Salvatore Polito

L’eresia del santo L’arena della fede Nell’anima

 

 

L’eresia del santo

 

   Passeggia quieto tra i suoi musei di strada

come chi non ha stretto mani né salutato amici

avanzando con passo lento e deciso

e in questo mattino come tanti altri e per niente speciale

riscopre il cielo di meraviglie per quell’istante interminabile

che il tempo conserva fra le vergogne e le incertezze

e dai suoi battiti nasconde per durare in eterno

   I soliti rumori di opere e omissioni

si perdono in onde anomale alle sue spalle

e in quella confusione anche il divino si perde

perché il santo diventò uomo senza arrancare

svestendosi di luce stretta per indossare l’umanità

e toccare il Suo viso senza pudicizie, senza timori

piegando la schiena pesante di sabbia e mare

   Non porta con sé il sacco del viandante

né ha preghiere da sussurrare al vento che soffia

perché sarebbe stato vuoto il suo bagaglio

e troppo incerta la sua voce nel declamare versi

eppure stringe al petto un’ala spezzata ed un sorriso

ed il cuore di un bimbo che ignora i rimorsi

da barattare con un accordo stonato se sarà triste.

   Percorre lentamente la sua strada

ma non si sente solo perché una puttana lo saluta

rincasando dalle sue faticate glorie senza rammarichi

e pagine di storie ordinarie da strappare

ritorna come ogni alba dalla figlia addormentata

che un giorno avrebbe salutato il santo diventato uomo

per quelle vie di memoria che non sono acqua di fiume

   Lui l’osserva e promette ai suoi piedi un viaggio breve

per abbattere le statue che lo ricordano immacolato

perché nessun riconoscimento gratifica tanta pace

quanto l’umanità conquistata da un clandestino del cielo

che vaga alla rinfusa certo! ma al tempo di musica

e pronto a commuoversi di lacrime e sangue

sporcando il suo vestito non più bianco, cucito di sogni

   Cenere e fango fra le mani immagina

e non teme l’ingiuria né la vergogna d’essere uomo

nemmeno cerca di spiegarsi la vita che respira

ma si lascia andare leggero come uno fra i tanti

che apprezzano d’ogni cosa il dispiegarsi in praterie

senza illudersi che a tutto si acceda attraverso la porta

di cui la chiave è missione di vita doverla trovare

   E se qualcuno ricorderà di quel santo fatto uomo

non sarà vanificata la sua promessa né il suo viaggio

perché l’uomo che divenne già sapeva in cuor suo

che ci sono altri uomini che vorrebbero divenire santi

pur non essendo mai stati uomini né spaccati di cielo

né esseri di amianto e sale che hanno perso il senno

sfiorando l’ebbrezza eretica del compiaciuto santo.

 

 

L’arena della fede

 

  Il ticchettio assordante dell’orologio si fermi stanotte

perché scrivo su pareti bianche e lisce, senza penna

per impressionare di verità le vostre coscienze sporche

di come ho rinnegato dio in un abbraccio

senza commozione né ripensamenti, supplicante la morte

  Lo spazio e la sua miseria sprofondino nell’apocalisse

perché rivelo al mondo intero il mistero della mia fede

che non ha più un nome buio a cui aggrapparsi, ferita

come un toro nell’arena che gli strapperà la vita

io mi sento maestro della scena e chiave di note stonate

  Ho tradito con un bacio e una carezza

che niente può esservi paragonato senza infame vergogna

per lasciare che le vostre preghiere umide e salate

s’impossessino dell’aria tiepida che soffia stanotte

sui fiori odorosi deposti su quell’altare di pace e vino

  Ma se aver vissuto schiavi vi è più dolce che morire liberi

allora non ascoltate la verità e continuate a bruciare incensi

non distraetevi dalle catene e lapidatemi con determinazione

perché non rimarrò a piangere la gente mia che muore

senza aver tentato di liberare almeno i loro cuori, le loro anime!

 

Nell’anima

  

Misture di erbe e fiori

 essenze profumate non bastano a placare i moti che ho dentro

 dominanti rossori delle maree, impeti di vergogna

 per quelle stelle che si oscurano soffocate dal bruciare dei miei sensi

 

Indicibile voluttà delle mie percezioni

 se potessi pronunciare parole degne di questo sentimento

 si seccherebbero le lingue del mondo e si fredderebbe l’equatore

 tanto da udire il lieve sibilare del vento fra le foglie della mia anima

 

Roccia scalfita a monumento della bellezza

 se fossi un sacerdote degno di tale decoro ti onorerei a mani congiunte

 e sul petto gli elementi della terra stringerei in commozione

 affinché queste voci potessero placarsi in cori celesti, unisono cantico

 

Colto giglio d’ammirare

 nei vasi della mia memoria deporrei le tue vibranti radici

 affinché nessuno dimentichi la dignità di questi amplessi amorosi

 che d’acqua e sale si nutrono a dispetto del tempo e dell’usura

 

Ostinata presunzione di un angelo caduto a te prometto!

 diverrà questo sigillo di lacrime e di gioia a difesa del nostro futuro

 perché mai nulla si potrà scrivere, narrare o semplicemente immaginare

 che vinca in magnificenza quest’estasi diffusa che battezzo Amore

 

 

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