanni si alzò. Il dolore, per fortuna, non era più
arrivato. Tornò a guardare il mare che correva e coi i cavalloni andava
ad infrangersi prima di riempire di schiuma bianca la spiaggia. Era
maestrale vero. Lo confermavano le nuvole che veloci attraversavano il
cielo, l'assenza di ogni presenza di uomo al molo.
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