Adolfo

le sue poesie

La Giostra 

 di Elisa (Filippo e Virginia)

I

La Giostra

 

Entrai. Nel chiaroscuro tratteggiato dalla debole luce del grigio giorno rimasto fuori, cercai le mie dita nelle tasche della giacca e toccai il muro.

La vernice screpolata e sollevata, non mandava più il suo odore, ma lasciava passare quello polveroso e fastidioso del vecchio muro, come una pelle lacera e consumata lascia passare l’odore della carne.

Arrivai alle scale e il battere delle tempie cominciava a cancellare la mia mente e  quello  della spina dorsale mi stava paralizzando.

Le scale scendevano sotto i miei piedi e mentre il corrimano scorreva sotto le mie dita, la porta sul pianerottolo sempre più velocemente si avvicinò.

Quelle scale,  quella porta, perché ero là ..?

Mi trovai sul pianerottolo che ero madido di sudore, la porta si aprì , impallidii alla vista di un uomo.

Allora le scale freneticamente e angosciosamente presero a salire sotto i miei piedi e il muro si appoggiò alle mie mani.

Piegato su me stesso, in un angolo scuro e fumoso dell’ingresso, strinsi  il buio, la mia mente si riempì di nulla . Perché in quel  luogo, cercai di capirmi , ma sempre più la mia mente era invasa da quel nulla senza forma ed&-spacerun: yes">  dolce e  gentile”

ma non direi niente

se non lo dicessi infinitamente.

Aveva  poco più di trent’anni  e da poco il suo bambino ingiustamente non le carezzava  più i suoi seni.

Quell’estate il caldo era  insopportabile. Il profumo delle belle donne, confuso dal loro sudore si faceva più sensuale, i succinti vestiti divenivano pelle e i loro corpi vogliosi e frementi  si concedevano ai miei sogni adolescenti per sconosciute smanie.

….. Un soave profumo appassionava la mia mente

mentre appariva in essa una delicata immagine.

Eri lei ….. il mio pensare.

Non  dormire per il mio pensare…..

…..Meravigliosamente sorrideva.

….. Dolce e gentile , raccolti  infiniti colori,

   con la sua bellezza accarezzava il cuore.

Eri lei ….. il mio sognare.

dormire per il mio sognare…..

I sogni benevolmente mentono, concedendoci nella fantasia quello che nella realtà non abbiamo.

In una luce dorata, i suoi scuri occhi mi reclamavano insistentemente attraverso i neri capelli che, dal suo capo chino, scivolando sulla spalla , lisciavano il prosperoso seno, sussultante all’aderire delle morbide labbra.

La donnina era nel retro e fu allora che lei  mi chiese dell’acqua da bere. Un brivido percorse la mia schiena, in un attimo irrequieti  pensieri  affollarono la mia mente e un inconsueto  desiderio facendosi  avanti, invase il mio corpo.

La  penombra nascose  il mio rossore e stando dietro un incerto bicchiere mi avvicinai a lei. Lo prese. Tenendo il bambino attaccato al seno gonfio e verboso, con il vestito tra le gambe e le spalle nude, vi appoggiò le labbra  e da me un forte fremito trapelò spudoratamente. I suoi occhi mi guardarono e lessero i miei pensieri. Mise giù il bicchiere e sorridendo portò  la mia mano ad accarezzarle il seno.

 

In questo mondo dove spesso tutto è confuso,

a volte qualcuno ci apre gli occhi del cuore,

e con il suo sorriso , di un bambino

cerca l’amore e ci  spinge ad amare.

 

Il sentimento di madre, perso nel  nulla dei pensieri interrotti per la vita mancata del figlio, riversava il soffocato amore  dal suo seno nelle morbide labbra del bimbo, e dai suoi occhi sul ragazzo reclamato che non ci sarebbe mai stato.

La vita sorretta da sogni e da desideri pazienti, improvvisamente mostrò il sinuoso cammino dell’amore. Confuso dai sentimenti, il continuo cercare mi conduceva in un travolgente mondo dominato da una forte sensazione legata da un sottile filo ad un’immagine intensa ed ambigua-

Turbamenti e risentimenti. Nell’incapacità di agire per l’impossibilità di capire, la sofferenza inquietava il mio sonno e rompeva i sogni in attesa del loro momento.

L’autunno arrivò veloce e il sole velato, stanco dell’estate distratta, inutilmente si sforzò di dipingere luce sopra le buie ombre, che in fretta nascosero le mie fantasie.

Dietro il bancone, ogni giorno più rosse, le carnose mani di una stracca signora dall’affannato respiro,  segnavano il passare di un inverno senza miracoli, lasciato al freddo come i miei spogli pensieri.

L’indifferenza del nostro vivere ci confina nell’oblio, ma  anche quando, per la replicante illusione di aver trovato l’amore del proprio immaginario, il desiderio naufraga nel non senso di  sciocchi e vuoti amori, andiamo nel tempo come i cavalli della piccola giostra di paese, girando e dondolando, girando  e…..

 

  II

  di Elisa

 Con la maliziosità di una donna, tra cedevoli e familiari colline, la città si risvegliava nella precocità dell’alba e l’umida nebbia, dipinta di caldo dal sole affiancato, nel suo controluce ne tracciava l’esterno.

Così il suo corpo senza pudore si scoprì nel letto e gli umori della notte appena trascorsa saturavano nella stanza.  

Posi un piede sul livido pavimento, la guardai , il desiderio da poco spento di avanzò nuovo, con gli occhi  le accarezzai i seni e la frugai. Si svegliò quasi avesse tratto dai miei sguardi un sottile piacere e in dissolute forme ci donammo, perdendoci nel giorno.

Elisa, mia moglie. Capace di sorprendermi nel chinare lievemente il capo ad ogni un mio sguardo nascondendo timidamente con i lunghi capelli l’innata bellezza, per ammettere così le sue contenute emozioni, è sempre pronta ad ascoltare  anche il mio silenzio  ed ad annullare l’intorno per afferrare un qualsiasi segno di bisogno d’ amore.

Eppure, scrutato dai suoi scuri occhi con  affetto smisurato, la sua riservatezza rimane.

Erano trascorsi dieci anni da quel caldo pomeriggio di fine estate, quando un piccolo corteo, là dove l’ombroso e ritto  viale alberato del cimitero incontra la provinciale, si frappose fra me e il sole  graziando i miei occhi già bruciati dalla forte luce. Fermai la macchina e scesi. Una giovane figura di donna con le mani unite sul ventre e la testa china, seguiva il  nero carro coperto di fiori  avanti a poche persone senza parole. Il silenzio, scolpito nell’aria, in un debole vento incapace  di  muovere le foglie che cercavano l’una l’ombra dell’altra, spandeva tristezza e dolore.

Nel il mutismo di grigi pensieri, pesantemente la pietra richiuse l’eterno nulla nel buio della mortale luce. Era tornata per non  partire più.

Come le buie ombre nascosero le fantasie dei miei sogni, nel dolore di quel giorno, il buio me le restituì eguali. Lei..Sua madre, lei… madre.

Il sole, allora, dietro la più bassa collina, aveva lasciato il giorno alla prossima sera. In grande solitudine, le braccia strette al petto e gli occhi abbandonati, confessavano il suo  disperato smarrimento. Mi avvicinai, mi porse la mano, accostando la sua guancia alla mia, cercò conforto nel condividere il dolore. Con gli occhi umidi, silenziosamente ci avviammo su per il viale e il buio sopraggiunse sulla porta di una vecchia casa  non abitata da tempo. Camminai girandomi e lei , nell’ombroso buio, fissava i miei passi forse per fermali.

Solo il giorno dopo tornai a prendere la macchina. La incontrai sul viale. Affettuosamente ci salutammo, i suoi occhi lasciarono passare la luce di un inconscio sorriso strappato al dolore, scotendo le mie emozioni.

E così, ricercando tra i miei ricordi il senso dei  quei sentimenti improvvisi , riconobbi Elisa.

La macchina stentò a partire . Nella vecchia casa restava solo il tormento della dolorosa solitudine di quella notte. Prese dal letto il suo maglione e vagammo senza meta accompagnati da  silenzi e sguardi incoscienti. Il pomeriggio ci raggiunse in una piccola trattoria di campagna, che lasciammo dopo uno svogliato pasto e nella tranquillità della sera i pensieri si allontanarono  faticosamente mentre lei prendeva le altre sue poche cose da portare con se da mia madre .

Entrammo e le disse  “Ciao…”, come se fosse sua madre. “Ciao…” e… , in un attento silenzio, mia madre carezzandole i lunghi capelli ,si occupò del suo dolore come se fosse sua figlia.

Suggerite prima dall’autunno , poi dall’inverno oltre che dai dolorosi ricordi, le tristi mattine, vissute per lei da mia madre con l’affezione di gesti materni , si trasformavano in vivaci giornate e un forte sentimento familiare crebbe tra loro.

A lavoro, in compagnia del suo pensiero, affrettavo il giorno per ritrovarla presto nei miei sguardi.

Era pomeriggio, percorsi il lungo corridoio e arrivando  in cucina:  “…Ciao ,  … ciao ma ‘…. ” . Con delicata riservatezza  mia madre sorrise dolcemente ad Elisa, toccandola appena le passò vicino e preso il soprabito disse: “Vado in chiesa e….. ” , non finì di dire che già era uscita. Guardai Elisa, che mi sorprese nel chinare lievemente il capo per nascondere timidamente tra i lunghi capelli il rossore causato dall’emozione di un sentimento che  sicuramente mia madre aveva già capito da tempo.

Sfiorata dagli ultimi raggi del sole, che tardavano ad uscire per trattenersi con la sua bellezza, alzò gli occhi, ascoltò in silenzio il mio silenzio, annullò l’intorno per lasciare posto ad ogni nostro segno di bisogno d’amore e timidamente disse: “Perdonami …se ti amo..”

Laddove una lunga lacrima accompagnava teneramente il suo sorriso, le sue braccia, stanche di abbracci vuoti,   mi  strinsero.

L’accarezzavo, la baciavo, la stringevo e lei lì  felice e sorridente con il viso in su verso il mio, chiudeva  gli occhi per sognare la vita da  vivere.

Affetti, sogni, pensieri, sguardi, sorrisi, dolci silenzi, ospiti della tavola serale, non terminarono al terminare della cena. Mia madre si alzò, con lo sguardo le camminai dietro fino in fondo al corridoio. Tra i chiaroscuri delle opache foto sul comò, risplende ancora la sua bellezza in  un  sorriso senza tempo. Una donna audace e dal forte carattere, capace di sottili sentimenti che ti legano senza timore.

 Tornò dicendo : “Domani è domenica, farò una festa, su ..su..uscite, penserò io a tutto, ci sarà anche ‘vostra’ sorella e tuo padre” e poggiò su una sedia la tovaglia delle grandi occasioni che aveva appena preso in un cassetto nella sua stanza .

Elisa la strinse abbracciandola e lei così stretta le diede una pacca sul sedere ridendo allegra.

Presi nell’incantesimo della sua materna magia ci fece personaggi di una favola di altri tempi.

Al suo fianco, rendevo più lenti i miei passi per guardarla restandole dietro. Sola per un attimo, si fermava girandosi e  smarrita frugava nello scorrere della passeggiata  rallentandone il fluttuare a volte impetuoso.

Questo apprensivo distinguersi tra la gente mi appagava, e continuai fintanto che, lei sicura della mia continua presenza, tra il nascondersi e il riapparire, mi trascinò nel gioco sottile della certezza della reciprocità dell’essere  presenti.

Tra premure e accortezze che la somigliavano a mia madre, i sentimenti di donna fecero di Elisa il senso della mia vita.

Il sole di mezzogiorno e il bianco della tovaglia ricamata  esaltavano, nell’ordinato luccichio dell’argento e dei cristalli, la tavola pronta  nella sala da pranzo.

Era ancora buio quando i familiari rumori della cucina e della casa  cominciarono a fare compagnia al mio sonno, ma erano solo le sette quando il vocione di mio cognato mi fece saltare dal letto pensando che fossero le undici.

 “Sveglia… sveglia…” strillava  “Suoceraaaa…. dove sei , ah dai …dai dammi un bel bacio, ti ho riportato l’amata figlia.., così sarai contenta!” e ,mentre uscivo dalla stanza, mia sorella felice:  “Ciao ma ‘” abbracciandola stretta;  “Alberto ! oh .. Alberto …caro fratellino… ” e mi saltò addosso stringendomi e baciandomi come se fossi ancora il bambolotto dei suoi giochi.

L’affetto deluso di mia madre si tramutò in lacrime di contentezza. Per lei avrebbe voluto un tipo diverso, non un “rozzo” come mio cognato, anche se laureato. “Ciao” e al solito stringendomi, manifestò di proposito  tutta la sua forza. “Forte eh !”. “Per evitare il traffico, alle sei tutti in pronti, mica  ero  matto a partire più tardi”, e all’innocenti strilla sorridenti continuò: “….eccoli , in macchina mi fanno sempre incazzare,  toccano tutto , rompono tutto ….e….ma .al ritorno li metto al posto del cane ”.

Animati dall’infantile rivincita , frementi e agitati ,mi tiravano il pigiama e :

“Zio ,zio  , papà ha sbattuto al cancello e ha rotto la luce della macchina…. ha pure bestemmiato e nonno si messo a ridere .”disse l’uno “Che forza” continuò l’altro, “e vai…”, e battendosi le mani tra loro, scivolarono in giardino per torturare il cane pronto a sopportare.

Mio padre, taciturno e fiero, governò in se il momento. Lo  abbracciai  e poi poggiandomi la mano sulla spalla, mi sorrise. Con un bacio, salutò amorevolmente mia madre, abituata oramai alla sua rara presenza strappata al lavoro. Sulla porta Elisa; il casuale silenzio di quell’attimo, si prolungò, trasformando il sentimento comune in un nuova realtà familiare.

A lungo le voci si mescolarono piacevolmente ai suoni della tavola  in mezzo a colori e profumi, finemente preparati con soddisfazione da mia madre, che quel giorno riuscì a vedere mio  cognato meno rozzo del solito; mia sorella premurosa nel suo andirivieni dalla cucina, mangiava i figli con gli occhi.

Dalla finestra soffiò laterale il vento, solo per sollevare delicatamente i capelli dal suo volto e scoprirne intieramente la bellezza tra sentimenti ed emozioni mai provate.

Mio padre, la fissò, con un nodo alla gola disse:

”La vita fatta spesso di ombre, lascia acceso nel buio un fuoco di grande ardore”. “E’ il fuoco dei nostri sogni. Spegnerlo è un modo per morire.”

Lo guardavo nel suo parlare, aveva letto qualcosa negli occhi di Elisa; dal suo profondo riemergevano sentimenti soffocati, azioni deluse, forse speranze non ancora perse. Nella commozione brindò a qualcosa di suo personale.

Elisa, con gli occhi lucidi, si alzò, andò  in bagno e in un calmo silenzio la sua assenza ci fece compagnia fino al suo ritorno. Aveva pianto, di gioia, per se e per lui. Mia madre ferma sulla porta, le pose una mano sui capelli e con l’altra l’abbracciò. ”Sai !. Non aveva mai parlato così. ”

I bambini vicini, con lo sguardo curioso le sorrisero, le posero tra le dita un fiore di pane e, accarezzandola  scapparono in giardino. 

Sotto il portico, mio padre a me affianco disse :

“il destino ha scelto per me una grande donna.Tua Madre-“

“a te sta facendo un regalo unico e irrepetibile. Guardala bene non è solo una donna . E’ la vita.”

Nella sua riservatezza svelava sentimenti di padre e di uomo, era tornato sulla giostra per dondolarsi nel fantastico sogno del figlio. Per un attimo si mostrò il bambino in se, con occhi capaci di brillare tra capelli tornati scuri e sorrisi senza rughe.

Il cane movendo leggermente la coda , leccò la mano di mio padre e lentamente , tra le carezze dispettose dei bambini, tornò ad accucciarsi per dimenticare.

Malinconicamente i saluti svuotarono la casa, lasciando che ognuno portasse con se qualcosa di quel giorno.

La stanchezza alla sera le vide sedute vicine, i loro sguardi soddisfatti si incontravano con i gomiti appoggiati sulle ginocchia .

Nel suo attento silenzio, di quella non lontana sera, aveva percepito il sottile sentimento che ci avrebbe legato, e carezzandole i lunghi capelli, sapeva già di questo giorno appena passato.

Alla buonanotte, mia madre vittoriosa, attraversò tutta la casa e si ritirò nella sua stanza in fondo al lungo corridoio .

Elisa. Si lasciava scivolare le dita sui i capelli e, accompagnata da un sorriso, mi trovò nella penombra del portico sull’immobile dondolo.

Sentii il suo calore prima di vederla e lo spingermi verso di lei, del suo volere senza chiedere, portò le mie labbra sulle sue; il cigolio inquieto del dondolare, segnando l’acceso vibrare dei nostri corpi, mescolò i sentimenti ai riposti desideri.

Luce imprigionata nella sua nuda presenza, aleggiante seta tessuta d’amore, accarezzò le ciglia di occhi rapiti da una porta schiusa; e nella notte nudità invisibili guidarono i corpi tra intimi anfratti per disegnare linee d’amore. Linee mutevoli, in assenze totali, al toccare, nel farsi toccare.

La mattina uscii presto, come sempre, ma  Raf non mi avvicinò, accucciato con sguardi d’attesa verso il vuoto del cancello, non era riuscito a dimenticare neanche quella volta.

Il ricordo

Era l’inverno del ‘66 , da giorni la statale saliva sotto una lastra di ghiaccio e ai bordi s’ammucchiava la neve  fino a nascondere i passanti sui marciapiedi. In lontananza, un passato stanco avanzava, lasciando rosse tracce sulla neve. Era “Lilla”, amica di caccia di mio padre. Sempre pronta a salire sulla vespa , tra le gambe di lui con il fucile a tracolla, per una giornata di caccia. L’anno prima l’aveva dovuta lasciare per sempre ad un amico in una campagna lontana, perché i vicini intransigenti non sopportavano il suo abbaiare. Per giorni rimase cupo e muto, nel silenzio del suo senso di colpa per non essere riuscito a difendere la loro amicizia.

“Papà, papà” chiamai “è tornata Lilla, è tornata…Lilla… papà…!!”……L’aveva sperato tante volte , quando con il suo mutismo sedeva paziente sotto il portico guardando il cancello.

Mio padre si voltò quando Lilla si fermava sul cancello. Era tornata, e per lui mosse la coda. Immobili nei ricordi delle loro giornate di caccia fatte di spari, corse, carezze e salti in abbracci, i loro sguardi si incontrarono per un silenzioso saluto. Lacrime pietose uscirono incontrollate dagli occhi di mio padre. Nella taciturna e fredda neve , seduta sulle zampe di dietro, chinò la testa, rialzò le zampe e con la morte negli occhi si allontanò. Si  perdevano per sempre.

Deluso di se stesso , solo molti anni dopo, quando il lavoro lo portò lontano da mia madre per intere settimane,  una sera  arrivò a casa con “Raf”.

Per la prima volta puniva apertamente i suoi soffocati sentimenti. Voleva ancora sperare di ritrovare un passato perso, vissuto a volte solo per il piacere degli altri. Una prova semplicemente dura e importante per vincere quei sensi di colpa, verso mia madre e i sentimenti che non difese per debolezza,  pur sapendo che quella debolezza lo avrebbe condotto in un tunnel  stretto e buio, con l’impossibilità di girarsi per tornare indietro.

(riprende la storia)

I fianchi di Elisa, poggiata sul parapetto del giardino sovrastante la strada, da sotto il nero del leggero vestito, si concedevano ai miei audaci pensieri. Si girò, mi sorrise, tirò giù le sue bianche braccia , si aggiustò il vestito, e con la mano fece segno di accostarmi.

Dalla gente accalcata sulla strada per la festa, si levava la curiosità provinciale, con saluti incorniciati spesso da falsi sorrisi. La strinsi alla vita e solo con la mente la baciai sulla bocca. Per un attimo mi sentii più provinciale di quella indisponente curiosità, ma sapevo, il rispetto per la sua riservatezza, mi aveva impedito di baciarla davanti a tutti.

Quasi per farmi scusare la strinsi più forte e il suo volto si lasciò accarezzare dai miei occhi, regalandomi il rossore dei suoi pensieri.

Sulla strada, dai lati colorati e svolazzanti, passava la banda; i vetri delle case tremavano al suono della grancassa suonata da un omone basso e grasso, che con la lingua tra i denti teneva la bocca aperta, per respirare.La pelle piatta e tesa, contrapposta alla rotondità dell’uomo, ad ogni colpo sferrato con passione, provocava la reazione del trombone e lo sbattere dei piatti, in una gara di festosi rumori trascinandosi dietro i bambini saltellanti .

 

 

 

(Filippo e Virginia)

Lo riconobbi subito. Al di là della strada, tra la folla premente dietro la Madonna, che un po’ più avanti volava sopra le teste dei credenti, Filippo, nel suo doppio petto grigio, gesticolava per attirare la mia attenzione. Erano scorsi cinque anni allorché, con sua moglie Virginia,  lasciò la città senza più tornarvi.

Lui dalla simpatia immediata e Virginia in un alone di bellezza irraggiungibile, sembravano usciti da una reclame.

Tirò Virginia per la mano, attraversarono la strada, salirono.

In un abbraccio irresistibilmente lungo, Filippo, dicendo: “E’ tua moglie? Perché se non lo è, lascio Virginia e la sposo”, prontamente si complimentò di Elisa, divertita dall’esuberante incontro e dal suo baciamano nel salutarla. Con piacere salutai Virginia, stringendola; aveva appena conosciuto Elisa. Sotto il portico le parole andarono avanti e indietro tra risate e tanti “…ti ricordi…”.

Come era possibile dimenticare. Storie belle, brutte e soprattutto strane che non ti lasciano più stare.

Virginia l’avevo conosciuta all’università, avevo trent’anni, ero ancora al quarto anno di architettura, e per tre anni, fino al termine degli studi, vivemmo nello stesso monolocale in affitto, in un sottotetto di un alto stabile. Corsi differenti ci facevano incontrare raramente. Qualche volta la sera ci vedevamo per pochi minuti prima che lei uscisse con gli amici fino a tardi. Trascurò gli studi e senza esami, le cose si mettevano male. Ai suoi venticinque anni, il padre le diede un ultimatum, minacciandola di non sostenerle più gli studi. Così costretta, tornò a frequentare regolarmente i corsi e ogni pomeriggio ci ritrovavamo a studiare dopo le scorribande in vespa, da Valle Giulia a Fontanella Borghese fino alla Cassia; sommerso di rotoli e fogli, in bilico dietro di lei mi facevo trasportare con un recondito piacere. (ricordo)

La vespa

Con la corazza di carta nascosta sotto il maglione senza farla volare, davanti, in piedi, le mani strette al manubrio, con l’aria dell’alba appena fatta sul viso, la vespa ci portava in viaggio.  Mio padre passeggero e io pilota guidavo, rifacendo con la bocca il rumore del motore, mutevole tra curve e salite della montagna verso il sole .

Mi faceva importante, la sua sicurezza che sentivo dentro, mi spingeva follemente nella luce del mattino regalandomi sogni avventurosi. La sosta a mezza strada, infreddolito mi stringeva. Attaccato al bancone indicavo al cameriere il maritozzo più grande che volevo inzuppare nel latte. Seduto intorno al tavolino del piccolo bar mi sentivo grande e parlavo, del mio viaggio nei sogni, a mio padre che sorridente sembrava che dicesse : “Bisognava pulire la candela e ripartire. Non posso fermare il tuo cavallo di cartapesta .”

Io non guidai mai la vespa, probabilmente per paura di cancellare quei sogni da pilota.

 

Ci parlavamo con brevi sguardi, quasi per aiutarci a sopportare la fatica degli esami prima dell’estate. Sempre più lunghi e più intensi, col passare dei giorni, si trasformarono in occhiate profonde. Il caffè forte, preparato con il piacere della sua bellezza sempre più nuda, ci regalava desiderati intervalli per scambiare qualche parola fino a che non divennero tante, per parlare di delusioni e desideri, di sentimenti e di amori finiti.

Da lontano forti bagliori senza rumore, disegnavano il profilo delle buie montagne. Così il temporale annunciava il suo arrivo nel tardo pomeriggio, e gonfie nuvole si ammassarono nel cielo della città. Le prime gocce  iniziarono a cadere verso la nove. Senza grande fracasso della pioggia sul tetto, lei vestita di poco, si sdraiò sul letto e sommersa in un libro si addormentò quasi subito. 

Il temporale si fece più forte, i tuoni erano vicinissimi, la luce  fulminea proiettava sulla grande parete fino al tetto, strane figure come fantasmi. Il martellare rumoroso della pioggia sul tetto si rovesciò all’interno . Tolsi il libro dal viso di Virginia e la sua bellezza si espanse nella stanza con i bagliori del temporale. Guardandola, dal cuscino appena sollevato, la desiderai fortemente e il cervello batteva come la pioggia, sperando che succedesse qualcosa. Appena assopito, un boato spaventoso tra bagliori e vibrazioni, sconquassò la notte. Virginia, spaventata come una bambina, piangeva e singhiozzava chiamando il mio nome. Le corsi vicino sul letto, cercando di calmarla, mi tirò, si strinse e, cercandomi tra le braccia, continuava a singhiozzare. La carezzavo con dolcezza, passandole la mano tra i capelli, mentre il suo viso si nascondeva sul mio petto. Sentii il suo respiro fino al collo e poi sul viso, le sue mani cominciarono a cercarmi sotto la maglietta graffiandomi, le gambe s’intrecciarono e il calore dei corpi si propagò nell’aria, così come ogni altra cosa. Il temporale era passato da tempo e l’alba ci sorprese, come molte altre, in prolungate carezze abbracciati senza sonno.

Un muto rapporto senza mai un domandarsi “dove vai, che fai,….” niente di niente, ci rendeva schiavi indifferenti.

Avrei voluto scrollarmi di dosso Virginia.

Però, la sua bellezza e il suo incessante concedersi al mio desiderio, in ogni caso mi trascinavano in inevitabili rapporti. Sentire quel calore su per le sue lunghe gambe, gettato addosso con esaltazione, annullava la mia volontà di chiudere per sempre.

I suoi primi sguardi già tessevano i fili di quella ragnatela, che sarebbe diventata presto l’intreccio di rivincite e di comuni desideri non appagati, dove i sentimenti andavano sacrificati  e annientati per un  piacere totale e assoluto. Una fredda volontà  paziente e decisa, forte di una sensuale bellezza, disponibile a trame sottili come profondi tagli di un bisturi perverso, scavò in fondo alla nostra psiche, per raggiungere quelle debolezze attaccabili e impadronirsi di noi stessi.

L’estate restammo in città, camminavamo trovando il piacere anche nelle cose più stupide e lo strusciarsi delle braccia appoggiate per un gelato sullo stesso tavolo, bastava a giustificare il desiderio soddisfatto, ritti ad un albero di Villa Borghese o nel bagno dei un affollato bar, dove facce ingigantite ci seguivano da dentro fin sul marciapiede, attratte dalla sua bellezza infuocata appena appagata. Fuggivamo correndo divertiti e il vestito appiccicato dal caldo alle sue cosce, nella sua trasparenza cedeva tutto quello che i sottili slip non avevano più ricoperto nella fretta del bar.  Il preludio di un gioco sensuale ed erotico su un tram affollato, finiva in un folle rapporto di piacere nella strafottente vergogna di in un portone.

L’esame di fisica, per la magnanimità del professore, riempì l’aula di giovanili e spudorati sudori, che nell’impazienza di una mobile attesa, si spalmavano tra loro il piacere di un facile esame e piaceri carnali forse fino all’ora risultati improbabili e impossibili.

Virginia mi trascinava lentamente nell’aula strisciando tra una caterva di gambe e di braccia, di seni e di corpi, trasmettendomi il suo piacere con la mano. Mi abbracciava e sfruttava lo sbattere dell’ andirivieni disordinato per premere la sua vulva sul mio sesso. Le nostre debolezze divennero insolenza.

Anche la sua vespa era divenuta complice della nostra insolenza. Seduto dietro sentivo le sue gambe, scoperte dal vento, attaccate alle mie, con la mani sui scivolosi fianchi , mi tiravo a lei e i selciati di Roma con ritmi frenetici, comprimevano i nostri corpi dilatati dal sole.

Rubavamo il piacere. Partecipanti ignari, deboli, forti, allegri, tristi, delusi, felici, vivi o morti, sagomavano la giostra del nostro piacere.

Qualche giorno prima di ferragosto tornai a casa e Virginia restò sola a Roma, per aspettare i suoi di passaggio per la Svizzera.  L’enorme fuoco rotolava nel cielo a mezzogiorno lento e bruciava gli occhi, e sul cancello mirai  Virginia.

Senza trucco, nel sudore dolce del suo corpo, mostrò con un sorriso saccente, la contentezza nell’avermi trovato. Si avvicinò, senza preoccuparsi dove fosse, mi strappò dalla bocca un bacio che non mi aveva mai dato, felice e incollata disse: “Non so come ho fatto a lasciarti andare senza trattenerti, che stupida. La notte sola mi ha spaventata. Ho telefonato ai miei dicendo che ero ospite al mare per il ferragosto e sono venuta”. Ripresasi dall’eccitazione si scoprì (ritrovò) in un giardino pieno di  miei parenti. Arrossì , era la prima volta, e di questo fui contento. Qualcosa era successo. Un silenzio divertito aspettava di conoscerla e di sapere.

Mia sorella lusingatrice diceva: “te la ruberanno è troppo bella”, “finiscila, lascialo stare…”, ribadiva mia madre. Il ferragosto passò nella convinzione di tutti che fossimo fidanzati.

Alla fine di agosto, Roma era diversa e Virginia pure. Somigliava sempre più al sole del vicino settembre, che ogni sera arrossendo tiepidamente in delicati tramonti, cede il passo a notti tranquille.

I giochi dell’insolenza, privi di sentimenti e passioni, si spensero nel pudore di un rapporto libero dalle esaltazioni  effimere del piacere.

La piena di pioggia inonderà il tuo corpo,

laverà le ombre delle tue luci chine

e nel mar morto le coprirà di dune.

E io amerò i tuoi seni che sorgeranno in alto

per non toccare il fondo dell’azzurro

dove l’onda non salta il vento.

Virginia, odiò i suoi pensieri che quella notte da sola, l’affondarono sgomenta in una solitudine prostrante.

La minuscola sabbia stretta nella mano fuggì in silenzio tra le dita per paura di perdere il mare.

Doveva uscire dalla sua sterilità. Strappò l’ancora dal fango, si liberò del sordo carico, insieme navigammo in un grande mare.

Come onde, riemergere nell’affondare, in insolite emozioni, mescolando luci e ombre, battiti e silenzi di sentimenti d’amore.

Gli sguardi di piazza Navona e di piazza di Spagna, attratti dalla sua viva bellezza, riuscivano a distinguerci abbracciati tra l’arte di Roma.

“Alberto penso che non ti lascerò mai” diceva. Era solo una sua debole speranza a cui aggrapparsi. Dalle parole così dette trapelava l’amarezza, che precedeva sempre lunghi silenzi, mentre un velo di tristezza, calando sul suo viso attaccato all’alto soffitto, la copriva di sonno. Lei, che aveva fatto del piacere una costante e guidato il gioco con fredda volontà, ora, si sentiva fragile. Il rifiuto della mente, faceva i nostri rapporti più radi. Le nudità confuse dai sentimenti, ogni giorno si ricoprivano di una crosta sempre più spessa. Volevamo, ma…... Liberi d’amare. Ci stavamo affrancando dalla schiavitù indifferente per una libertà cosciente.

Lontano era il sapore che scavava la bocca

per mentire  all’ottuso  piacere,

mentre l’inganno ci copriva di nulla

con l’ombra della meschina sorte.

Quando il canto del sole

avrà condotto il giorno,

nel vento troverai la sera,

nella notte i tuoi seni sorgeranno

per toccare l’alto dell’azzurro

nell’infinito amare.

 

   

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