Eliude Santana

le sue poesie....clicca qui

UNA TACCHINA PER AMICA

IL “BABY” CHE INCASTRO’ BIN LADER 

 

 

UNA TACCHINA PER AMICA

 

Il giardino di nonna Giovanna sembrava una fattoria con tanto di galline, capre, maiali e una grossa tacchina, che sembrava essere stata allevata con premura, per sfamare un intero battaglione.  

Era vigilia di Natale e la casa di nonna Giovanna, nella campagna brianzola, era già piena: Pietro, il più grande, sposato con Rosetta e i loro tre figli: Lorenzo, Francesco ed Elena di 7, 5 e 2 anni; Chiara, sposata con Giovanni con la figlia Ludovica di 7 anni, la zia Fabiana e il marito Marco, i due fratelli vedovi del nonno Roberto con i tre cugini.

“Dobbiamo sbrigarci Roberto, cosa facciamo per la cena? “

Gli animali erano tutti lì a guardarla come a dire: “Io non c’entro”. Il maiale guardò l’unica tacchina presente: “Sono affari tuoi…” Tutti gli altri si girarono con lo sguardo accusatorio puntato dritto sul di lei.

La tacchina chinò la testolina come una rea che accetta la sua condanna.

 

Accasciatasi sull’angolo della terrazza nessuno poteva percepire in lei alcun’ansietà, nemmeno quando l’hanno palpata nella sua intimità per sapere se era abbastanza grassa. Tutti la guardavano ma lei sembrava indifferente.

Guardandola così, sembrava di riflettere su qualcosa non strettamente connessa con il momento presente. Percepì il complotto. Prima di darsela a gamba, guardò con sfida feroce i suoi aguzzini; pareva aver accettato l’intimazione con decisa equanimità. Ma… Improvvisamente, gonfiò il petto, aprì le ali e cercò di spiccare un volo maldestro, ma veloce, verso il tetto della casetta di Fido.

Tutti la guardarono con una sola preoccupazione: la cena natalizia stava scappando via. Soltanto Ludovica, le fece un sorriso complice e le strizzò l’occhio, prima di vederla scappare.

Lì sopra, si sentiva un arredo fuori posto. Pensava, fra una gamba e l’altra, cosa fare per cavarsela.

Il nonno costernato, percependo l’imminente volatilizzazione di quella che costituirebbe il tradizionale cenone natalizio, convocò la famiglia per una riunione straordinaria per cercare una seconda alternativa al consueto tacchino.

Pietro, il figlio più grande e con un numero maggiore di cuccioli da sfamare, prese la decisione: si mise in tutta da ginnastica e scarpe da tennis, prese un bastone trovato a caso e via, seguendo le tracce della fuggitiva. Con un salto, per niente atletico, raggiunse il soffitto della casetta ma la tacchina esitante, prese con urgenza un’altra destinazione. La persecuzione si fece più intensa. Correvano uno dietro l’altra. Quando la tacchina sembrava di farcela, spinta da un’inusitata forza selvaggia di lottare per la sopravvivenza, cosa tutta nuova per la sua apatica razza, l’astuzia umana ebbe il sopravvento. Incastrata nell’angolo di una via senza uscita, è bastato un salto e… zac…! Pietro, con un grido di conquista, l’ha acchiappata.

Trasalì leggermente ma si consegnò, senza resistenza, nelle mani del suo persecutore.

Sola, tremula e timida, la tacchina non capiva che cosa la rendeva così preziosa per essere perseguitata in quella forma, dai generi umani che la volevano mangiare, tutti assieme, in una serata detta speciale. Loro erano in tanti e lei, povera diavola, aveva soltanto tre chili di pelle, piume e viscere… non sarebbe meglio una vacca, o quel disgraziato maiale che sembrava sorridere soddisfatto quando l’hanno scelta? Non, volevano proprio lei! Ma era sola, senza padre, senza madre… e pensava d’essere libera…

 

La portò con le due mani come un trofeo e la sbatté sul tavolo della cucina. La cena fu ricuperata. Tutti applaudirono. Ma improvvisamente, la tacchina fa un urlo ed ecco! Viene fuori un uovo, forse prematuro.

-          Un uovo! Lei ha fatto un uovo, mamma! – gridò Ludovica con la voce rauca dall’eccitazione.

Così rimane, seduta sopra il suo cucciolo, aprendo e chiudendo gli occhi, come se volesse sfruttare del fenomeno della maternità come l’ultimo ricorso per evitare la pena capitale. Ma nessuno sembrava importarsi un bel niente. Erano tutti alle prese con coltello, sale, pepe, mirando solamente prepararla per la solenne cena

Arrivano i seguaci. Coltello in mano, pentola e acqua bollente. Ludovica assisteva la scena atterrita.

-          Non, nonna, non ucciderla! – Gridava. La famiglia era divisa. – Non vede che lei ci vuole bene? Ha fatto persino un uovo nonna!

-          Ma, tesoro, è solo una tacchina, non ha sentimento…

-          Si, nonna, lei vuole vivere per stare con noi” L’accarezzò la testolina della tacchina che la guardò intenerita.

I genitori la guardavano imperterrito meditando quando mai qualcuno ha accarezzato la testa di un tacchino.

Il padre Giovanni la guardò e vide due lacrime spuntare nei suoi piccoli occhi lucenti. La moglie Chiara, puliva discretamente il naso, col dorso della mano. Sembrava la veglia di un funerale.

-          Dai, andiamo, dobbiamo spennarla. Passami l’acqua bollente, Rosetta. - Concludeva la nonna per finire con quella drammatica scena shakspeareana.

Giovanni tirò su la testa, respirò profondamente, fece due passi in avanti come se stesse per iniziare il solito discorso natalizio come faceva ogni anno:

-          Se uccidi quella povera tacchina, mamma… - tirò su col naso – “non mangerò i tacchini, mai più in vita mia”.

-          Ma cosa sta succedendo in questa casa? Per caso avete tutti fatto la terapia di gruppo in difesa degli animali? Da quando il mondo è mondo, l’uomo mangia i tacchini e noi non siamo mica un’eccezione, persino Gesù Cristo li mangiò…

-          Gesù mangiava pesci e pane, mamma.

-          Anche i tacchini. Dicono le sacre scritture. – Cercava di mettere in mezzo un po’ dei vangeli come una forma d’espiazione per tutti quanti si sentissero in colpa.

-          Anche io, lo giuro: i tacchini, non li mangerò mai più in vita mia!” – Ribadì Ludovica, asciugandosi le lacrime.

-          Ma, andiamo, che cosa significa tutto ciò? Domandava la nonna irritata, guardando l’orologio sul muro. Se volete fare saltare la cena, e va bene. Non attribuite però la colpa a me.” Molò il coltello sul tavolo vicino alla tacchina che girò la testa per guardarlo, aggiungendo un sospiro affettato.

Tutti riuniti nel salone ancora una volta, per decidere per la cena di Natale.

-          Mi sembra che in questa casa siamo tutti impazziti. Una riunione familiare straordinaria, anzi, due, per decidere per la vita di una tacchina che ha fatto un uovo. Per carità. Come se qui stessimo per uccidere il presidente Bush, ma mi faccia un piacere. Io non ci sto”. Gridava la nonna Giovanna sventolando il coltello in aria che l’aveva ripreso dopo averci ripensato. “Vado a preparare quella maledetta tacchina perché tra poco se mangia e non se né parla più”.

-          Noooooon! Le voci se alzarono in unisono.

-          Aspetta Giovanna! - Ordinò la zia Fabiana, avvertendo in lei una leggera indecisione nell’incidere il primo colpo. – Dobbiamo ragionare. Perché non prendiamo un tacchino dal macellaio, così lo possiamo mangiare in santa pace, senza dover sporcare le nostre mani col sangue di un innocente…           

-          Oh…ma non ci posso credere!  Che tragedia… qui ci vuole uno psicoanalista altroché un macellaio!

In quel preciso momento, entra il nonno Giuseppe che, stufo di tanto “batte becco”, si assentò senza che fosse visto, rientrando con un grosso pacco in mano: “Basta! Basta di polemiche per amor del cielo! Ecco qui la cena di Natale. Lasciate stare questa povera tacchina. – disse con un tocco d’emozione nella voce. – Non vorrei che ci venisse un’indigestione, dopo tanta controversia.

 

La tacchina passò dalla condizione di condannata a quella di “patrona” della famiglia.

Ludovica, ogni giorno, dopo la scuola, passava per salutarla. La nonna aveva adesso, un atteggiamento riverente nei confronti di “Aggraziata” - così la tacchina passò ad essere chiamata. Persino una cuccia in pura seta le fu procurata dalle zie, per dormire dentro di casa e fare tutte le uova che volesse.

La tacchina, ignota dei motivi che portarono a quel drastico cambiamento, continuava insospettita dopo la traumatica esperienza. Non riluttava ad usare le due uniche capacità che possedeva la sua razza: quella dell’apatia ma, soprattutto, quella della difesa… ehm… (quasi) personale!   

Pardon! Lingua madre il portoghese.

 

SOGGETTO FICTION

 

IL “BABY” CHE INCASTRO’ BIN LADER

 

Siamo nell’11 di settembre del 2011. Esattamente dieci anni dall’attentato terroristico alle Twin Towers.

L’avvocato Allan telefonò alla compagnia aerea American Airlines per confermare la prenotazione del suo volo.

Cancellati i voli Boston-Los Angeles per quel giorno. E’ la risposta che ottiene.

Allan è disperato. Bisogna arrivare a casa in tempo per accompagnare la moglie Catherine in ospedale.

Chiede di trasferire la prenotazione alla United  per un’ora dopo, volo Boston-Los Angeles.

 

Sono passati dieci anni dall’attentato alle Torre gemelle, ma esisteva ancora nel cuore di ogni americano, e non solo, la sindrome di Bin Laden.

Per scaramanzia o precauzione, Allan andava munito di un kit anti-effetto “The day after”, che va dalle “nuke-pills”, le pillole che limitano i rischi per la tiroide in caso d’esposizione alle radiazioni, agli identificatori di diffusione radioattiva e delle maschere antigas. Lui credeva che la prossima mossa di Bin Laden, non sarebbe stato altro che un attacco chimico o biologico. Oggi, anniversario di quella terribile tragedia, poteva essere una data favorevole a un nuovo attacco terroristico.

Aveva cose importanti da fare quel giorno e non entrava nei suoi programmi volare proprio in quella data ma, da qualche ora, ha ricevuto una telefonata dalla suocera per informarlo che Catherina aveva cominciato ad avere le doglie. I medici stavano cercando di controllare le contrazioni per spostare di qualche giorno il travaglio, ma non n’erano sicuri. Allan ci teneva molto ad essere presente alla nascita del suo primogenito.

Aveva già comprato la telecamera digitale per registrare tutto e regalarla al figlio nel suo 15° compleanno.

“Cavolo, nascere proprio l’11 settembre, è la più grande scalogna che si poteva capitare”, eppure, il bambino ha voluto anticipare di tre settimane la sua nascita, maledizione! 

Arrivò all’aeroporto e subito cominciò a dare la caccia ai presunti talibani. Cercava ovunque i segni di oggetti sospetti, tracce di bombe, ha scandagliato ogni angolo, sotto le panchine e nei bagni.

Doveva capitare proprio a lui, avere un figlio nato l’11 settembre. Era un pessimo auguro.

A bordo dell’aereo si vedeva più agenti federali e uomini della Cia che passeggeri. Lui si sentiva più al sicuro. Ma era conscio di che se lì ci fosse uno di quei matti di Bin Laden, nessuno poteva far nulla per impedirlo di commettere un’azione terroristica.

Si siede vicino a un ragazzo con la carnagione un po’ scura. Magari erano le lenti dei suoi occhiali? Mah! Nel dubbio, cambiò posto, tenendo sempre d’occhio quel tizio. Non si sapeva mai.  

L’aereo decollò senza problemi. Gli agenti federali fecero un lungo controllo sotto i sedili dei passeggeri, nei bagagliai e nei bagni.

L’avvocato Allan non riusciva a contenersi. Li insegue. Potrebbe essere utile per individuare qualche negligenza o sottovalutazione.

Gli agenti cominciano, a sospettare proprio di lui. Allan continua la sua perquisizione indipendente senza accorgersene di essere stato messo sotto controllo. Riteneva doveroso prendere la via della premura.

Dopo un po’, si accorge che c’è qualcosa che non va. Sembra che quegli agenti stiano alle sue calcagna.  Cerca di non creare panico interiore, per non confermare un sospetto infondato.  il collo. Il barbone stramazzò sul sedile destro.

Allan si trascinò a fatica e prese la guida del taxi. Non sapeva dove andare. Perdeva molto sangue e aveva bisogno di soccorso. L’ospedale più vicino era distante più di quattro chilometri, pensava di non farcela. Udì la sirena della vettura della polizia dietro a lui. Pensò che la cosa più saggia sarebbe stato chiedere aiuto ai poliziotti. Rischiava di essere sbattuto in galera per un equivoco dagli agenti federali, ma era, in ogni modo, meglio di essere catturato dai seguaci di Bin Laden.

Si fermò. Quelli nomi martellava ancora nella sua testa: “NEDAL NIBA MASO… NEDAL NIBA MASss…. La sua vista si oscurò, poi non vide più niente.

Si svegliò nel letto d’ospedale con le gambe ingessate e tre costole rotte.

Ma la più grande sorpresa quando aprì gli occhi fu di trovare gli agenti federali che perquisivano l’aereo, proprio lì davanti a lui. “Mi hanno beccato”, pensò amareggiato. Svanì la speranza di vedere arrivare il suo caro figlioletto.

Stava per dirgli che c’era un frainteso, che lui era uno per bene, un avvocato rispettabile, che non era un militante della jihad, anzi, i seguaci di Bin Laden volevano pure la sua testa, chi sa per quale ragione. Era un innocente perseguitato dalle due forze contrarie, (roba da pazzi). E pensare che il suo unico reato fu di mollare la responsabilità del lavoro per stare insieme alla moglie in quel momento di magia, quando un essere si affaccia alla luce del mondo… piccola immensa presunzione di ogni padre!

“NEDAL NIBA MASO!”

Prima che aprisse la bocca, gli agenti si avvicinarono sorridendo e li consegnarono l’assegno di 25 milioni di dollari, la taglia per la cattura di Bin Laden, il nemico numero uno del pianeta.

“Cosa diavolo sta succedendo?” esclamò senza capire un bel niente.

Poi, seppe che quel barbone tassista non era, niente meno, che il famigerato Bin Laden in carne e ossa, e lui, inconsapevolmente, lo consegnò nelle mani della Cia.

 

E’ arrivato nella sala parto in una sedia a rotelle, con la videocamera digitale in una mano e nell’altra un cartello con la scritta NEDAL NIBA MASO, quello sarebbe il nome che darebbe al suo figlioletto, perché non riusciva toglierlo della mente. Fu l’angelo custodi del suo bambino che l’ha inculcato nella mente, non poteva essere altro.                   

 

Lo specchio enorme della sala parto gli dava un’ampia visione per registrare la nascita del suo primogenito. Vicino a lui il cartello con la scritta: NEDAL NIBA MASO. Cominciava a trovare simpatico quel nomignolo e, prima di tutto, era il nome del figlio di un eroe, l’uomo che un giorno, per ironia del destino, entrò a far parte della storia, non solo degli Stati Uniti ma di tutto il mondo.

 

Due settimane dopo, guardando il filmato, Allan ebbe un colpo. Il nome donato dall’angelo custodi del suo bimbo era sparito e al suo posto c’era una blasfema. Chi è stato l’artefice di quel cattivo scherzo? Qualcuno deve aver messo quel nome lì per una presa in giro di pessimo gusto. Al posto di NEDAL NIBA MASO si leggeva: OSAMA BIN LADER??? Oh, santo cielo!!!!  Allora era quello! Da sotto la macchina di quei pazzi lui è riuscito a leggere il nome di Osama Bin Lader al rovescio.

 

Ora, ha aperto un’azione giudiziaria per far cambiare il nome di suo figlio anche se per questo dovesse costargli 25 milioni di dollari.

 

NOTA: Soggetto depositato presso un notaio nel 12/09/01

 

 

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Ora, ha aperto un’azione giudiziaria per far cambiare il nome di suo figlio anche se per questo dovesse costargli 25 milioni di dollari.

 

NOTA: Soggetto depositato presso un notaio nel 12/09/01

 

 

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