La vita - I
canti
Giacomo Leopardi nacque a
Recanati, nel 1798, dal conte Monaldo e alla marchesa Adelaide Antici. La
famiglia era la più cospicua del paese, ma il suo patrimonio era dissestato, e
per ricostruirlo, la madre impose una rigida economia domestica per decenni.
Queste ristrettezze, congiunte ai pregiudizi nobiliari dei genitori - che, fra
l'altro, l'avevano destinato alla carriera ecclesiastica - furono per Giacomo
causa d'infelicità. Gli impedirono, infatti, di crearsi una libera
sistemazione, costringendolo a macerarsi, per gran parte della vita,
nell'atmosfera stagnante di un piccolo borgo di provincia, in uno degli stati
italiani più retrogadi, tagliato fuori dalle correnti vive del pensiero e della
cultura europea. Nè migliore era l'ambiente familiare, rigido e compassato:
Monaldo era un erudito, conservatore e di idee reazionarie, la madre era rigida
e spiritualmente gretta. Mancò così all'adolescenza del poeta, pervasa di
sogni e di ansie romantiche, ogni possibilità di espansione e quel calore
d'affetti - ove s'escluda quello, tenerissimo, per il fratello Carlo e per la
sorella Paolina - di cui la sua indole aveva particolare bisogno.
Dopo una prima educazione ricevuta dal padre e da due sdacerdoti, appena
decenne, il precocissimo giovinetto s'immerse nella ricca biblioteca paterna, e
consumò sette anni (1809-1816) in uno studio, com'egli dirà, << matto e
disperatissimo >>, che fu la causa prima della sua prematura e
irreparabile decadenza fisica. Acquistò ben presto una conoscenza eccezionale
delle lingue classiche, studiò l'ebraico e le lingue moderne, compose opere
erudite di grande impegno. Sono di questi anni la Storia dell'astronomia (1813),
Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), discorsi su scrittori
classici, traduzioni poetiche, molti versi, persino in greco, e due tragedie, la
Virtù indiana e il Pompeo in Egitto.
Tutta questa operosità (anche i lavori poetici che sono, sostanzialmente,
esercitazioni retoriche), appare frutto di un'erudizione sterminata e
puntigliosa, di una cultura ormai sorpassata, cui si univano, in politica, tesi
reazionarie, sull'esempio del padre. E tuttavia in quegli studi il Leopardi
cercava un evasione dalla sua vita uggiosa, alimentando sogni di gloria, ai
quali lo portava l'indole solitaria e sognatrice. Ma, nel contempo, si astraeva
dalla realtà, consumava senza vera gioia la sua vita e minava irrimediabilmente
la sua salute. Alle soglie della giovinezza si trovò fisicamente rovinato: il
mal d'occhi, una malattia nervosa, una deviazione della spina dorsale e altri
malanni che lo tortureranno per sempre lo misero in condizioni di avvilente
inferiorità.
L'angoscia della giovinezza stroncata approfondì in lui una crisi spirituale da
tempo latente. Fra il 15' e il 16', abbandonò gli studi eruditi per quelli
della poesia, meglio adatta ad esprimere la sua ansia di gloria e d'azione
magnanima, il suo bisogno di uscire dalla solitudine e di stabilire un contatto
vivo con gli uomini. Seguirono le letture appassionate e di autori moderni.
Importanti furono soprattutto, quelle della Vita dell'Alfieri, dell'Ortis del
Foscolo, del Werther di Goethe, della Germania e della Corinna della Steael,
attraverso le quali maturò la sua sensibilità romantica; ma non lu furono meno
quelle delle Illuministi settecenteschi, da Montesquie, a Roussea, a Pietro
Verri. Nel '17 ebbe inizio la corrispondenza epistolare con Pietro Giordano,
che, avendo letto la sua la sua traduzione del II libro dell'Eneide, aveva
intuito la grandezza di quel giovane solitario, lo aveva incoraggiato, aveva
ascolato con animo commosso gli sfoghi contenuti nelle sue lettere,
l'espressione della sua infelicità e della sua ansia di vita e di gloria.
Infine, nel '18, il Leopardi partecipò alla polemica classico-romantica, come
scudiero dei classici, ma rivelando un'originale sensibilità romantica, nel
Discorso di un italiano sulla poesia romantica, come si è visto, e compose due
canzoni civili. All'Italia e Sopra il monumento di Dante, di spiriti liberali e
protese a un ideale di vita eroica.
La gravissima prostrazione fisica del 1819, che si rivelò irreparabile e,
privandolo perfino del conforto dello studio, gli fece sentire ancor più
tragicamente la sua solitudine e la sua infelicità, lo spinse a porsi con
urgenza le domande sul perchè della vita. E' quello che il poeta chiamò in
seguito il passaggio dalla poesia alla filosofia, l'approdo a una concezione
disperata che non sarebbe mutata più.
Tuttavia il pessimismo leopardiano non deve essere considerato un episodio
strettamente personale e legato fatalmente, come una conseguenza necessaria,
alla sua malattia. Fin dall'inizio la meditazione del poeta aspira a un
carattere universale e si intreccia strettamente alla crisi europea, filosofica,
ideologica e politica, che segna il passaggio dall'Illuminismo al Romanticismo.
Inizialmente, la problematica leopardiana è assai simile a quella del Foscolo,
anche se trova poi svolgimenti e soluzioni originali. Come il Foscolo, il
Leopardi rigetta decisamente le primitive convinzioni cattoliche e aderisce alle
concezioni sensistiche, con, tuttavia, l'ansia romantica delle <<
illusioni >> e dell'infinito. Però come vedremo meglio studiando il suo
pensiero, il pessimismo leopardiano appare più radicale di quello foscoliano.
Il tumulto di pensieri e di drammatici sentimenti del '19 culminò nel tentativo
di fuga, peraltro scoperto subito e reso vano, dalla casa paterna. Fu un fatto,
questo, assai significativo, in quanto espresse l'intolleranza sempre più
tormentosa che il Leopardi sentiva nei confronti del mondo chiuso di Recanati, e
l'ansia di vita e d'azione che travagliò tutta la sua esistenza. Solo nel
novembre del '22 il padre gli concesse di recarsi per qualche mese a Roma,
presso gli zii Antici, ma era troppo tardi. L'incontro col mondo fu una
delusione e non fece che ribadire l'amarezza del poeta. Ritornò stanco,
avvilito, sentendo inaridita anche la vena della sua poesia che, dal '18 al '22,
aveva conosciuto la sua prima, grande stagione creativa, a Recanati, e quì, nel
'24, compose le Operette Morali, in prosa, la prima sintesi delle conclusioni
del suo pensiero.
Gli anni dal '25 al '28 furono caratterizzate dalle peregrinazioni del poeta per
varie città italiane, nell'ansiosa e vana ricerca di una sistemazione che gli
consentisse di lasciare per sempre Recanati. Accettò dapprima l'offerta
dell'editore Stella di Milano di sopraintendere ad un'edizione delle opere di
Cicerone, e per lui compilò due Crestomanzie, o antologie, una della poesia e
l'altra della prosa italiana, e un commento al Petrarca. Ma le precarie
condizioni fisiche lo obbligarono a lasciar Milano e gli impedirono di crearsi
una vita indipendente. Con l'assegno mensile dello Stella e i proventi di
lezioni private potè vivere qualche tempo a Bologna, poi a Firenze, dove entrò
in contatto coi cattolici liberali riuniti intorno al Vieusseux e alla rivista
<< Antologia >> (Capponi, Poerio, Colletta, Giordani) e infine a
Pisa, dove il suo animo si ridestò alla poesia, ed ebbe inizio, coi canti Il
Risorgimento e A Silvia, la seconda stagione della sua poesia, che si concluse
nel '30.
Nel '28 perduto l'assegno mensile dello Stella, prostrato dalla miseria e dalle
sofferenze fisiche, fu costretto a tornare a Recanati, dove visse, fino
all'aprile del '30, << sedici mesi di notte orribile >>. Eppure
proprio allora compose i grandi Idilli, alcuni dei suoi maggiori capolavori.
Nell'aprile del '30, grazie alla generosità degli amici toscani, potè uscire
da Recanati. Fu dapprima a Firenze, dove, nel '31, curò un'edizione dei suoi
Canti, prese parte a convegni dei liberali fiorentini, sebbene scettico e
polemico nei confronti dei loro ideali, e strinse amicizia col giovane esule
politico napoletano Antonio Ranieri. Quì concepì anche una veemente passione
per Fanny Targioni Tozzetti, vissuta con pieno abbandono e conclusasi con una
cocente delusione, dopo la quale si rinchiuse di nuovo in una disperazione non
rassegnata.
Gli ultimi anni furono caratterizzati da un nuovo atteggiamento poetico e umano.
La definitiva evasione da Recanati significò per il poeta un impegno più
deciso nei confronti della realtà del suo tempo. Esso si concretò in un
dialogo polemico, in cui recisa è l'affermazione della propria dignità e del
proprio pessimismo incrollabile, ma virile e combattivo, che anela a
trasformarsi in un messaggio di solidarietà umana.
Nel 1833, il Leopardi prese stabile residenza a Napoli, aiutato da un piccolo
assegno mensile, concessogli finalmente dalla famiglia e affettuasamente
assistito dal Ranieri e dalla sorella di questo, Paolina, coi quali conviveva.
Sempre più grave diveniva il suo disfacimento fisico. Non rinunciò tuttavia a
condurre a fondo la sua lotta ideologica contro le nuove tendenze
spiritualistiche e a ribadire il proprio messaggio doloroso e pur magnanimo agli
uomini. Lo attesatno le poesie satiriche di questi anni: la Palinodia, I nuovi
credenti, satira contro l'ottimismo del secolo e la sua fede nel progresso, i
Paralipomeni della Batracomiomachia d'Omero, in cui, come continuando un antico
poemetto greco da lui tradotto, sotto l'ironica favola di una guerra fra
granchi, rane e topi, satireggia Austriaci, liberali e Pontifici e i loro
atteggiamenti nei moti napoletani del '20-'21. In questo periodo scrisse anche
la Ginestra che unisce ai toni polemici un'esortazione agli uomini affinchè si
uniscano fraternamente contro l'ostilità della natura. Morì nel 1837. Alle
opere che abbiamo citato vanno aggiunti lo Zibaldone (un diario spirituale), i
Pensieri e l'Epistolario, nei quali, come nei Canti, abbiamo l'immagine di una
vita volta costantemente a un'indagine sulle ragioni dell'esistenza che, se non
giunse mai a una conclusione
serenatrice, fu tuttavia vissuta con vigorosa
tensione.
tratto dal libro "Ottocento e
Novecento" di Mario Pazzaglia.
|