Marco Patassini

Anime anemiche. 

Crepa nera. 

Io 

Calma d’intorno-  Sensazioni e memoria. Indifferenza Il futuro cui m’oriento. Notte. Borgo di Sopra. Il mese della caldarrosta.

 

Anime anemiche.

Eravate
l’umido respiro d’estive nubi,
un po’ dopo che tramonti,
nell’eco sommessa di parole
bieche vostre e smunte,
ma che rompevano il silenzio, e

ridevate
sbocconcellando spessi fiati d’agosto,
ma non tintinnanti come
gorgogliando fa l’acqua da fonte.

Pensavate
di non dovervi dissolvere
nella calda voce della sera,
come di un mulo ansante:
ma per morire.

 

Crepa nera.

Crepa nera nel muro,
ma esce alla luce una
spiga,
che dondola, avanti, indietro,
avanti
indietro.
Scopro la natura d’una meraviglia nuova.

Io

Io, se la lunga mano
della notte m’afferra,
non so se forte, rifletto:
quanto ancora?
Settanta,
ottanta per i più forti ma
come
posso
riempire di senso
quanto ancora mi dista
dall’incombente soglia degli abissi?

Calma d’intorno-


Calmo respiro posato d’intorno,
sulle mimose sfiorite d’autunno,
sulle silenti nuvole zingare,
sulla terra ora umida e benedetta,
sul legno morto che la pioggia ammuffa;

calma su questo riposo del mondo-
e come gocce insistono a scavar la roccia,
così ad una ad una le ansie
scivolano via a rigagnolo, languide.
Calma in me.

Sensazioni e memoria.

Il nuovo sentir della primavera
s’infonde e quella strana nostalgia
fuor da me s’asconde, va da me via,
com’ora dal dì si dista la sera

e vela cose e campi intorno a me
l’umido alito del primo imbrunire,
quel calmo, profondo respiro,
a dire l’abbraccio di cielo e terra tra sé.

Ora solo scopro il ritorno eterno,
in quegli esili gambetti dell’erba
del cui ondeggiar la mente adorno,

perché lo spostarmi con essi garba
agli occhi ed al pensiero e dell’inverno
il ricordo futuro esso mi serba.

Indifferenza

Sono assorto in un dire silenzioso,
con le foglie del salice smocche,
pendule pesanti dita fiacche
nel gorgogliar limpido ed armonioso

del torrente in cui l’indaco ed il rosso
ed il viola, smolecolati tocchi
di luce, si muovono come trucchi-
a seguirlo più coll’occhio non posso.

Nel momento del mio sentire buono
il dire silenzioso mi colse,
assorto e serbato presso quest’uomo

e come uno sgomento mi rincorse
lo sguardo ferito da cui non muovo:
ma una attimo dopo il passo si tolse.

Il futuro cui m’oriento.

Il rapido intuir d’un onda sommersa
tra smoccati tocchi del raggio di luce
mi dà il sentir d’una occasione persa
che seco desiri e voglie conduce.

Ed è in questo dire silenzioso
del crespo mare e del nervoso vento
la fonte del piacere che ora sento,
nel colloquio con ciò che è a mente ascoso.

E  Non più al passato viaggio dimentico
quando di fronte sto a questo elemento
il senso cercando e vo come mendico

dall’antico respiro del caffè e sento
quando il mio naso al suo percepir indico
per carpire il futuro cui m’oriento.

Notte.

Quest’ora della notte m’è onesta,
chiara, calma, nonché perfetta
per lo scriver e ‘l pensar da cui è affetta,
e vorrei continuar per quel che resta

del tempo sospeso tra l’occaso e l’alba.
Tempo è ch’io accolga il riposo
di cui temo ‘l venir e non oso
pensar che in esso la vita mi si scialba.

Sospensione dell’essere mi vien a mente
che è come della vita il sovrano segno
che fa morto chi sembra dormiente-

e non voglio accostare quel legno
su cui coricare le stanche membra spente,
come a veder in questo della morte il pegno.

Borgo di Sopra.

Meni nel naso quest’umida spora,
spuria creatura del fradicio ciocco,
Borgo di Sopra, insieme al tocco
crepitante del fuoco che lo divora

ed all’umana fatica m’accosto
nel cupo tonfettìo della zappa
ch’inzolla radici e l’erba strappa-
perché, come d’autunno, anche di mosto

il profumo, borghetto, non dispensi-
perché di giallo le viti non veste
come nel riposo di vita agreste-
perché questo non dona ai miei sensi

completo del pensiero di morte? Che
nell’aria, nel mentre d’uno smorzato canto,
incappa e di colle in sella scende a nebbia,
come a sbottar da nube un gelido pianto.

Il mese della caldarrosta.

Tacciono i passanti lungo il viale
e le foglie guardando stanno appese
smorte in sé appena raccolte, nel mese
della caldarrosta e del caldo miele

e smette ogni fiore le sue corone,
si piega lieve al luogo del riposo
a dormire accanto al terriccio ascoso,
umile albergatore che dispone

ogni vivente al prossimo futuro.
Ed è il lento trascorrere di questo
tornare che rende il soffrir men duro

e lo svanir de la nostalgia lesto-
del perdono dei passanti mi curo
se rivolsi loro un udire mesto.



 

 

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ida spora,
spuria creatura del fradicio ciocco,
Borgo di Sopra, insieme al tocco
crepitante del fuoco che lo divora

ed all’umana fatica m’accosto
nel cupo tonfettìo della zappa
ch’inzolla radici e l’erba strappa-
perché, come d’autunno, anche di mosto

il profumo, borghetto, non dispensi-
perché di giallo le viti non veste
come nel riposo di vita agreste-
perché questo non dona ai miei sensi

completo del pensiero di morte? Che
nell’aria, nel mentre d’uno smorzato canto,
incappa e di colle in sella scende a nebbia,
come a sbottar da nube un gelido pianto.

Il mese della caldarrosta.

Tacciono i passanti lungo il viale
e le foglie guardando stanno appese
smorte in sé appena raccolte, nel mese
della caldarrosta e del caldo miele

e smette ogni fiore le sue corone,
si piega lieve al luogo del riposo
a dormire accanto al terriccio ascoso,
umile albergatore che dispone

ogni vivente al prossimo futuro.
Ed è il lento trascorrere di questo
tornare che rende il soffrir men duro

e lo svanir de la nostalgia lesto-
del perdono dei passanti mi curo
se rivolsi loro un udire mesto.



 

 

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