Giovanni
Maria Mischiati 1-2-3
Torino
ANNI
VENTI Gambe quiete come jazz che finga dormire in una habanera malata di equatore son le tue, il centro del mondo: nessun atlante ne reca la giustezza come questo grammofono che squama le note dentro ricordi di lampioni a gas né le folate libecciose di sotto ai tavolini deserti possono trarre pronostici dal tuo grembo. La barbarie del mio sguardo è figlia dell'oppio e si ammala della tua civiltà come il fiore del rabarbaro nel tuo bicchiere di dama sdegnosa. Una lirica d'oppio è la mia sola lussuria.
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PENULTIMO
TANGO |
1911 Non sanno né di Lepanto né di Cervantes i nostri soldati di Libia e muoiono fra le dune, lontani dall'orizzonte senza presagi del Carso. Affondano nei miraggi per andar contro li Turchi senza droghe di poeti o pallidi lumi d'alcova. Una tradotta nel deserto è la loro ultima memoria e le braci di un amore affannato oltre le carraie del brigante Sud e piatti antichi come i loro occhi e una voce da roveto ardente nelle feste comandate. |
I
VIAGGI Non portare il tuo cuore in alcuna patria d'uomo: ti tornerebbe straniero. Né i tuoi occhi, nelle sale di musica ad inseguire note filanti tra i chiari capelli delle creature deluse. Non v'è modo di sfuggire alla parola, al grido, alla geometria sanguinosa degli scacchi, e nemmeno vorremmo. Ascoltiamo l'operosa assenza di Zeus o Jahvé come la cifra del lamento di violino rubata al mendicante. Ascoltiamo senza gratitudine la fatica d'una goccia nel buio afoso degli alberghi trasfusi nella cera per il sigillo dell'attimo.
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PARISIENNE Coprirti 'e vase senz'altro destino dalle labbra su cui mi accoccolassi, naufrago. Fiochi bistrots nell'alba e lame di lampioni ruggine di fantasmi che ballarono con Lautrec o con algerini muti: altre nozze, altre foglie per il vento a ritroso e ballerine e baguettes in primavere di pittori. Ancora mi cercherai negli occhi ramarri sfuggendo alla pioggia, ancora ti dorrai del silenzio sgusciato fra una parola e un sogno.
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FUMO Al dio effimero dell'ozio e dell'attesa librato come il genio della lampada sulle sabbie della mia filosofia rendo grazie per lo scherzo barocco delle sue promesse mentre m'impiglio con gli occhi nella sua danza dalla trama furtiva. Nient'altro che la vita fuori intanto avviene trascurabile, come le varie ed eventuali che, sul tetto, di fronte pigramente trascorrono con le code affabili.
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CANZONE
PROVVISORIA Scriviamo solo versi d'amore (di questo siamo capaci ancora?) così piccoli che il cielo li contenga per lo spirare d'un refolo nello sbieco d'una piazzetta sospesa di pietra dimenticata ove abiti un'eco di p assi appena sfuggiti alla nostra falsa ispezione. Scriviamoli in fila, tutti come scolari che stillino aste facendoci noi eternità durevole come un mattino. E sperdiamoli, poi, com'è giusto al pari di formiche estive o delle briciole del nostro banchetto mancato.
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METAFISICA Un orologio dal battito lento per le cui lancette il meno avvertito dei miei gesti trasfiguri in incandescente preghiera per subito squagliarsi al sole di una candela con le tue bussole da divano a indovinare il nord nel mangiatore quieto di mandarance è la foto del nostro inverno la mia bocca appagata dallo sgranare succoso di questo rosario di spicchi presagio ironico di sensualità. |
IL
COLLEZIONISTA Il suo cuore è un caimano nel limo l'occhio grumoso di un'attesa remota e madida. Inquieto della voce del tempo si apparta in un sussurro d'insetti al pari di un'orchidea malata. Si perde fra gli oggetti quasi fossero i suoi pensieri sofferente di una bellezza onnivora che lo piaga e lo irride. Dagli la buona notte con la rapidità di un soffio e lascialo irrisolto con la sua lacrima spaiata.
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CANZONE
ABUSIVA
Le liti di condominio non sono il sale della terra: non hanno bellezza se non quella sghemba di un Picasso affetto da gastrite. Si abbatta l'abusivo a colpi di fucile - o di virtù, se preferite (e se ne disponete). Ma lasciateci incantare a prezzo di saldo dal chiarore fosforico di quelle lune marinate che infilziamo sera dopo sera sulla forchetta del tempo. Abbiamo tutti un cuore abusivo.
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RAPPRESAGLIA Di noi, di noi la quintessenza è forse lo spariglio di un mazzo da osteria nell'eterno pomeriggio che attende la sera per sbancarla delle sue stelle presuntuose. Ci si masturba pigri ai piedi di un'ombra. Per ogni dubbio ucciso fucileremo cento certezze in riva a fiumi di rugiada. |
LA
BALLATA DI TIM JONES AL GIRO Ecco, hai inseguito e braccato il tuo cuore nei più riposti anfratti della fatica scalando savane vertiginose nello splendore del vento. I tuoi compagni sono zagaglie variopinte saettanti. Luce e sudore, metallo e fango e la solitudine di chi in avanti si getta all'avventura o di chi è lasciato arrancare nelle retrovie: forse entrambi i destini conoscerai, nell'Africa dolomitica da percorrere in caccia.
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ESTRATTO
CONTO Di qualcuno saremo ben la latitudine, l'occulto meridiano sulla mappa del cuore all'incrocio di albe e notti. Di qualcuno il vento uscito dalla rosa stremata che è chiave e pertugio e cartografa e cartomante. Di qualcuno il silenzio sepolto fra dobloni assassini e un Achab birraio rifugiato nel pub delle cinque. Di qualcuno il figlio della figlia celeste di speranza... il grazie smarrito tra la forfora dei sogni. |
INTERNET
(& ANGOSTURA) Una spiaggia ferita da relitti e delitti. Lo sciabordio rabbioso del mouse. Cerco una connessione col cielo vuoto di dei elettrico e guizzante sul lungo mare sbaragliato da tutti i venti. Il mare in attitudine di grifone cala sul bitume dei giorni e m'invade il desktop. Ringrazio il mio diavolo cursore ebbro di chat raggrumate nell'ombra di un bar mattutino le fauci in un sorso di lieve andropausa. N.B.: Da non confondersi con l'angostura
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Un unico,
lungo tiro di bionda
-
perfetta carezza d'angoscia -
sospeso e
infrangibile
in una
scintilla d'emicrania
e subito
perso
nell'indecisione
del vento
guscio di
solitudine
cui
concedo di attraccare
nel mio
porto delle nebbie.
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Anelo
che dallo specchio si
rifranga la tua intesa e
dall'ovale
ottuso d?ogni mattina ove
m'alliscio
baffi e anima escano
le sillabe del tuo imperio grido
tracimato del
piccolo prometeo che
afferri il fuoco sacro per
farne dono ai nostri reumi. Ci
affanna e disarciona la
tua poderosa ilarità quando
la chiave gira e
il meccanismo gracchia una
musichetta blesa. La
tua promessa di muscoli e denti ci
conforta della forfora e
degli scricchiolii gottosi e
della nostra matematica grulla che
insegue i numeretti come
insettini zampettanti su
e giù per i conti correnti. Mon petit, mon enfant, quale filosofia uguaglierà
il tuo alfabeto? Quali
meravigliosi conigli usciranno
dai tuoi cilindri? Bisognerà che tu ne abbia uno
per stagione
come
i ballerini di tip-tap per
calcare i palcoscenici di provincia. Ma
tu affrettati, figlio, a rifrangermi
la tua intesa dallo specchio del mattino.
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Posati
in cortili di mezza luce,
c'è
da intuirli nell'umidore
dei
ragnateli di cantine e balaustre
o
su sontuosi letti d'ottone
(dove
immestirono vergini grinzose)
o
mentre covano - imparziali -
cofani
lucidati di travet o
magnaccia:
al
bugiardo oggi estranei,
ghiotti
di lardo e di luna,
son
la consorteria
dell'ognuno
per sé.
Arcani
antennisti o sacerdoti
d'un
dio fragile e seducente
che
non so nominare.
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Senza il fardello di una coscienza in bilico su un silenzio casuale nell'aria irreprensibile di una vertigine antica fumo e mi godo la mia maturità. Nulla più del primo pomeriggio che fa capolino tra il rimescolio dei pensieri in un lavello unto.
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O
mia luna, lunatika luna felina
e scodinzolosa come
un piccolo samba zeppo
di bugie e promesse vorrei
avere in tasca la clip per
fissarti in cima a questa notte senza
l'alito dei miti così
esausta d'estate da
colmarsi in una solitudine di lucciola cinquantenne
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Con
tenacia discreta, insinuo altre
carezze fra collo e nuca. Fratello
Eros, allegria sottile dove
non ha parte il lacerarsi (ricordi
di spossata tenerezza) - quale
liana migliore per
attraversare l'ottusa città?
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E
sia infima, inutile, avara, la
traccia che lasceremo, e
quanto di più simile alle
rughe d'una gitana nel
metallo di quest'autunno così
atlantico da screpolare il cuore: orizzonte
di troppe Afriche per
un'Europa lebbrosa e zitta, in
fondo a un Chivas con ghiaccio, nemica
a se stessa e alla razza - sonnolenta
e rapace - dei
picari e conquistadores. Sia
il silenzio del falco, la traccia, o
lo spasmo del lampo curioso
di piogge lavanderine scendenti per la Rua de Alfama. Troverà
pure un approccio con occhi
fenici, filosofi d'Arabia, o
con Yanez rimpatriato per
troppo Borneo, ovvero per
improbabile vecchiaia. Non
consentiremo alla ragione di
seguirci: c'invada
questa città amara
di salsedine e canzoni e lue (siccome
amoreggiò con ogni specie d'uomini) e
ci fasci della sua malinconia d'esser
solo un'idea lasciata
dipanare in memoria d'antichi dei.
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