I
Entrai.
Nel chiaroscuro tratteggiato dalla debole luce del grigio giorno rimasto fuori,
cercai le mie dita nelle tasche della giacca e toccai il muro.
La
vernice screpolata e sollevata, non mandava più il suo odore, ma lasciava
passare quello polveroso e fastidioso del vecchio muro, come una pelle lacera e
consumata lascia passare l’odore della carne.
Arrivai
alle scale e il battere delle tempie cominciava a cancellare la mia mente e
quello della spina dorsale mi stava paralizzando.
Le
scale scendevano sotto i miei piedi e mentre il corrimano scorreva sotto le mie
dita, la porta sul pianerottolo sempre più velocemente si avvicinò.
Quelle
scale, quella porta, perché ero là
..?
Mi
trovai sul pianerottolo che ero madido di sudore, la porta si aprì , impallidii
alla vista di un uomo.
Allora
le scale freneticamente e angosciosamente presero a salire sotto i miei piedi e
il muro si appoggiò alle mie mani.
Piegato su
me stesso, in un angolo scuro e fumoso dell’ingresso, strinsi
il buio, la mia mente si riempì di nulla . Perché in quel
luogo, cercai di capirmi , ma sempre più la mia mente era invasa da quel
nulla senza forma ed&-spacerun:
yes"> dolce e gentile”
ma non
direi niente
se non lo
dicessi infinitamente.
Aveva poco più di trent’anni
e da poco il suo bambino ingiustamente non le carezzava più i suoi seni.
Quell’estate
il caldo era insopportabile. Il
profumo delle belle donne, confuso dal loro sudore si faceva più sensuale, i
succinti vestiti divenivano pelle e i loro corpi vogliosi e frementi si concedevano ai miei sogni adolescenti per sconosciute
smanie.
….. Un
soave profumo appassionava la mia mente
mentre
appariva in essa una delicata immagine.
Eri lei
….. il mio pensare.
Non dormire per il mio pensare…..
…..Meravigliosamente
sorrideva.
…..
Dolce e gentile , raccolti infiniti
colori,
con la sua bellezza accarezzava il cuore.
Eri lei
….. il mio sognare.
dormire
per il mio sognare…..
I sogni
benevolmente mentono, concedendoci nella fantasia quello che nella realtà non
abbiamo.
In una luce
dorata, i suoi scuri occhi mi reclamavano insistentemente attraverso i neri
capelli che, dal suo capo chino, scivolando sulla spalla , lisciavano il
prosperoso seno, sussultante all’aderire delle morbide labbra.
La donnina
era nel retro e fu allora che lei mi
chiese dell’acqua da bere. Un brivido percorse la mia schiena, in un attimo
irrequieti pensieri
affollarono la mia mente e un inconsueto desiderio facendosi avanti,
invase il mio corpo.
La penombra nascose il
mio rossore e stando dietro un incerto bicchiere mi avvicinai a lei. Lo prese.
Tenendo il bambino attaccato al seno gonfio e verboso, con il vestito tra le
gambe e le spalle nude, vi appoggiò le labbra
e da me un forte fremito trapelò spudoratamente. I suoi occhi mi
guardarono e lessero i miei pensieri. Mise giù il bicchiere e sorridendo portò
la mia mano ad accarezzarle il seno.
In questo
mondo dove spesso tutto è confuso,
a volte
qualcuno ci apre gli occhi del cuore,
e con il
suo sorriso , di un bambino
cerca
l’amore e ci spinge ad amare.
Il
sentimento di madre, perso nel nulla
dei pensieri interrotti per la vita mancata del figlio, riversava il soffocato
amore dal suo seno nelle morbide
labbra del bimbo, e dai suoi occhi sul ragazzo reclamato che non ci sarebbe mai
stato.
La vita
sorretta da sogni e da desideri pazienti, improvvisamente mostrò il sinuoso
cammino dell’amore. Confuso dai sentimenti, il continuo cercare mi conduceva
in un travolgente mondo dominato da una forte sensazione legata da un sottile
filo ad un’immagine intensa ed ambigua-
Turbamenti
e risentimenti. Nell’incapacità di agire per l’impossibilità di capire, la
sofferenza inquietava il mio sonno e rompeva i sogni in attesa del loro momento.
L’autunno
arrivò veloce e il sole velato, stanco dell’estate distratta, inutilmente si
sforzò di dipingere luce sopra le buie ombre, che in fretta nascosero le mie
fantasie.
Dietro il
bancone, ogni giorno più rosse, le carnose mani di una stracca signora
dall’affannato respiro, segnavano
il passare di un inverno senza miracoli, lasciato al freddo come i miei spogli
pensieri.
L’indifferenza del nostro vivere ci confina nell’oblio, ma anche quando, per la replicante illusione di aver trovato l’amore del proprio immaginario, il desiderio naufraga nel non senso di sciocchi e vuoti amori, andiamo nel tempo come i cavalli della piccola giostra di paese, girando e dondolando, girando e…..
II
Con
la maliziosità di una donna, tra cedevoli e familiari colline, la città si
risvegliava nella precocità dell’alba e l’umida nebbia, dipinta di caldo
dal sole affiancato, nel suo controluce ne tracciava l’esterno.
Così il
suo corpo senza pudore si scoprì nel letto e gli umori della notte appena
trascorsa saturavano nella stanza.
Posi un
piede sul livido pavimento, la guardai , il desiderio da poco spento di avanzò
nuovo, con gli occhi le accarezzai
i seni e la frugai. Si svegliò quasi avesse tratto dai miei sguardi un sottile
piacere e in dissolute forme ci donammo, perdendoci nel giorno.
Elisa, mia
moglie. Capace di sorprendermi nel chinare lievemente il capo ad ogni un mio
sguardo nascondendo timidamente con i lunghi capelli l’innata bellezza, per
ammettere così le sue contenute emozioni, è sempre pronta ad ascoltare anche il mio silenzio ed
ad annullare l’intorno per afferrare un qualsiasi segno di bisogno d’ amore.
Eppure,
scrutato dai suoi scuri occhi con affetto
smisurato, la sua riservatezza rimane.
Erano
trascorsi dieci anni da quel caldo pomeriggio di fine estate, quando un piccolo
corteo, là dove l’ombroso e ritto viale
alberato del cimitero incontra la provinciale, si frappose fra me e il sole
graziando i miei occhi già bruciati dalla forte luce. Fermai la macchina
e scesi. Una giovane figura di donna con le mani unite sul ventre e la testa
china, seguiva il nero carro
coperto di fiori avanti a poche
persone senza parole. Il silenzio, scolpito nell’aria, in un debole vento
incapace di
muovere le foglie che cercavano l’una l’ombra dell’altra, spandeva
tristezza e dolore.
Nel il
mutismo di grigi pensieri, pesantemente la pietra richiuse l’eterno nulla nel
buio della mortale luce. Era tornata per non
partire più.
Come le
buie ombre nascosero le fantasie dei miei sogni, nel dolore di quel giorno, il
buio me le restituì eguali. Lei..Sua madre, lei… madre.
Il sole,
allora, dietro la più bassa collina, aveva lasciato il giorno alla prossima
sera. In grande solitudine, le braccia strette al petto e gli occhi abbandonati,
confessavano il suo disperato
smarrimento. Mi avvicinai, mi porse la mano, accostando la sua guancia alla mia,
cercò conforto nel condividere il dolore. Con gli occhi umidi, silenziosamente
ci avviammo su per il viale e il buio sopraggiunse sulla porta di una vecchia
casa non abitata da tempo. Camminai
girandomi e lei , nell’ombroso buio, fissava i miei passi forse per fermali.
Solo il
giorno dopo tornai a prendere la macchina. La incontrai sul viale.
Affettuosamente ci salutammo, i suoi occhi lasciarono passare la luce di un
inconscio sorriso strappato al dolore, scotendo le mie emozioni.
E così,
ricercando tra i miei ricordi il senso dei
quei sentimenti improvvisi , riconobbi Elisa.
La macchina
stentò a partire . Nella vecchia casa restava solo il tormento della dolorosa
solitudine di quella notte. Prese dal letto il suo maglione e vagammo senza meta
accompagnati da silenzi e sguardi
incoscienti. Il pomeriggio ci raggiunse in una piccola trattoria di campagna,
che lasciammo dopo uno svogliato pasto e nella tranquillità della sera i
pensieri si allontanarono faticosamente
mentre lei prendeva le altre sue poche cose da portare con se da mia madre .
Entrammo e
le disse “Ciao…”, come se
fosse sua madre. “Ciao…” e… , in un attento silenzio, mia madre
carezzandole i lunghi capelli ,si occupò del suo dolore come se fosse sua
figlia.
Suggerite
prima dall’autunno , poi dall’inverno oltre che dai dolorosi ricordi, le
tristi mattine, vissute per lei da mia madre con l’affezione di gesti materni
, si trasformavano in vivaci giornate e un forte sentimento familiare crebbe tra
loro.
A lavoro,
in compagnia del suo pensiero, affrettavo il giorno per ritrovarla presto nei
miei sguardi.
Era
pomeriggio, percorsi il lungo corridoio e arrivando
in cucina: “…Ciao ,
… ciao ma ‘…. ” . Con delicata riservatezza mia madre sorrise dolcemente ad Elisa, toccandola appena le
passò vicino e preso il soprabito disse: “Vado in chiesa e….. ” , non finì
di dire che già era uscita. Guardai Elisa, che mi sorprese nel chinare
lievemente il capo per nascondere timidamente tra i lunghi capelli il rossore
causato dall’emozione di un sentimento che
sicuramente mia madre aveva già capito da tempo.
Sfiorata
dagli ultimi raggi del sole, che tardavano ad uscire per trattenersi con la sua
bellezza, alzò gli occhi, ascoltò in silenzio il mio silenzio, annullò
l’intorno per lasciare posto ad ogni nostro segno di bisogno d’amore e
timidamente disse: “Perdonami …se ti amo..”
Laddove una
lunga lacrima accompagnava teneramente il suo sorriso, le sue braccia, stanche
di abbracci vuoti, mi strinsero.
L’accarezzavo,
la baciavo, la stringevo e lei lì felice
e sorridente con il viso in su verso il mio, chiudeva
gli occhi per sognare la vita da vivere.
Affetti,
sogni, pensieri, sguardi, sorrisi, dolci silenzi, ospiti della tavola serale,
non terminarono al terminare della cena. Mia madre si alzò, con lo sguardo le
camminai dietro fino in fondo al corridoio. Tra i chiaroscuri delle opache foto
sul comò, risplende ancora la sua bellezza in
un sorriso senza tempo. Una
donna audace e dal forte carattere, capace di sottili sentimenti che ti legano
senza timore.
Tornò dicendo : “Domani è domenica, farò una festa, su
..su..uscite, penserò io a tutto, ci sarà anche ‘vostra’ sorella e
tuo padre” e poggiò su una sedia la tovaglia delle grandi occasioni che aveva
appena preso in un cassetto nella sua stanza .
Elisa la
strinse abbracciandola e lei così stretta le diede una pacca sul sedere ridendo
allegra.
Presi
nell’incantesimo della sua materna magia ci fece personaggi di una favola di
altri tempi.
Al suo
fianco, rendevo più lenti i miei passi per guardarla restandole dietro. Sola
per un attimo, si fermava girandosi e smarrita
frugava nello scorrere della passeggiata rallentandone
il fluttuare a volte impetuoso.
Questo
apprensivo distinguersi tra la gente mi appagava, e continuai fintanto che, lei
sicura della mia continua presenza, tra il nascondersi e il riapparire, mi
trascinò nel gioco sottile della certezza della reciprocità dell’essere presenti.
Tra premure
e accortezze che la somigliavano a mia madre, i sentimenti di donna fecero di
Elisa il senso della mia vita.
Il sole di
mezzogiorno e il bianco della tovaglia ricamata
esaltavano, nell’ordinato luccichio dell’argento e dei cristalli, la
tavola pronta nella sala da pranzo.
Era ancora
buio quando i familiari rumori della cucina e della casa
cominciarono a fare compagnia al mio sonno, ma erano solo le sette quando
il vocione di mio cognato mi fece saltare dal letto pensando che fossero le
undici.
“Sveglia… sveglia…” strillava
“Suoceraaaa…. dove sei , ah dai …dai dammi un bel bacio, ti ho
riportato l’amata figlia.., così sarai contenta!” e ,mentre uscivo dalla
stanza, mia sorella felice: “Ciao
ma ‘” abbracciandola stretta; “Alberto
! oh .. Alberto …caro fratellino… ” e mi saltò addosso stringendomi e
baciandomi come se fossi ancora il bambolotto dei suoi giochi.
L’affetto
deluso di mia madre si tramutò in lacrime di contentezza. Per lei avrebbe
voluto un tipo diverso, non un “rozzo” come mio cognato, anche se laureato.
“Ciao” e al solito stringendomi, manifestò di proposito
tutta la sua forza. “Forte eh !”. “Per evitare il traffico, alle
sei tutti in pronti, mica ero
matto a partire più tardi”, e all’innocenti strilla sorridenti
continuò: “….eccoli , in macchina mi fanno sempre incazzare,
toccano tutto , rompono tutto ….e….ma .al ritorno li metto al posto
del cane ”.
Animati
dall’infantile rivincita , frementi e agitati ,mi tiravano il pigiama e :
“Zio ,zio
, papà ha sbattuto al cancello e ha rotto la luce della macchina…. ha
pure bestemmiato e nonno si messo a ridere .”disse l’uno “Che forza”
continuò l’altro, “e vai…”, e battendosi le mani tra loro, scivolarono
in giardino per torturare il cane pronto a sopportare.
Mio padre,
taciturno e fiero, governò in se il momento. Lo
abbracciai e poi poggiandomi
la mano sulla spalla, mi sorrise. Con un bacio, salutò amorevolmente mia madre,
abituata oramai alla sua rara presenza strappata al lavoro. Sulla porta Elisa;
il casuale silenzio di quell’attimo, si prolungò, trasformando il sentimento
comune in un nuova realtà familiare.
A lungo le
voci si mescolarono piacevolmente ai suoni della tavola
in mezzo a colori e profumi, finemente preparati con soddisfazione da mia
madre, che quel giorno riuscì a vedere mio
cognato meno rozzo del solito; mia sorella premurosa nel suo andirivieni
dalla cucina, mangiava i figli con gli occhi.
Dalla
finestra soffiò laterale il vento, solo per sollevare delicatamente i capelli
dal suo volto e scoprirne intieramente la bellezza tra sentimenti ed emozioni
mai provate.
Mio padre,
la fissò, con un nodo alla gola disse:
”La vita
fatta spesso di ombre, lascia acceso nel buio un fuoco di grande ardore”.
“E’ il fuoco dei nostri sogni. Spegnerlo è un modo per morire.”
Lo guardavo
nel suo parlare, aveva letto qualcosa negli occhi di Elisa; dal suo profondo
riemergevano sentimenti soffocati, azioni deluse, forse speranze non ancora
perse. Nella commozione brindò a qualcosa di suo personale.
Elisa, con
gli occhi lucidi, si alzò, andò in
bagno e in un calmo silenzio la sua assenza ci fece compagnia fino al suo
ritorno. Aveva pianto, di gioia, per se e per lui. Mia madre ferma sulla porta,
le pose una mano sui capelli e con l’altra l’abbracciò. ”Sai !. Non aveva
mai parlato così. ”
I bambini
vicini, con lo sguardo curioso le sorrisero, le posero tra le dita un fiore di
pane e, accarezzandola scapparono
in giardino.
Sotto il
portico, mio padre a me affianco disse :
“il
destino ha scelto per me una grande donna.Tua Madre-“
“a te sta
facendo un regalo unico e irrepetibile. Guardala bene non è solo una donna .
E’ la vita.”
Nella sua
riservatezza svelava sentimenti di padre e di uomo, era tornato sulla giostra
per dondolarsi nel fantastico sogno del figlio. Per un attimo si mostrò il
bambino in se, con occhi capaci di brillare tra capelli tornati scuri e sorrisi
senza rughe.
Il cane
movendo leggermente la coda , leccò la mano di mio padre e lentamente , tra le
carezze dispettose dei bambini, tornò ad accucciarsi per dimenticare.
Malinconicamente
i saluti svuotarono la casa, lasciando che ognuno portasse con se qualcosa di
quel giorno.
La
stanchezza alla sera le vide sedute vicine, i loro sguardi soddisfatti si
incontravano con i gomiti appoggiati sulle ginocchia .
Nel suo
attento silenzio, di quella non lontana sera, aveva percepito il sottile
sentimento che ci avrebbe legato, e carezzandole i lunghi capelli, sapeva già
di questo giorno appena passato.
Alla
buonanotte, mia madre vittoriosa, attraversò tutta la casa e si ritirò nella
sua stanza in fondo al lungo corridoio .
Elisa. Si
lasciava scivolare le dita sui i capelli e, accompagnata da un sorriso, mi trovò
nella penombra del portico sull’immobile dondolo.
Sentii il
suo calore prima di vederla e lo spingermi verso di lei, del suo volere senza
chiedere, portò le mie labbra sulle sue; il cigolio inquieto del dondolare,
segnando l’acceso vibrare dei nostri corpi, mescolò i sentimenti ai riposti
desideri.
Luce
imprigionata nella sua nuda presenza, aleggiante seta tessuta d’amore,
accarezzò le ciglia di occhi rapiti da una porta schiusa; e nella notte nudità
invisibili guidarono i corpi tra intimi anfratti per disegnare linee d’amore.
Linee mutevoli, in assenze totali, al toccare, nel farsi toccare.
La mattina
uscii presto, come sempre, ma Raf
non mi avvicinò, accucciato con sguardi d’attesa verso il vuoto del cancello,
non era riuscito a dimenticare neanche quella volta.
Il
ricordo
Era
l’inverno del ‘66 , da giorni la statale saliva sotto una lastra di ghiaccio
e ai bordi s’ammucchiava la neve fino
a nascondere i passanti sui marciapiedi. In lontananza, un passato stanco
avanzava, lasciando rosse tracce sulla neve. Era “Lilla”, amica di caccia di
mio padre. Sempre pronta a salire sulla vespa , tra le gambe di lui con il
fucile a tracolla, per una giornata di caccia. L’anno prima l’aveva dovuta
lasciare per sempre ad un amico in una campagna lontana, perché i vicini
intransigenti non sopportavano il suo abbaiare. Per giorni rimase cupo e muto,
nel silenzio del suo senso di colpa per non essere riuscito a difendere la loro
amicizia.
“Papà,
papà” chiamai “è tornata Lilla, è tornata…Lilla… papà…!!”……L’aveva
sperato tante volte , quando con il suo mutismo sedeva paziente sotto il portico
guardando il cancello.
Mio
padre si voltò quando Lilla si fermava sul cancello. Era tornata, e per lui
mosse la coda. Immobili nei ricordi delle loro giornate di caccia fatte di
spari, corse, carezze e salti in abbracci, i loro sguardi si incontrarono per un
silenzioso saluto. Lacrime pietose uscirono incontrollate dagli occhi di mio
padre. Nella taciturna e fredda neve , seduta sulle zampe di dietro, chinò la
testa, rialzò le zampe e con la morte negli occhi si allontanò. Si perdevano per sempre.
Deluso
di se stesso , solo molti anni dopo, quando il lavoro lo portò lontano da mia
madre per intere settimane, una
sera arrivò a casa con “Raf”.
Per la
prima volta puniva apertamente i suoi soffocati sentimenti. Voleva ancora
sperare di ritrovare un passato perso, vissuto a volte solo per il piacere degli
altri. Una prova semplicemente dura e importante per vincere quei sensi di
colpa, verso mia madre e i sentimenti che non difese per debolezza, pur sapendo che quella debolezza lo avrebbe condotto in un
tunnel stretto e buio, con
l’impossibilità di girarsi per tornare indietro.
(riprende
la storia)
I fianchi
di Elisa, poggiata sul parapetto del giardino sovrastante la strada, da sotto il
nero del leggero vestito, si concedevano ai miei audaci pensieri. Si girò, mi
sorrise, tirò giù le sue bianche braccia , si aggiustò il vestito, e con la
mano fece segno di accostarmi.
Dalla gente
accalcata sulla strada per la festa, si levava la curiosità provinciale, con
saluti incorniciati spesso da falsi sorrisi. La strinsi alla vita e solo con la
mente la baciai sulla bocca. Per un attimo mi sentii più provinciale di quella
indisponente curiosità, ma sapevo, il rispetto per la sua riservatezza, mi
aveva impedito di baciarla davanti a tutti.
Quasi per
farmi scusare la strinsi più forte e il suo volto si lasciò accarezzare dai
miei occhi, regalandomi il rossore dei suoi pensieri.
Sulla
strada, dai lati colorati e svolazzanti, passava la banda; i vetri delle case
tremavano al suono della grancassa suonata da un omone basso e grasso, che con
la lingua tra i denti teneva la bocca aperta, per respirare.La pelle piatta e
tesa, contrapposta alla rotondità dell’uomo, ad ogni colpo sferrato con
passione, provocava la reazione del trombone e lo sbattere dei piatti, in una
gara di festosi rumori trascinandosi dietro i bambini saltellanti .
Lo
riconobbi subito. Al di là della strada, tra la folla premente dietro la
Madonna, che un po’ più avanti volava sopra le teste dei credenti, Filippo,
nel suo doppio petto grigio, gesticolava per attirare la mia attenzione. Erano
scorsi cinque anni allorché, con sua moglie Virginia,
lasciò la città senza più tornarvi.
Lui dalla
simpatia immediata e Virginia in un alone di bellezza irraggiungibile,
sembravano usciti da una reclame.
Tirò
Virginia per la mano, attraversarono la strada, salirono.
In un
abbraccio irresistibilmente lungo, Filippo, dicendo: “E’ tua moglie?
Perché se non lo è, lascio Virginia e la sposo”, prontamente si
complimentò di Elisa, divertita dall’esuberante incontro e dal suo baciamano
nel salutarla. Con piacere salutai Virginia, stringendola; aveva appena
conosciuto Elisa. Sotto il portico le parole andarono avanti e indietro tra
risate e tanti “…ti ricordi…”.
Come era
possibile dimenticare. Storie belle, brutte e soprattutto strane che non ti
lasciano più stare.
Virginia
l’avevo conosciuta all’università, avevo trent’anni, ero ancora al quarto
anno di architettura, e per tre anni, fino al termine degli studi, vivemmo nello
stesso monolocale in affitto, in un sottotetto di un alto stabile. Corsi
differenti ci facevano incontrare raramente. Qualche volta la sera ci vedevamo
per pochi minuti prima che lei uscisse con gli amici fino a tardi. Trascurò gli
studi e senza esami, le cose si mettevano male. Ai suoi venticinque anni, il
padre le diede un ultimatum, minacciandola di non sostenerle più gli studi. Così
costretta, tornò a frequentare regolarmente i corsi e ogni pomeriggio ci
ritrovavamo a studiare dopo le scorribande in vespa, da Valle Giulia a
Fontanella Borghese fino alla Cassia; sommerso di rotoli e fogli, in bilico
dietro di lei mi facevo trasportare con un recondito piacere. (ricordo)
La
vespa
Con la
corazza di carta nascosta sotto il maglione senza farla volare, davanti, in
piedi, le mani strette al manubrio, con l’aria dell’alba appena fatta sul
viso, la vespa ci portava in viaggio. Mio
padre passeggero e io pilota guidavo, rifacendo con la bocca il rumore del
motore, mutevole tra curve e salite della montagna verso il sole .
Mi
faceva importante, la sua sicurezza che sentivo dentro, mi spingeva follemente
nella luce del mattino regalandomi sogni avventurosi. La sosta a mezza strada,
infreddolito mi stringeva. Attaccato al bancone indicavo al cameriere il
maritozzo più grande che volevo inzuppare nel latte. Seduto intorno al tavolino
del piccolo bar mi sentivo grande e parlavo, del mio viaggio nei sogni, a mio
padre che sorridente sembrava che dicesse : “Bisognava pulire la candela e
ripartire. Non posso fermare il tuo cavallo di cartapesta .”
Io non
guidai mai la vespa, probabilmente per paura di cancellare quei sogni da pilota.
Ci
parlavamo con brevi sguardi, quasi per aiutarci a sopportare la fatica degli
esami prima dell’estate. Sempre più lunghi e più intensi, col passare dei
giorni, si trasformarono in occhiate profonde. Il caffè forte, preparato con il
piacere della sua bellezza sempre più nuda, ci regalava desiderati intervalli
per scambiare qualche parola fino a che non divennero tante, per parlare di
delusioni e desideri, di sentimenti e di amori finiti.
Da lontano
forti bagliori senza rumore, disegnavano il profilo delle buie montagne. Così
il temporale annunciava il suo arrivo nel tardo pomeriggio, e gonfie nuvole si
ammassarono nel cielo della città. Le prime gocce
iniziarono a cadere verso la nove. Senza grande fracasso della pioggia
sul tetto, lei vestita di poco, si sdraiò sul letto e sommersa in un libro si
addormentò quasi subito.
Il
temporale si fece più forte, i tuoni erano vicinissimi, la luce
fulminea proiettava sulla grande parete fino al tetto, strane figure come
fantasmi. Il martellare rumoroso della pioggia sul tetto si rovesciò
all’interno . Tolsi il libro dal viso di Virginia e la sua bellezza si espanse
nella stanza con i bagliori del temporale. Guardandola, dal cuscino appena
sollevato, la desiderai fortemente e il cervello batteva come la pioggia,
sperando che succedesse qualcosa. Appena assopito, un boato spaventoso tra
bagliori e vibrazioni, sconquassò la notte. Virginia, spaventata come una
bambina, piangeva e singhiozzava chiamando il mio nome. Le corsi vicino sul
letto, cercando di calmarla, mi tirò, si strinse e, cercandomi tra le braccia,
continuava a singhiozzare. La carezzavo con dolcezza, passandole la mano tra i
capelli, mentre il suo viso si nascondeva sul mio petto. Sentii il suo respiro
fino al collo e poi sul viso, le sue mani cominciarono a cercarmi sotto la
maglietta graffiandomi, le gambe s’intrecciarono e il calore dei corpi si
propagò nell’aria, così come ogni altra cosa. Il temporale era passato da
tempo e l’alba ci sorprese, come molte altre, in prolungate carezze
abbracciati senza sonno.
Un muto
rapporto senza mai un domandarsi “dove vai, che fai,….” niente di niente,
ci rendeva schiavi indifferenti.
Avrei
voluto scrollarmi di dosso Virginia.
Però, la
sua bellezza e il suo incessante concedersi al mio desiderio, in ogni caso mi
trascinavano in inevitabili rapporti. Sentire quel calore su per le sue lunghe
gambe, gettato addosso con esaltazione, annullava la mia volontà di chiudere
per sempre.
I suoi
primi sguardi già tessevano i fili di quella ragnatela, che sarebbe diventata
presto l’intreccio di rivincite e di comuni desideri non appagati, dove i
sentimenti andavano sacrificati e
annientati per un piacere totale e
assoluto. Una fredda volontà paziente
e decisa, forte di una sensuale bellezza, disponibile a trame sottili come
profondi tagli di un bisturi perverso, scavò in fondo alla nostra psiche, per
raggiungere quelle debolezze attaccabili e impadronirsi di noi stessi.
L’estate
restammo in città, camminavamo trovando il piacere anche nelle cose più
stupide e lo strusciarsi delle braccia appoggiate per un gelato sullo stesso
tavolo, bastava a giustificare il desiderio soddisfatto, ritti ad un albero di
Villa Borghese o nel bagno dei un affollato bar, dove facce ingigantite ci
seguivano da dentro fin sul marciapiede, attratte dalla sua bellezza infuocata
appena appagata. Fuggivamo correndo divertiti e il vestito appiccicato dal caldo
alle sue cosce, nella sua trasparenza cedeva tutto quello che i sottili slip non
avevano più ricoperto nella fretta del bar.
Il preludio di un gioco sensuale ed erotico su un tram affollato, finiva
in un folle rapporto di piacere nella strafottente vergogna di in un portone.
L’esame
di fisica, per la magnanimità del professore, riempì l’aula di giovanili e
spudorati sudori, che nell’impazienza di una mobile attesa, si spalmavano tra
loro il piacere di un facile esame e piaceri carnali forse fino all’ora
risultati improbabili e impossibili.
Virginia mi
trascinava lentamente nell’aula strisciando tra una caterva di gambe e di
braccia, di seni e di corpi, trasmettendomi il suo piacere con la mano. Mi
abbracciava e sfruttava lo sbattere dell’ andirivieni disordinato per premere
la sua vulva sul mio sesso. Le nostre debolezze divennero insolenza.
Anche la
sua vespa era divenuta complice della nostra insolenza. Seduto dietro sentivo le
sue gambe, scoperte dal vento, attaccate alle mie, con la mani sui scivolosi
fianchi , mi tiravo a lei e i selciati di Roma con ritmi frenetici, comprimevano
i nostri corpi dilatati dal sole.
Rubavamo il
piacere. Partecipanti ignari, deboli, forti, allegri, tristi, delusi, felici,
vivi o morti, sagomavano la giostra del nostro piacere.
Qualche
giorno prima di ferragosto tornai a casa e Virginia restò sola a Roma, per
aspettare i suoi di passaggio per la Svizzera.
L’enorme fuoco rotolava nel cielo a mezzogiorno lento e bruciava gli
occhi, e sul cancello mirai Virginia.
Senza
trucco, nel sudore dolce del suo corpo, mostrò con un sorriso saccente, la
contentezza nell’avermi trovato. Si avvicinò, senza preoccuparsi dove fosse,
mi strappò dalla bocca un bacio che non mi aveva mai dato, felice e incollata
disse: “Non so come ho fatto a lasciarti andare senza trattenerti, che
stupida. La notte sola mi ha spaventata. Ho telefonato ai miei dicendo che ero
ospite al mare per il ferragosto e sono venuta”. Ripresasi dall’eccitazione
si scoprì (ritrovò) in un giardino pieno di
miei parenti. Arrossì , era la prima volta, e di questo fui contento.
Qualcosa era successo. Un silenzio divertito aspettava di conoscerla e di
sapere.
Mia sorella
lusingatrice diceva: “te la ruberanno è troppo bella”, “finiscila,
lascialo stare…”, ribadiva mia madre. Il ferragosto passò nella convinzione
di tutti che fossimo fidanzati.
Alla fine
di agosto, Roma era diversa e Virginia pure. Somigliava sempre più al sole del
vicino settembre, che ogni sera arrossendo tiepidamente in delicati tramonti,
cede il passo a notti tranquille.
I giochi
dell’insolenza, privi di sentimenti e passioni, si spensero nel pudore di un
rapporto libero dalle esaltazioni effimere
del piacere.
La
piena di pioggia inonderà il tuo corpo,
laverà
le ombre delle tue luci chine
e
nel mar morto le coprirà di dune.
E
io amerò i tuoi seni che sorgeranno in alto
per non
toccare il fondo dell’azzurro
dove
l’onda non salta il vento.
Virginia,
odiò i suoi pensieri che quella notte da sola, l’affondarono sgomenta in una
solitudine prostrante.
La
minuscola sabbia stretta nella mano fuggì in silenzio tra le dita per paura di
perdere il mare.
Doveva
uscire dalla sua sterilità. Strappò l’ancora dal fango, si liberò del sordo
carico, insieme navigammo in un grande mare.
Come
onde, riemergere nell’affondare, in insolite emozioni, mescolando luci e
ombre, battiti e silenzi di sentimenti d’amore.
Gli sguardi
di piazza Navona e di piazza di Spagna, attratti dalla sua viva bellezza,
riuscivano a distinguerci abbracciati tra l’arte di Roma.
“Alberto
penso che non ti lascerò mai” diceva. Era solo una sua debole speranza a cui
aggrapparsi. Dalle parole così dette trapelava l’amarezza, che precedeva
sempre lunghi silenzi, mentre un velo di tristezza, calando sul suo viso
attaccato all’alto soffitto, la copriva di sonno. Lei, che aveva fatto del
piacere una costante e guidato il gioco con fredda volontà, ora, si sentiva
fragile. Il rifiuto della mente, faceva i nostri rapporti più radi. Le nudità
confuse dai sentimenti, ogni giorno si ricoprivano di una crosta sempre più
spessa. Volevamo, ma…... Liberi d’amare. Ci stavamo affrancando dalla
schiavitù indifferente per una libertà cosciente.
Lontano
era il sapore che scavava la bocca
per
mentire all’ottuso
piacere,
mentre
l’inganno ci copriva di nulla
con
l’ombra della meschina sorte.
Quando
il canto del sole
avrà
condotto il giorno,
nel
vento troverai la sera,
nella
notte i tuoi seni sorgeranno
per
toccare l’alto dell’azzurro
nell’infinito
amare.