Pier Paolo Pasolini 

 

 La vita - Le ceneri di Gramsci - Poesie in friulano

 




Non è di maggio questa impura aria 
che il buio giardino straniero 
fa ancora più buio, o l'abbaglia 

con cieche schiarite... questo cielo 
di bave sopra gli attici giallini 
che in semicerchi immensi fanno velo 

alle curve del Tevere, ai turchini 
monti del Lazio... Spande una mortale 
pace, disamorata come i nostri destini, 

tra le vecchie muraglie l'autunnale 
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo, 
la fine del decennio in cui ci appare 

tra le macerie finito il profondo 
e ingenuo sforzo di rifare la vita; 
il silenzio, fradicio e infecondo... 

Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore 
era ancora vita, in quel maggio italiano 
che alla vita aggiungeva almeno ardore, 

quanto meno sventato e impuramente 
sano 
dei nostri padri - non padre, ma umile 
fratello - già con la tua magra mano 

delineavi l'ideale che illumina 

(ma non per noi: tu morto, e noi 
morti ugualmente, con te, nell'umido 

giardino) questo silenzio. Non puoi, 
lo vedi?, che riposare in questo sito 
estraneo, ancora confinato. Noia 

patrizia ti è intorno. E, sbiadito, 
solo ti giunge qualche colpo d'incudine 
dalle officine di Testaccio, sopito 

nel vespro: tra misere tettoie, nudi 
mucchi di latta, ferrivecchi, dove 
cantando vizioso un garzone già chiude 

la sua giornata, mentre intorno spiove. 

 

 


II 

Tra i due mondi, la tregua, in cui non 
siamo. 
Scelte, dedizioni... altro suono non hanno 
ormai che questo del giardino gramo 

e nobile, in cui caparbio l'inganno 
che attutiva la vita resta nella morte. 
Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno 

che mostrare la superstite sorte 
di gente laica le laiche iscrizioni 
in queste grigie pietre, corte 

e imponenti. Ancora di passioni 
sfrenate senza scandalo son arse 
le ossa dei miliardari di nazioni 

più grandi; ronzano, quasi mai 
scomparse, 
le ironie dei principi, dei pederasti, 
i cui corpi sono nell'urne sparse 

inceneriti e non ancora casti. 
Qui il silenzio della morte è fede 
di un civile silenzio di uomini rimasti 

uomini, di un tedio che nel tedio 
del Parco, discreto muta: e la città 
che, indifferente, lo confina in mezzo 

a tuguri e a chiese, empia nella pietà, 
vi perde il suo splendore. La sua terra 
grassa di ortiche e di legumi dà 

questi magri cipressi, questa nera 
umidità che chiazza i muri intorno 
a smotti ghirigori di bosso, che la sera 

rasserenando spegne in disadorni 
sentori d'alga... quest'erbetta stenta 
e inodora, dove violetta si sprofonda 

l'atmosfera, con un brivido di menta, 
o fieno marcio, e quieta vi prelude 
con diurna malinconia, la spenta 

trepidazione della notte. Rude 
di clima, dolcissimo di storia, è 
tra questi muri il suolo in cui trasuda 

altro suolo; questo umido che 
ricorda altro umido; e risuonano 
- familiari da latitudini e 

orizzonti dove inglesi selve coronano 
laghi spersi nel cielo, tra praterie 
verdi come fosforici biliardi o come 

smeraldi: "And O ye Fountains..." - le pie 
invocazioni... 

 

 

 


III 

Uno straccetto rosso, come quello 
arrotolato al collo ai partigiani 
e, presso l'urna, sul terreno cereo, 

diversamente rossi, due gerani. 
Lì tu stai, bandito e con dura eleganza 
non cattolica, elencato tra estranei 

morti: Le ceneri di Gramsci... Tra 
speranza 
e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato 
per caso in questa magra serra, innanzi 

alla tua tomba, al tuo spirito restato 
quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa 
di diverso, forse, di più estasiato 

e anche di più umile, ebbra simbiosi 
d'adolescente di sesso con morte...) 
E, da questo paese in cui non ebbe posa 

la tua tensione, sento quale torto 
- qui nella quiete delle tombe - e insieme 
quale ragione - nell'inquieta sorte 

nostra - tu avessi stilando le supreme 
pagine nei giorni del tuo assassinio. 
Ecco qui ad attestare il seme 

non ancora disperso dell'antico dominio, 
questi morti attaccati a un possesso 
che affonda nei secoli il suo abominio 

e la sua grandezza: e insieme, ossesso, 
quel vibrare d'incudini, in sordina, 
soffocato e accorante - dal dimesso 

rione - ad attestarne la fine. 
Ed ecco qui me stesso... povero, vestito 
dei panni che i poveri adocchiano in 
vetrine 

dal rozzo splendore, e che ha smarrito 
la sporcizia delle più sperdute strade, 
delle panche dei tram, da cui stranito 

è il mio giorno: mentre sempre più rade 
ho di queste vacanze, nel tormento 
del mantenermi in vita; e se mi accade 

di amare il mondo non è che per violento 
e ingenuo amore sensuale 
così come, confuso adolescente, un tempo 

l'odiai, se in esso mi feriva il male 
borghese di me borghese: e ora, scisso 
- con te - il mondo, oggetto non appare 

di rancore e quasi di mistico 
disprezzo, la parte che ne ha il potere? 
Eppure senza il tuo rigore, sussisto 

perché non scelgo. Vivo nel non volere 
del tramontato dopoguerra: amando 
il mondo che odio - nella sua miseria 

sprezzante e perso - per un oscuro 
scandalo 
della coscienza... 

 

 



IV


Lo scandalo del contraddirmi, 
dell'essere 
con te e contro te; con te nel core, 
in luce, contro te nelle buie viscere; 

del mio paterno stato traditore 
- nel pensiero, in un'ombra di azione - 
mi so ad esso attaccato nel calore 

degli istinti, dell'estetica passione; 
attratto da una vita proletaria 
a te anteriore, è per me religione 

la sua allegria, non la millenaria 
sua lotta: la sua natura, non la sua 
coscienza: è la forza originaria 

dell'uomo, che nell'atto s'è perduta, 
a darle l'ebbrezza della nostalgia, 
una luce poetica: ed altro più 

io non so dirne, che non sia 
giusto ma non sincero, astratto 
amore, non accorante simpatia... 

Come i poveri povero, mi attacco 
come loro a umilianti speranze, 
come loro per vivere mi batto 

ogni giorno. Ma nella desolante 
mia condizione di diseredato, 
io possiedo: ed è il più esaltante 

dei possessi borghesi, lo stato 
più assoluto. Ma come io possiedo la 
storia, 
essa mi possiede; ne sono illuminato: 

ma a che serve la luce? 

 

 



V


Non dico l'individuo, il fenomeno 
dell'ardore sensuale e sentimentale... 
altri vizi esso ha, altro è il nome 

e la fatalità del suo peccare... 
Ma in esso impastati quali comuni, 
prenatali vizi, e quale 

oggettivo peccato! Non sono immuni 
gli interni e esterni atti, che lo fanno 
incarnato alla vita, da nessuna 

delle religioni che nella vita stanno, 
ipoteca di morte, istituite 
a ingannare la luce, a dar luce 
all'inganno. 
Destinate a esser seppellite 
le sue spoglie al Verano, è cattolica 
la sua lotta con esse: gesuitiche 

le manie con cui dispone il cuore; 
e ancor più dentro: ha bibliche astuzie 
la sua coscienza... e ironico ardore 

liberale... e rozza luce, tra i disgusti 
di dandy provinciale, di provinciale 
salute... Fino alle infime minuzie 

in cui sfumano, nel fondo animale, 
Autorità e Anarchia... Ben protetto 
dall'impura virtù e dall'ebbro peccare, 

difendendo una ingenuità di ossesso, 
e con quale coscienza!, vive l'io: io, 
vivo, eludendo la vita, con nel petto 

il senso di una vita che sia oblio 
accorante, violento... Ah come 
capisco, muto nel fradicio brusio 

del vento, qui dov'è muta Roma, 
tra i cipressi stancamente sconvolti, 
presso te, l'anima il cui graffito suona 

Shelley... Come capisco il vortice 
dei sentimenti, il capriccio (greco 
nel cuore del patrizio, nordico 

villeggiante) che lo inghiottì nel cieco 
celeste del Tirreno; la carnale 
gioia dell'avventura, estetica 

e puerile: mentre prostrata l'Italia 
come dentro il ventre di un'enorme 
cicala, spalanca bianchi litorali, 

sparsi nel Lazio di velate torme 
di pini, barocchi, di giallognole 
radure di ruchetta, dove dorme 

brillano i rari autobus del quartiere, 
con grappoli d'operai agli sportelli, 
e gruppi di militari vanno, senza fretta, 

verso il monte che cela in mezzo a sterri 
fradici e mucchi secchi d'immondizia 
nell'ombra, rintanate zoccolette 

che aspettano irose sopra la sporcizia 
afrodisiaca: e, non lontano, tra casette 
abusive ai margini del monte, o in mezzo 

a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi 
leggeri come stracci giocano alla brezza 
non più fredda, primaverile; ardenti 

di sventatezza giovanile la romanesca 
loro sera di maggio scuri adolescenti 
fischiano pei marciapiedi, nella festa 

vespertina; e scrosciano le 
saracinesche 
dei garages di schianto, gioiosamente, 
se il buio ha resa serena la sera, 

e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio 
il vento che cade in tremiti di bufera, 
è ben dolce, benché radendo i capellacci 

e i tufi del Macello, vi si imbeva 
di sangue marcio, e per ogni dove 
agiti rifiuti e odore di miseria. 

È un brusio la vita, e questi persi 
in essa, la perdono serenamente, 
se il cuore ne hanno pieno: a godersi 

eccoli, miseri, la sera: e potente 
in essi, inermi, per essi, il mito 
rinasce... Ma io, con il cuore cosciente 

di chi soltanto nella storia ha vita, 
potrò mai più con pura passione operare, 
se so che la nostra storia è finita? 

 


1954 
Gramsci è sepolto in una piccola tomba del Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. Sul cippo si leggono solo le parole: "Cinera Gramsci" con le date. 

Il pianto della scavatrice 

 





Solo l'amare, solo il conoscere 
conta, non l'aver amato, 
non l'aver conosciuto. Dà angoscia 

il vivere di un consumato 
amore. L'anima non cresce più. 
Ecco nel calore incantato 

della notte che piena quaggiù 
tra le curve del fiume e le sopite 
visioni della città sparsa di luci, 

scheggia ancora di mille vite, 
disamore, mistero, e miseria 
dei sensi, mi rendono nemiche 
le forme del mondo, che fino a ieri 
erano la mia ragione d'esistere. 
Annoiato, stanco, rincaso, per neri 

piazzali di mercati, tristi 
strade intorno al porto fluviale, 
tra le baracche e i magazzini misti 

agli ultimi prati. Lì mortale 
è il silenzio: ma giù, a viale Marconi, 
alla stazione di Trastevere, appare 

ancora dolce la sera. Ai loro rioni, 
alle loro borgate, tornano su motori 
leggeri - in tuta o coi calzoni 

di lavoro, ma spinti da un festivo ardore 
i giovani, coi compagni sui sellini, 
ridenti, sporchi. Gli ultimi avventori 

chiacchierano in piedi con voci 
alte nella notte, qua e là, ai tavolini 
dei locali ancora lucenti e semivuoti. 

Stupenda e misera città, 
che m'hai insegnato ciò che allegri e 
feroci 
gli uomini imparano bambini, 

le piccole cose in cui la grandezza 
della vita in pace si scopre, come 
andare duri e pronti nella ressa 

delle strade, rivolgersi a un altro uomo 
senza tremare, non vergognarsi 
di guardare il denaro contato 

con pigre dita dal fattorino 
che suda contro le facciate in corsa 
in un colore eterno d'estate; 

a difendermi, a offendere, ad avere 
il mondo davanti agli occhi e non 
soltanto in cuore, a capire 

che pochi conoscono le passioni 
in cui io sono vissuto: 
che non mi sono fraterni, eppure sono 

fratelli proprio nell'avere 
passioni di uomini 
che allegri, inconsci, interi 

vivono di esperienze 
ignote a me. Stupenda e misera 
città che mi hai fatto fare 

esperienza di quella vita 
ignota: fino a farmi scoprire 
ciò che, in ognun, era il mondo. 

Una luna morente nel silenzio, 
che di lei vive, sbianca tra violenti 
ardori, che miseramente sulla terra 

muta di vita, coi bei viali, le vecchie 
viuzze, senza dar luce abbagliano 
e, in tutto il mondo, le riflette 

lassù, un po' di calda nuvolaglia. 
È la notte più bella dell'estate. 
Trastevere, in un odore di paglia 

di vecchie stalle, di svuotate 
osterie, non dorme ancora. 
Gli angoli bui, le pareti placide 

risuonano d'incantati rumori. 
Uomini e ragazzi se ne tornano a casa 
- sotto festoni di luci ormai sole - 

verso i loro vicoli, che intasano 
buio e immondizia, con quel passo blando 
da cui più l'anima era invasa 

quando veramente amavo, quando 
veramente volevo capire. 
E, come allora, scompaiono cantando. 

 

 

 


II 

Povero come un gatto del Colosseo, 
vivevo in una borgata tutta calce 
e polverone, lontano dalla città 

e dalla campagna, stretto ogni giorno 
in un autobus rantolante: 
e ogni andata, ogni ritorno 

era un calvario di sudore e di ansie. 
Lunghe camminate in una calda caligine, 
lunghi crepuscoli davanti alle carte 

ammucchiate sul tavolo, tra strade di 
fango, 
muriccioli, casette bagnate di calce 
e senza infissi, con tende per porte... 

Passano l'olivaio, lo straccivendolo, 
venendo da qualche altra borgata, 
con l'impolverata merce che pareva 

frutto di furto, e una faccia crudele 
di giovani invecchiati tra i vizi 
di chi ha una madre dura e affamata. 

Rinnovato dal mondo nuovo, 
libero - una vampa, un fiato 
che non so dire, alla realtà 

che umile e sporca, confusa e immensa, 
brulicava nella meridionale periferia, 
dava un senso di serena pietà. 

Un'anima in me, che non era solo mia, 
una piccola anima in quel mondo 
sconfinato, 
cresceva, nutrita dall'allegria 

di chi amava, anche se non riamato. 
E tutto si illuminava, a questo amore. 
Forse ancora di ragazzo, eroicamente, 

e però maturato dall'esperienza 
che nasceva ai piedi della storia. 
Ero al centro del mondo, in quel mondo 

di borgate tristi, beduine, 
di gialle praterie sfregate 
da un vento sempre senza pace, 

venisse dal caldo mare di Fiumicino, 
o dall'agro, dove si perdeva 
la città fra i tuguri; in quel mondo 

che poteva soltanto dominare, 
quadrato spettro giallognolo 
nella giallognola foschia, 

bucato da mille file uguali 
di finestre sbarrate, il Penitenziario 
tra vecchi campi e sopiti casali. 

Le cartacce e la polvere che cieco 
il venticello trascinava qua e là, 
le povere voci senza eco 

di donnette venute dai monti 
Sabini, dall'Adriatico, e qua 
accampate, ormai con torme 

di deperiti e duri ragazzini 
stridenti nelle canottiere a pezzi, 
nei grigi, bruciati calzoncini, 

i soli africani, le piogge agitate 
che rendevano torrenti di fango 
le strade, gli autobus ai capolinea 

affondati nel loro angolo 
tra un'ultima striscia d'erba bianca 
e qualche acido, ardente immondezzaio... 

era il centro del mondo, com'era 
al centro della storia il mio amore 
per esso: e in questa 

maturità che per essere nascente 
era ancora amore, tutto era 
per divenire chiaro - era, 

chiaro! Quel borgo nudo al vento, 
non romano, non meridionale, 
non operaio, era la vita 

nella sua luce più attuale: 
vita, e luce della vita, piena 
nel caos non ancora proletario, 

come la vuole il rozzo giornale 
della cellula, l'ultimo 
sventolio del rotocalco: osso 

dell'esistenza quotidiana, 
pura, per essere fin troppo 
prossima, assoluta per essere 

fin troppo miseramente umana. 

 

 

 



III 

E ora rincaso, ricco di quegli anni 
così nuovi che non avrei mai pensato 
di saperli vecchi in un'anima 

a essi lontana, come a ogni passato. 
Salgo i viali del Gianicolo, fermo 
da un bivio liberty, a un largo alberato, 

a un troncone di mura - ormai al termine 
della città sull'ondulata pianura 
che si apre sul mare. E mi rigermina 

nell'anima - inerte e scura 
come la notte abbandonata al profumo 
una semenza ormai troppo matura 

per dare ancora frutto, nel cumulo 
di una vita tornata stanca e acerba... 
Ecco Villa Pamphili, e nel lume 

che tranquillo riverbera 
sui nuovi muri, la via dove abito. 
Presso la mia casa, su un'erba 

ridotta a un'oscura bava, 
una traccia sulle voragini scavate 
di fresco, nel tufo - caduta ogni rabbia 

di distruzione - rampa contro radi palazzi 
e pezzi di cielo, inanimata, 
una scavatrice... 

Che pena m'invade, davanti a questi 
attrezzi 
supini, sparsi qua e là nel fango, 
davanti a questo canovaccio rosso 

che pende a un cavalletto, nell'angolo 
dove la notte sembra più triste? 
Perché, a questa spenta tinta di sangue, 

la mia coscienza così ciecamente resiste, 
si nasconde, quasi per un ossesso 
rimorso che tutta, nel fondo, la contrista? 

Perché dentro in me è lo stesso senso 
di giornate per sempre inadempite 
che è nel morto firmamento 

in cui sbianca questa scavatrice? 

Mi spoglio in una delle mille stanze 
dove a via Fonteiana si dorme. 
Su tutto puoi scavare, tempo: speranze 

passioni. Ma non su queste forme 
pure della vita... Si riduce 
ad esse l'uomo, quando colme 

siano esperienza e fiducia 
nel mondo... Ah, giorni di Rebibbia, 
che io credevo persi in una luce 

di necessità, e che ora so così liberi! 

Insieme al cuore, allora, pei difficili 
casi che ne avevano sperduto 
il corso verso un destino umano, 

guadagnando in ardore la chiarezza 
negata, e in ingenuità 
il negato equilibrio - alla chiarezza 

all'equilibrio giungeva anche, 
in quei giorni, la mente. E il cieco 
rimpianto, segno di ogni mia 

lotta col mondo, respingevano, ecco, 
adulte benché inesperte ideologie... 
Si faceva, il mondo, soggetto 

non più di mistero ma di storia. 
Si moltiplicava per mille la gioia 
del conoscerlo - come 

ogni uomo, umilmente, conosce. 
Marx o Gobetti, Gramsci o Croce, 
furono vivi nelle vive esperienze. 

Mutò la materia di un decennio d'oscura 
vocazione, se mi spesi a far chiaro ciò 
che più pareva essere ideale figura 

a una ideale generazione; 
in ogni pagina, in ogni riga 
che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia, 

c'era quel fervore, quella presunzione, 
quella gratitudine. Nuovo 
nella mia nuova condizione 

di vecchio lavoro e di vecchia miseria, 
i pochi amici che venivano 
da me, nelle mattine o nelle sere 

dimenticate sul Penitenziario, 
mi videro dentro una luce viva: 
mite, violento rivoluzionario 

nel cuore e nella lingua. Un uomo fioriva 

 

 

 


IV 

Mi stringe contro il suo vecchio vello, 
che profuma di bosco, e mi posa 
il muso con le sue zanne di verro 

o errante orso dal fiato di rosa, 
sulla bocca: e intorno a me la stanza 
è una radura, la coltre corrosa 

dagli ultimi sudori giovanili, danza 
come un velame di pollini... E infatti 
cammino per una strada che avanza 

tra i primi prati primaverili, sfatti 
in una luce di paradiso... 
Trasportato dall'onda dei passi, 

questa che lascio alle spalle, lieve e 
misero, 
non è la periferia di Roma: "Viva 
Mexico!" è scritto a calce o inciso 

sui ruderi dei templi, sui muretti ai bivii, 
decrepiti, leggeri come osso, ai confini 
di un bruciante cielo senza un brivido. 

Ecco, in cima a una collina 
fra le ondulazioni, miste alle nubi, 
di una vecchia catena appenninica, 

la città, mezza vuota, benché sia l'ora 
della mattina, quando vanno le donne 
alla spesa - o del vespro che indora 

i bambini che corrono con le mamme 
fuori dai cortili della scuola. 
Da un gran silenzio le strade sono invase: 

si perdono i selciati un po' sconnessi, 
vecchi come il tempo, grigi come il 
tempo, 
e due lunghi listoni di pietra 

corrono lungo le strade, lucidi e spenti. 
Qualcuno, in quel silenzio, si muove: 
qualche vecchia, qualche ragazzetto 

perduto nei suoi giuochi, dove 
i portali di un dolce Cinquecento 
s'aprano sereni, o un pozzetto 

con bestioline intarsiate sui bordi 
posi sopra la povera erba, 
in qualche bivio o canto dimenticato. 

Si apre sulla cima del colle l'erma 
piazza del comune, e fra casa 
e casa, oltre un muretto, e il verde 

d'un grande castagno, si vede 
lo spazio della valle: ma non la valle. 
Uno spazio che tremola celeste 

o appena cereo... Ma il Corso continua, 
oltre quella familiare piazzetta 
sospesa nel cielo appenninico: 

s'interna fra case più strette, scende 
un po' a mezza costa: e più in basso 
- quando le barocche casette diradano 

ecco apparire la valle - e il deserto. 
Ancora solo qualche passo 
verso la svolta, dove la strada 

è già tra nudi praticelli erti 
e ricciuti. A manca, contro il pendio, 
quasi fosse crollata la chiesa, 

si alza gremita di affreschi, azzurri, 
rossi, un'abside, pesta di volute 
lungo le cancellate cicatrici 

del crollo - da cui soltanto essa, 
l'immensa conchiglia, sia rimasta 
a spalancarsi contro il cielo. 

È lì, da oltre la valle, dal deserto, 
che prende a soffiare un'aria, lieve, 
disperata, 
che incendia la pelle di dolcezza... 

È come quegli odori che, dai campi 
bagnati di fresco, o dalle rive di un 
fiume, 
soffiano sulla città nei primi 

giorni di bel tempo: e tu 
non li riconosci, ma impazzito 
quasi di rimpianto, cerchi di capire 

se siano di un fuoco acceso sulla brina, 
oppure di uve o nespole perdute 
in qualche granaio intiepidito 

dal sole della stupenda mattina. 
Io grido di gioia, così ferito 
in fondo ai polmoni da quell'aria 

che come un tepore o una luce 
respiro guardando la vallata 

 

 

 





Un po' di pace basta a rivelare 
dentro il cuore l'angoscia, 
limpida, come il fondo del mare 

in un giorno di sole. Ne riconosci, 
senza provarlo, il male 
lì, nel tuo letto, petto, cosce 

e piedi abbandonati, quale 
un crocifisso - o quale Noè 
ubriaco, che sogna, ingenuamente ignaro 

dell'allegria dei figli, che 
su lui, i forti, i puri, si divertono... 
il giorno è ormai su di te, 

nella stanza come un leone dormente. 

Per quali strade il cuore 
si trova pieno, perfetto anche in questa 
mescolanza di beatitudine e dolore? 

Un po' di pace... E in te ridesta 
è la guerra, è Dio. Si distendono 
appena le passioni, si chiude la fresca 

ferita appena, che già tu spendi 
l'anima, che pareva tutta spesa, 
in azioni di sogno che non rendono 

niente... Ecco, se acceso 
alla speranza - che, vecchio leone 
puzzolente di vodka, dall'offesa 

sua Russia giura Krusciov al mondo - 
ecco che tu ti accorgi che sogni. 
Sembra bruciare nel felice agosto 

di pace, ogni tua passione, ogni 
tuo interiore tormento, 
ogni tua ingenua vergogna 

di non essere - nel sentimento - 
al punto in cui il mondo si rinnova. 
Anzi, quel nuovo soffio di vento 

ti ricaccia indietro, dove 
ogni vento cade: e lì, tumore 
che si ricrea, ritrovi 

il vecchio crogiolo d'amore, 
il senso, lo spavento, la gioia. 
E proprio in quel sopore 

è la luce... in quella incoscienza 
d'infante, d'animale o ingenuo libertino 
è la purezza... i più eroici 

furori in quella fuga, il più divino 
sentimento in quel basso atto umano 
consumato nel sonno mattutino. 

 

 

 


VI 

Nella vampa abbandonata 
del sole mattutino - che riarde, 
ormai, radendo i cantieri, sugli infissi 

riscaldati - disperate 
vibrazioni raschiano il silenzio 
che perdutamente sa di vecchio latte, 

di piazzette vuote, d'innocenza. 
Già almeno dalle sette, quel vibrare 
cresce col sole. Povera presenza 

d'una dozzina d'anziani operai, 
con gli stracci e le canottiere arsi 
dal sudore, le cui voci rare, 

le cui lotte contro gli sparsi 
blocchi di fango, le colate di terra, 
sembrano in quel tremito disfarsi. 

Ma tra gli scoppi testardi della 
benna, che cieca sembra, cieca 
sgretola, cieca afferra, 

quasi non avesse meta, 
un urlo improvviso, umano, 
nasce, e a tratti si ripete, 

così pazzo di dolore, che, umano, 
subito non sembra più, e ridiventa 
morto stridore. Poi, piano, 

rinasce, nella luce violenta, 
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale, 
urlo che solo chi è morente, 

nell'ultimo istante, può gettare 
in questo sole che crudele ancora splende 
già addolcito da un po' d'aria di mare... 

A gridare è, straziata 
da mesi e anni di mattutini 
sudori - accompagnata 

dal muto stuolo dei suoi scalpellini, 
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il 
fresco 
sterro sconvolto, o, nel breve confine 

dell'orizzonte novecentesco, 
tutto il quartiere... È la città, 
sprofondata in un chiarore di festa, 

- è il mondo. Piange ciò che ha 
fine e ricomincia. Ciò che era 
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa 

cortile, bianco come cera, 
chiuso in un decoro ch'è rancore; 
ciò che era quasi una vecchia fiera 

di freschi intonachi sghembi al sole, 
e si fa nuovo isolato, brulicante 
in un ordine ch'è spento dolore. 

Piange ciò che muta, anche 
per farsi migliore. La luce 
del futuro non cessa un solo istante 

di ferirci: è qui, che brucia 
in ogni nostro atto quotidiano, 
angoscia anche nella fiducia 

che ci dà vita, nell'impeto gobettiano 
verso questi operai, che muti innalzano, 
nel rione dell'altro fronte umano, 

il loro rosso straccio di speranza. 

1956 

 


 

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col sole. Povera presenza 

d'una dozzina d'anziani operai, 
con gli stracci e le canottiere arsi 
dal sudore, le cui voci rare, 

le cui lotte contro gli sparsi 
blocchi di fango, le colate di terra, 
sembrano in quel tremito disfarsi. 

Ma tra gli scoppi testardi della 
benna, che cieca sembra, cieca 
sgretola, cieca afferra, 

quasi non avesse meta, 
un urlo improvviso, umano, 
nasce, e a tratti si ripete, 

così pazzo di dolore, che, umano, 
subito non sembra più, e ridiventa 
morto stridore. Poi, piano, 

rinasce, nella luce violenta, 
tra i palazzi accecati, nuovo, uguale, 
urlo che solo chi è morente, 

nell'ultimo istante, può gettare 
in questo sole che crudele ancora splende 
già addolcito da un po' d'aria di mare... 

A gridare è, straziata 
da mesi e anni di mattutini 
sudori - accompagnata 

dal muto stuolo dei suoi scalpellini, 
la vecchia scavatrice: ma, insieme, il 
fresco 
sterro sconvolto, o, nel breve confine 

dell'orizzonte novecentesco, 
tutto il quartiere... È la città, 
sprofondata in un chiarore di festa, 

- è il mondo. Piange ciò che ha 
fine e ricomincia. Ciò che era 
area erbosa, aperto spiazzo, e si fa 

cortile, bianco come cera, 
chiuso in un decoro ch'è rancore; 
ciò che era quasi una vecchia fiera 

di freschi intonachi sghembi al sole, 
e si fa nuovo isolato, brulicante 
in un ordine ch'è spento dolore. 

Piange ciò che muta, anche 
per farsi migliore. La luce 
del futuro non cessa un solo istante 

di ferirci: è qui, che brucia 
in ogni nostro atto quotidiano, 
angoscia anche nella fiducia 

che ci dà vita, nell'impeto gobettiano 
verso questi operai, che muti innalzano, 
nel rione dell'altro fronte umano, 

il loro rosso straccio di speranza. 

1956 

 


 

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