Ci
nutriamo, ci curiamo, sopravviviamo,
ma solo per continuare a consumarci. Attraversiamo
le stesse stanze, guardiamo
dalle stesse finestre, a
volte cerchiamo di darci per tutta una vita alle stesse persone, e
alla fine sappiamo solo
restare estranei: a quelle mura, a quel paesaggio, a loro. Noi,
che non sappiamo attraversare, guardare, offrirci. Situati
in mezzo a tutto, ad una distanza minima
da ogni cosa, ma,
legati a noi stessi con una corda ancora più breve di quella distanza. E
così, da tutto, separati. Protesi
verso l’esterno, come fiori fatti di una carne che sa ricordare,
avidi di essere raccolti, ma da nulla e nessuno
strappati a noi stessi. E
nell’attesa consumarsi. Incapaci
di evaderci, cerchiamo la salvezza negli angoli reconditi della nostra
cella di ossa e muscoli, vi cerchiamo un Dio, che ci prometta un premio
per il nostro esilio, e che ci
faccia ripensare come santo martirio la nostra imperfezione. La
solitudine a volte diviene un
altalena dalla quale dondolando, persa
la terra sotto i piedi, sfioriamo l’impalpabile, l’invisibile. In
essa allora anche Dio è possibile che appaia. E
a volte, infatti, oscilla con noi, seduto al nostro fianco, anch’egli
col braccio allungato e con le dita della mano tese nello spazio avanti
a noi, a cercare qualcosa che gli apparteneva, nella nostalgia di
quell’impalpabile da cui lo abbiamo rapito Ma
un Dio generato dalla solitudine non può alleviare da essa. Un
Dio così è soltanto un altro prigioniero,
un altro nostro fratello. Ma
in fondo non è neanche questo. In fondo non è niente, in sé. Tolto
dalla nicchia dell’invisibile, non è altro che noi.
Col
tempo, sempre scopriamo che
ha i nostri bisogni, i
nostri stessi fallimenti, la nostra stessa voce. Prendiamo
atto, allora, di avere chiesto aiuto ad un’eco. Di
avere pregato un ritorno ritardato di noi stessi a noi.
E
allora taciamo a noi stessi, con tutto l’orgoglio superstite. In
attesa di arrivare al limite, a
quella soglia oltre la quale, esausti, veniamo finalmente divorati
dall’insopportabile. Due gambe infinite, che possono calpestare tutte le terre, ingravidando con le scorie dell’una i solchi dell’altra senza,per questo, peccare.
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