Racconti della serie : Affari di famiglia
ZIA TERESA | LIVIO: UN CARATTERINO! | AGENZIA A PICCO ! | UN NUOVO COMMERCIO | SCUOLA ADDIO ! | PAPA’ TROVA UN NUOVO IMPIEGO |
ZIA
TERESA Già da qualche tempo si era trasferita a Milano, in un vasto ed elegante appartamento di Via Abbondio Sangiorgio, una sorella di mio padre, col proprio marito: una coppia benestante, proveniente da Napoli. Lui, alto, distinto, ex ufficiale degli alpini, era giunto nella nostra città per ricoprire l’incarico di Direttore Generale di una grande azienda di acque minerali. La Zia, pure lei alta ed elegante, anche se un po’ tozza, e con l’eterna sigaretta accesa nel lungo bocchino; appariva formalmente cordiale e molto religiosa; questo, se non altro, per il suo frequente intercalare di richiami all’Eterno, nel parlare e nello scrivere. Di nome Teresa; ma in famiglia la chiamavano Teresina, essendo la più giovane di dieci fratelli e sorelle; la ricca Zia disponeva di un’anziana amica al seguito, con funzioni di dama di compagnia, oltre a una cameriera, e a un’automobile con relativo autista. Non aveva quindi problemi da risolvere per il vivere quotidiano, salvo quello di dare ordini ai dipendenti, e di frequentare la chiesa. L’abbondante tempo libero, lo occupava tenendo uno stretto rapporto epistolare, con i suoi congiunti di Venezia, città d’origine, e di altri capoluoghi in Italia e nel mondo. Arrivata a Milano, intraprese naturalmente frequenti contatti diretti con la mia famiglia, e in maniera particolare con mia madre e mia sorella, con cui si intratteneva volentieri per ore a ciacolar. Andavamo più che altro noi a farle visita in Via Abbondio Sangiorgio, perché suo marito lo si vedeva di rado, essendo spesso in viaggio tra Milano e Roma per affari. Con noi nipoti, la Zia si comportava molto gentilmente. Quando si andava a casa sua, io non mi facevo certo pregare, sia perché aveva nel salone una pianola, della quale mi divertiva approfittare, sia per la sua abilità nell’ammannire la crostata di lasagne e altre eccellenti specialità, come la cassata siciliana. Zio Romeo, era una persona compita, ma molto riservata con tutti, moglie compresa, sì che noi in famiglia, agli inizi ci chiedevamo che genere di rapporti, di là dal reciproco rispetto e affettata tenerezza, esistessero tra i coniugi. La discrezione imponeva che contenessimo le nostre impressioni. Del resto lo Zio era poco presente, anche quando non era in viaggio, tanto che non ricordo, sia mai venuto in visita a casa nostra . Una volta, la Zia, invitò Renata ad una gita nel Bergamasco o nel Bresciano, non ricordo. Suo marito ci doveva andare per lavoro, con l’automobile della sua Società, una "Balilla", e penso, ch’egli si prestò di buon grado, ad accompagnare anche la nipote acquisita; per accondiscendere a un desiderio della moglie, la quale era molto sensibile ai legami di parentela. In altra simile opportunità, fui io l’invitato. Il piacere di quel mio viaggio, si accompagnò tuttavia ad un senso di disagio, dovuto alla soggezione di trovarmi, solo, a fronteggiare due persone, sia pure parenti, ma importanti, conosciute di recente, e con cui avevo poca confidenza. Lo Zio non parlava, salvo l’indispensabile. Alla Zia, toccò quindi di stemperare l’atmosfera, e vi riuscì egregiamente. Arrivati alla meta, una mesta e silenziosa cittadina, scendemmo alle Terme, dove lo Zio ci lasciò al tavolo di un bar, davanti a cappuccini e brioches, dovendo recarsi presso alcuni uffici. Al suo ritorno riprendemmo la "Balilla", diretti al ristorante di un Grand Hotel, il quale, per le sue argenterie, le portate, e la compostezza del maître e del personale di servizio, mi ricordò malinconicamente quello che, un tempo, mi ospitò a Levanto. Poi lo Zio si assentò nuovamente, e con Zia Teresina, passeggiammo per i viali a guardare le vetrine dei negozi. In una pasticceria, ella mi comprò un’ enorme scatola di biscotti, da portare a casa. Avevamo appuntamento con lo Zio, in una certa piazza, e lì, lo trovammo ad attenderci con l’automobile. Il sole era basso, quando rientrammo a Milano. In una delle poche volte che trovammo lo Zio a casa Papà; che dopo aver lasciata la "Olivari & Castelli", progettava di aprire un’agenzia di spedizioni; gli chiese a quattr’occhi se, nella qualità di Direttore Generale della sua Società, avrebbe potuto, nell’eventualità, affidargli dei trasporti di acque minerali e altri prodotti. Zio, si mostrò stranamente molto interessato, e chiese qualche tempo per una risposta; ma la diede rapido pochi giorni dopo, con questo diktat: "Ti offro molto di più: un’esclusiva dei trasporti, a queste condizioni: a tue spese apri l’Agenzia, io ti sottoscrivo la concessione di tutte le spedizioni della mia Società e, a fine anno, da bravi soci, ci dividiamo gli utili fifty fifty.". L’affare era grosso, gli utili importanti, ma il lavoro bestiale e non retribuito, sarebbe stato esclusivamente a carico di mio padre. Sottinteso: prendere o lasciare! Nacque così, nei locali del negozio affittato sotto casa l’Agenzia, con magazzino nel cortile dello stabile. Attività: Spedizioni - Autotrasporti - Depositi; Milano, Via Alserio, 1 - Tel. 690.179. Il primo lavoro dell’Agenzia, fu quello di costituire rapidamente un elenco di corrispondenti di tutta Italia, soprattutto di padroncini trasportatori, con i quali si tratta direttamente, evitando lungaggini negli accordi, come invece avviene con le società. Papà, per questo, chiese collaborazione anche a noi figli; raccomandandoci: "Quando vedete per la città un autotreno, annotate ragione sociale, o nome della ditta, e indirizzo che, per lo più, sono leggibili sulla portiera della motrice; e riportatemi questi dati.". Io, presi l’impegno molto sul serio. Andando e tornando da scuola, avevo molte occasioni di incappare in un autotreno, talvolta fermo, talaltra in movimento e; notes e lapis alla mano; non me lo lasciavo scappare. Se lo vedevo dal tram, scendevo per l’incombenza (tanto ero abbonato); se lo notavo da lontano, correvo, nel timore che si mettesse in moto e mi sfuggisse. Tornando a casa consegnavo i foglietti a Papà, che trovavo indaffarato in ufficio. Mi indicava con indifferenza la sua scrivania: "Mettili là.". Mai che si lasciasse scappare un "Bravo!". Per consolarmi pensavo: "Se li trattiene vuol dire che gli servono.". Ma un giorno, parlando dei suoi affari con Zia Teresina, il mio austero genitore le affermò, non sapendo di essere da me udito: "Dei miei figli, l’unico che ha fatto un buon lavoro, nel portarmi molti indirizzi di autotrasportatori è stato Giorgio!". Ebbi una grande soddisfazione, con arrabbiatura annessa: "Mannaggia, Papà! Ma ti costava tanto, dirlo anche a me?". Per essere garantiti dal liquidare indennizzi, per evantuali danni subiti dalla merce durante il trasporto; si dovette stipulare un contratto con una Compagnia di Assicurazioni. L’iter era semplice: quando era prevista la partenza di un autotreno, si compilava un modulo con gli estremi della spedizione e lo si inviava per raccomandata all’assicuratore. Dalla mezzanotte successiva, la copertura diveniva attiva. Con l’Azienda delle acque minerali, divenuta nostra cliente, avevamo un unico punto di riferimento, per contatti di lavoro: una capoufficio della "Sezione Spedizioni". L’Amministratore unico della Società, era nondimeno a conoscenza, della relazione di parentela tra il titolare dell’Agenzia e il suo Direttore Generale; ma il fatto non aveva importanza, in quanto le tariffe convenzionate erano competitive. E sicuramente, mio Zio, si sarà guardato bene dall’accennare in Consiglio d’Amministrazione, al diktat fifty fifty, praticamente da lui imposto al cognato. Il nostro lavoro, si svolgeva, soprattutto, per telefono. La richiesta di un trasporto, ci veniva comunicata dalla Società. Noi interpellavamo in proposito gli uffici di recapito degli autotrasportatori e, col padroncino disponibile, l’affare veniva concluso. Non restava che dare la relativa conferma alla Società e stipulare la polizza assicurativa. Molti autotrenisti, dopo essere arrivati in città e svuotato il loro autoveicolo, telefonavano a noi direttamente, per chiedere se avevamo un carico disponibile. Questa la sintesi. Ovviamente, non mancavano le grane. Qualche padroncino, sapendo che il carico viaggiava assicurato, metteva meno scrupolo di quanto necessario, nel legare la merce all’ autoveicolo; o nel tener conto, durante il viaggio, delle condizioni ambientali. Uno sbandamento, e le cassette d’acqua minerale cadevano frantumandosi sulla strada; un ponte troppo basso, e la merce vi si squassava contro; una strada viscida, e l’autotreno finiva in un fosso. In ogni caso, il carico andava completamente perduto; perché l’incidente richiamava immancabilmente una folla di persone; uomini, donne, bambini; le quali, incuranti delle proteste degli autisti, si appropriavano di cassette e di bottiglie d’acqua o di bibite varie, risparmiate dal disastro. Per limitare quanto possibile il ripetersi di tali sinistri, la Compagnia assicurativa, d’accordo con noi, impose una franchigia a carico dei trasportatori, sulle liquidazioni dei danni. Dopo questo provvedimento, la frequenza degli incidenti diminuì sensibilmente. Arrivò l’estate, e il lavoro divenne massacrante. La gente beveva: acqua e bibite non dovevano mancare. Otto o dieci trasporti al giorno. Se un autotreno si fermava, per una qualsiasi ragione, lungo il suo percorso, una spedizione di rimpiazzo doveva immediatamente avvenire. Quell’anno, con Mamma e Renata andammo al mare a Lerici, sulla Riviera di levante. Papà, rimase a Milano, con le sue spedizioni. Non venne mai a trovarci. Non poteva. Nemmeno a Ferragosto! Con l’autunno, il lavoro riprese il suo normale trantran. A fine anno, in Agenzia si fecero i conti. Pagato il "pizzo" al suo caro cognato e "socio"; Papà, una sera, alla presenza di Mamma, nella loro camera, stese, affiancati sul letto matrimoniale, quattordici bigliettoni da mille lire, esclamando estasiato: "Varda Antonietta! Non go avuo mai tanti schei, tuti insieme, in vita mia!". (tr.: Guarda Antonietta! Non ho avuto tanti soldi, tutti insieme, nel corso della mia vita!) Una buona parte di quel denaro, egli la spese per organizzare la Ditta alla luce delle esperienze appena vissute; onde essere meglio preparato ad affrontare, nella ventura estate la prevista ondata di lavoro. Completò l’arredamento dell’Agenzia e attrezzò con scaffali l’intero magazzino, ma non trascurò di rinnovare, nel nostro appartamento, i mobili della sala e della camera matrimoniale; e di farsi costruire, da un amico di famiglia radiotecnico, una bella radio a sette valvole, con giradischi, in mobile di radica. "Così, nei momenti di riposo", sognò, "potrò ascoltarmi la ‘Cavalleria rusticana’ di Mascagni e i ‘Pagliacci’ del Leoncavallo.". Eravamo in gennaio. Marzo. L’Agenzia, continuava con i suoi trasporti: lavoro normale, di routine, ora che la macchina aziendale era stata messa a punto. L’onda di piena, era comunque ancora lontana nel tempo. Il benessere che aveva conseguito il buon andamento degli affari, aveva stimolato in me, l’interesse per i lavori d’ufficio di Papà, e nel tempo libero, gli davo una mano: c’era molto da imparare. Battevo lettere a macchina, rispondevo al telefono, compilavo i moduli per l’assicurazione dei trasporti: insomma assolvevo i piccoli lavori d’apprendistato.
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LIVIO:
UN CARATTERINO! In quel periodo, mio fratello, venticinquenne, lavorava come impiegato, all’INT, in quanto, quale ex dipendente della "Olivari & Castelli, aveva accettato l’offerta d’assunzione, con nuovo contratto, da parte di quell’Ente. Egli, di carattere piuttosto egoista e caparbio, aveva da tempo proposto e pattuito con Papà un accordo, secondo il quale, per i pasti e il pernottamento in casa nostra, versava un contributo mensile; naturalmente ben lontano dal corrispettivo in natura ricevuto. Io, lo vedevo a pranzo e a cena, quand’era presente, per lo stretto tempo necessario e, la notte, si fa per dire, in quanto dormivamo nella medesima cameretta. In famiglia era molto taciturno, e rispondeva con monosillabi; per non dare esca a rimproveri; alle domande che Mamma, tra un boccone e l’altro, ansiosa, gli poneva. Ma una volta, mia madre alzò la voce più del solito, giacché aveva saputo di una certa relazione, che il suo "beniamino" aveva in corso con una ragazza. Allora mio fratello, colpito nel segno, si alzò di scatto, rovesciando il suo piatto e, prendendo alle spalle la sedia di Mamma, la scosse violentemente più volte gridando: "Colpa tua, colpa tua, se son andà via!". A mio padre questo bastò, per intervenire energicamente, tanto che, alzatosi da tavola, e tremando per l’indignazione, urlò a mio fratello: "Quela xe la porta, ai pasti non voio vederte più, ti ga tre giorni, per trovarte da dormir da un’altra parte! Fora!". tr.: "Quella è la porta, ai pasti non ti voglio più vedere, hai tre giorni di tempo, per trovarti un alloggio da un'altra parte. Fuori!"). Erano altri tempi, in cui i figli non avevano ancora imparato ad accoltellare i genitori. Mio fratello uscì rabbioso, ma siccome, virtù di famiglia era la puntualità, entro i tre giorni prescritti, si trovò un alloggio al sesto piano di uno stabile, al numero 6 di Via Arnaldo da Brescia. Non poteva andar peggio! Da casa nostra, in linea d’aria, le finestre del suo appartamentino erano visibilissime, e Mamma passava ore e ore sul nostro balcone, con la speranza di intravedere il suo "beniamino". E qualche volta lo vedeva. Uno strazio! Nel nostro magazzino, Livio teneva, in deposito, la sua nuovissima bicicletta. Di un bel colore rosso Ferrari, da corsa, con manubrio ricurvo, palmer, cambio automatico e un sellino tanto sottile, da spaccare il perineo. Magnifica, ma Papà, la considerava un ordigno di morte. Qualche volta, io la provavo nei pochi metri del magazzino, di cui lasciavo la porta aperta, così da poter allungare il percorso, sconfinando nel cortile della casa. Bella e veloce, ma scomoda: questo il mio giudizio. Avvenne che, per affari della Ditta, mio padre si trovò nell’impiccio di dover inviare, alla Società, nostra cliente, un importante ed urgente plico di documenti. Non poteva per altro muoversi personalmente, per altri impegni. Era sulle spine. Con poca convinzione tentai: "Papà, potrei andare io, con la bici di Livio.". L’immediata risposa fu un: "Escluso, non se ne parla!", ma il tono, non era poi tanto perentorio. Tornai alla carica, ricordandogli che, quando pedalavo all’interno dello Scalo Farini, mai avevo avuto un incidente, e quanto alle sue riserve sulla bici da corsa, questa funzionava a pedali, come ogni altra. Bingo! La spuntai, ma con le immancabili raccomandazioni di rito. Infilai il plico sotto la cintura dei pantaloni, inforcai l’arnese e presi a volare felice, come un Tazio Nuvolari sulla sua Scat. Mio padre, al di fuori dell’ufficio, mi aveva guardato partire, pronunciando una frase, che non ricordo bene, ma che suonava a un dipresso così: "Non si può stare sempre in pena, per la sorte dei nostri figli, qualche volta bisogna mettersi nelle mani di Dio.". Rotto il ghiaccio, altre volte sbrigai commissioni con la bici da corsa, ma il mio pessimista genitore, per essere più tranquillo, finì per acquistarmene una da viaggio, usata. Durante una delle mie commissioni, mi trovai fermo al semaforo, in piazzale Oberdan. Uno sprovveduto automobilista, ritardando la frenata finì per investire la parte posteriore della mia bicicletta, scassandola. Accorse, da un vicino posteggio di libri, il titolare; e mi offri gentilmente la sua testimonianza. L’investitore non poté eclissarsi. Ebbi quindi agio, di annotare tutti i dati necessari a chiedere il risarcimento del danno: generalità della controparte, quelle del testimone volontario, numero di targa dell’autoveicolo, località e ora del sinistro. Dovetti poi trascinare i residui del mio veicolo, a piedi, fino al nostro Ufficio: diciamo tre chilometri. Giunto a casa, Papà preoccupato mi assalì: "Cos’è successo?". Risposi che ero stato investito, allora subito esclamò: "Ecco, cosa succede a fidarsi di te!". Gli dimostrai, documenti alla mano, la mia innocenza: mi guardò, tanto per non darmi ragione, con aria incredula. Alcuni giorni dopo, scrisse una raccomandata al mio investitore; quello non rispose; allora egli non andò da un legale, ma con i soldi che avrebbe speso per l’avvocato, mi acquistò una bicicletta nuova e ovviamente da viaggio. Con ciò, mi diede una grande lezione: qualche volta, nella vita, è più conveniente abbozzare! Ai primi d’Aprile, Zia Teresina telefonò a casa nostra: "Romeo, è stato male tutta la notte, stamani ho chiamato il medico, pare sia un fatto gastroenterico, gli ha dato un sedativo, e considerata la natura complessa dei sintomi, mi ha suggerito un immediato consulto: l’ho autorizzato a provvedere. Sono allarmata! Dio mi aiuti!". Una bomba in casa avrebbe fatto meno rumore. Sarà cinismo; ma alla salute dello Zio, di là dai sentimenti affettivi, era fortemente legata la sopravvivenza economica di sua moglie e della nostra famiglia. Papà, andò in visita al degente ogni giorno, e durante la sua assenza, in ufficio, per quanto nelle nostre possibilità, eravamo presenti io e Renata. Le cure non avevano efficacia, una sera rientrando, mio padre, che aveva ampie esperienze di guerra, dichiarò amaramente: "Così, come oggi l’ho visto, a questo punto, non se la cava. E’ finita!" Il giorno dopo Zio Romeo spirò. Aveva solo 44 anni. La Zia, sotto shock, continuava a ripetere: "Mio Dio, te lo offro! Mio Dio, te lo offro!", tanto che mia sorella, una ragazza schietta, commentò in casa, senza perifrasi: "La Zia continua a ripetere: ‘Mio Dio, te lo offro!’, ma cosa vuol offrire? Quello che Dio s’è già preso?". Ad organizzare le esequie pensò, a proprie spese, la Società di cui lo Zio era Direttore Generale. Zia Teresina, si trovò per questo contornata e confortata, dagli importanti amici e colleghi di suo marito. Gente che la mia famiglia, mai aveva avuto opportunità di conoscere per cui, alla cerimonia, mio padre ritenne di andarvi solo. Al funerale era presente, in gramaglie chic (qua e là torreggiava pure qualche tuba), tutta l’High Society imprenditoriale della città, compresi i blasonati azionisti di riferimento della Società. Fiori e corone, corone e fiori. Telegrammi a mucchi. Per corrente procedura, al corteo doveva partecipare; essendo stato l’estinto capitano degli alpini; un reparto di tale corpo, ma non essendo questo disponibile in città, fu inviato, in sostituzione, uno squadrone di cavalleria in alta uniforme. Una banda, segnava i lenti passi dei dolenti. Il lungo aristocratico corteo, partendo da Via Abbondio Sangiorgio, aggirò l’isolato, percorse il tratto finale di Corso Sempione, e si arrestò, in Via Mario Pagano, davanti alla Chiesa del Corpus Domini, per la solenne, lunga funzione religiosa. Al termine della cerimonia, un pullman era a disposizione, di chi, sprovvisto di auto, volesse accompagnare, il feretro al Cimitero Maggiore. La vedova vi andò, con la propria dama di compagnia, in autovettura, accompagnata da amici. Mio Papà si astenne: a sua sorella non mancavano i conforti.
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AGENZIA
A PICCO ! Pochi giorni dopo quel funereo evento, le importanti amicizie che si erano tanto prodigate a consolare la vedova, si sciolsero come neve al sole: era fatale. Toccò a mio padre quindi occuparsi, nell’interesse di sua sorella, dei molteplici affari rimasti in sospeso a causa della scomparsa dello Zio. D’altronde Zia Teresina, non capiva niente di cambiali, contratti, cedole, ricevute, azioni, ecc. Ella i capitali li sapeva spendere, non guadagnare. Per le avversità si affidava "al Signore, che tutto sa e che a tutto provvede.". Guardate le scartoffie del de cuius, Papà si allarmò. La vita agiata degli zii, si reggeva su una nuvola d’aria, come fosse un hovercraft: nessun patrimonio, né liquido né immobile. Per trattare quelle carte, con probabilità di successo, sarebbe occorso un faccendiere; e mio padre, con la sua correttezza e onestà, non era il tipo adatto. Riuscì a tacitare i creditori, ma non a ricuperare i crediti. Mia Zia, dovette al più presto disfare casa, realizzando un po’ di soldi, specialmente con la vendita di suoi effetti personali: gioielli, non tutti, pellicce, non tutte. Rimase a Milano il tempo necessario; poi si trasferì a Venezia, nella vecchia grande casa dei genitori, in cui viveva ancora sua madre, e una sua sorella, Elena. Qui s’impone una breve digressione. Mia Nonna, già da tempo vedova, e la Zia Elena, campavano prevalentemente dei contributi mensili che ricevevano da mio padre, e da qualche altro famigliare; insomma da quelli, tra tutti, che erano incapaci di accampare scuse, per eludere il proprio senso del dovere. Questi bravi figli, in compenso, ricevevano dalle due assistite e religiosissime congiunte, continue, lamentose sollecitazioni, ad aumentare gli aiuti. L’arrivo di Zia Teresina, fu quindi accolto in quella casa, come un dono del Cielo. Ella si inserì nella famiglia, ne resse le sorti trovandosi un impiego, e sopportando con cristiana rassegnazione, il difficilissimo carattere della devota madre, e quello estroso e irascibile della altrettanto devota sorella Elena, ex maestra di scuola, la quale qualche volta, in passato, dovette essere ospitata, per le sue escandescenze, all’ospedale psichiatrico provinciale. E qui si deve dare atto alla lodevole riconversione di una donna, come Zia Teresa, la quale, dopo aver vissuto lungo tempo nell'opulenza e negli agi, abbia saputo, all'occorrenza, rientrare nelle strettezze di una vita modesta, facendosi pure carico di dare assistenza i propri famigliari. Nel breve periodo in cui la Zia si trattenne a Milano, sconfortata e addolorata dopo il recente grave lutto; sentì forse il desiderio di liberarsi del riserbo; impostole sino a quel momento dal suo legame matrimoniale; perché riferì ai miei genitori, con assoluta noncuranza e ingenuità, particolari; sul tipo di vita e sui rapporti che aveva avuto col marito; che destarono qualche perplessità in famiglia. Dalle sue informazioni, la figura dello Zio Romeo, sino a quel momento apparsa agli occhi nostri, rispettabile, anche se un po’ misteriosa, si scolorì, per dare spazio a quella di un affarista d’alto bordo. Quand’erano a Napoli, gli zii abitavano in un lussuoso attico di Via Caracciolo di fronte al mare: due cameriere, due automobili e autista. In che modo lo Zio guadagnava tanti soldi? Con molti grossi affari, e altri proventi, come quelli derivanti dalle partecipazioni di una società tenutaria di una catena di case chiuse. Per carità, tutto in regola con le norme allora vigenti. Su questo, mia madre, non mancò di far notare a Zia Teresa l’incompatibilità morale, tra la sua religiosità e la provenienza del denaro che le consentiva una vita di lusso. Risposta: "I soldi li guadagnava mio marito, e a me non riguardava la loro provenienza". Per altro i rapporti tra i coniugi non... congiungevano. L’alta spiritualità della Zia, non lasciava spazio ad esigenze maritali terrene, tanto che lo Zio, nel corso dei suoi frequenti viaggi da Milano e Roma, sostava a Firenze, per frequentare una sua affettuosa amica. Quando la Zia ne venne a conoscenza, prese il fatto col distacco del suo quasi nobile carattere: "Fai pure, però: a lei uno e a me dieci.". Qualcuno disse: "Il denaro è lo sterco del Diavolo" e qualcun altro aggiunse: "...ma anche la Chiesa non può farne a meno.". Anche l’incarico di Direttore Generale, avuto nella Società delle acque, lo Zio, che non era un chimico, lo aveva commutato cedendo a quell’Impresa l’importante formula di una bibita, di cui egli era in possesso. Come? Dopo la scomparsa dello Zio, le richieste di spedizioni da parte della nostra unica cliente, andarono in progressivo rapido calo. Deciso a vederci chiaro, mio padre si presentò alla Società per chiederne i motivi. Una, tra le persone che di lui avevano stima, gli confidò, a proprio rischio e pericolo, che purtroppo, dopo la morte di suo cognato, vennero a galla delle irregolarità, nel suo operato di Direttore Generale, per le quali, chi là in alto contava, aveva esclamato: "Allora, quell’uomo ci ha traditi!". Poco dopo, cessarono completamente gli ordini della Società; e per l’Agenzia fu la rovina. Affitti, tasse, scadenze: tutte queste spese si accumularono, senza alcuna contropartita da lavoro. Chiusi i conti, Papà si accollò tutti gli oneri residui dell’Agenzia, riservando, a credito di Zia Teresa, il 50% degli utili dell’attività, fino a quel momento maturati. Ciò gli valse una memorabile scenata di mia madre, che non era affatto d’accordo con quella spartizione, né lo era stata, a suo tempo, con il diktat imposto dal cognato buonanima. Incominciò per la famiglia un periodo nero, di tribolazioni. Fortunatamente, Mamma interveniva nelle spese della casa, col guadagno di un suo piccolo commercio di pizzi e ricami, che aveva tenuto sempre attivo. Quanto rimaneva dei lauti guadagni dell’anno precedente, fu amministrato come l’acqua del barilotto, dai naufraghi in pieno oceano. Per dare una misura: polpette, caffelatte e abiti rivoltati di mio padre per me.
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UN
NUOVO COMMERCIO Papà, seguiva attentamente gli annunci sui quotidiani, sperando in qualche buona combinazione, che gli consentisse di utilizzare proficuamente l’ufficio e il magazzino, di cui, per contratto, continuava a versare i costi di locazione. Un giorno, lesse l’annuncio di un tizio che, pratico del commercio di carta da imballo, già introdotto nel settore e con vasta clientela, era alla ricerca di un socio, che disponesse di adeguata attrezzatura, con cui iniziare una nuova attività. Dopo un contatto telefonico, ci fu un preliminare incontro. Il proponente, un giovanotto trentenne, alto,biondo, con un viso accattivante, angelico, quasi da bambino; chiarì che, già alle dipendenza di un grossista, si era licenziato, intendendo intraprendere un commercio in proprio. Spiegò, che la carta da imballo ha un grande vantaggio, su altri prodotti: non passa mai di moda e, in ambiente secco, dura all’infinito. Si trattava di acquistarne dalle fabbriche, colli da 50 kg, di tipi vari da depositare nel magazzino. Da tale scorta si dovevano via via prelevare, pesare e imballare, i quantitativi necessari a soddisfare gli ordini pervenuti. Per la consegna in città, l’Ufficio avrebbe dovuto, accordarsi con qualche trasportatore provvisto di furgoncino. Lui, che si chiamava Sannazzari, si sarebbe occupato, di visitare la clientela, di ritirarne gli ordini, e di riscuotere l’ammontare delle relative fatture. Tutto sommato, mio padre ritenne che valesse la pena di tentare. Il tempo premeva, e il piccolo capitale residuo dell’Agenzia, andava assottigliandosi. Il rischio di impegnarsi in questa società di fatto, era in definitiva minimo, poiché dipendeva esclusivamente dalla quantità e importanza delle ordinazioni che il socio avrebbe procurato. Inoltre, il valore in carta stivato in magazzino, avrebbe potuto essere; in caso di insuccesso dell’impresa; ricuperato senza problemi e con minima perdita, data la facile commerciabilità del tipo di prodotto. Accordi conclusi! La nuova società dovette completare la propria attrezzatura, acquistando una basculla, con portata di 200 kg, e un carrello per muovere i colli nel magazzino. Sannazzari circolava con la sua bicicletta; allora tradizionale veicolo metropolitano dei piazzisti; e la sera, prima di rincasare, lasciava nel nostro ufficio copia delle ordinazioni raccolte dai clienti. Quando dalle fabbriche incominciarono ad arrivare i primi quantitativi di carta, il nostro socio si intrattenne in magazzino, per insegnarci come confezionare solidamente, con l’aiuto di filo di ferro e pinza, i pacchi, da inviare ai clienti. Praticamente, finì che il lavoro di imballaggio, lo svolgevo io, mentre Papà, si occupava della parte amministrativa della ditta, e dello strascico di guai e intrichi conseguenti alla morte dello Zio; in relazione anche alle spettanze di quest’ultimo, che la sua Società, sembrava, non avesse alcuna intenzione di versare, in attesa di certi chiarimenti, che solo il defunto avrebbe potuto darle. Zia Teresa, la quale di tutto ciò capiva soltanto che, la liquidazione del marito tardava a giungerle, subissava di lettere amare suo fratello, aumentandone naturalmente l’angustia. Al mio lavoro presi presto la mano; già conoscevo tutti i formati e le qualità carta: la Dervio, era pesante, di colore giallo scuro, e serviva alle macellerie; la morella, blu intenso, per lo zucchero; il pergamino, tipo oleata, per i salumi; la pelleaglio, leggera di colori vari pastello, adatta ad involti delicati; e altre. Avevamo anche vari tipi di sacchetti: per le uova, per il caffè, per lo zucchero. Guardavo l’ordine, prelevavo e pesavo le quantità richieste, bloccavo il pacco col filo di ferro e; dopo avervi fissato sopra la predisposta bolla di consegna; lo portavo col carrello nell’area dei colli da recapitare. Per le consegne, pubblicammo un annuncio economico. Si presentò, un uomo, avanti con gli anni. Aveva una robusta bicicletta da trasporto, munita di un grande portapacchi sopra ogni ruota. Non so con quale accordo mio padre lo ingaggiò: probabilmente per un tanto a chilo. Si chiamava Maniscalco, e forse quel cognome se lo meritava, perché era sbadato e rozzo nel muovere e sistemare i pacchi sul suo veicolo. Più volte dovetti rifare gli imballaggi, perché quando caricava lo faceva male, e finiva a terra lui, la bicicletta e la merce. Brontolava sempre ad ogni viaggio, tanto che finimmo per non dargli più ascolto. Dopo una settimana, chiese un aumento della retribuzione, e gli fu concesso. Ancora una settimana e ci riprovò. Rispondemmo picche: avevamo capito che, nel suo stato di evidente indigenza, ci considerava come dei ricchi egoisti. Poveretto: non sapeva che “un guercio, è re nel paese dei ciechi.”. Capitò, che per sua sbadataggine nello stipare la bicicletta, si ferì ad una gamba, col pedale dentato arrugginito. Gli praticammo una medicazione provvisoria, suggerendogli poi di andare in un vicino ambulatorio, a farsi iniettare un’antitetanica. Non voleva: ci raccontò, di essere rimasto di recente vedovo, e che a casa aveva lasciata sola la sua figliola quattordicenne, molto apprensiva, la quale si sarebbe allarmata s’egli, a mezzogiorno, avesse tardato a rientrare. Mio padre lo convinse, rassicurandolo che avrebbe mandato me ad avvisare la ragazza. Vi andai. Suonato il campanello di casa, mi apparve uno scampolo di ragazzina, secca e smorta, che stava in piedi perché non tirava vento. “Signorina, sono della ditta dove lavora suo papà....”. Non mi lasciò finire: “Cos’è successo al mio papà? Voglio sapere che cosa gli è successo!...”. E giù subito a piangere e a singhiozzare disperatamente. “Non gli è successo niente di grave... stia tranquilla, una piccola ferita alla gamba con la bicicletta... è andato a farsi medicare... e presto sarà qui.”. Tutto inutile, quella non capiva più niente, e con occhi attoniti e lacrime fluenti. continuava a ripetere: “Cos’è successo al mio papà?”. Tentai ancora di tranquillizzarla, ma quella non udiva niente e insisteva: “Voglio sapere la verità! Voglio sapere la verità!”. Da una parte la ragazza mi faceva pena, ma dall’altra l’avrei presa volentieri a schiaffi, perché intuivo che quella sarebbe stata la giusta terapia del momento. Logicamente mi astenni. Stavo ancora sulla soglia della porta d’entrata, dove ella, con molta diffidenza, mi ci aveva tenuto. Mi accomiatai: “Si calmi, signorina, mi creda, stia tranquilla: tra poco il suo papà sarà qui.”. Missione compiuta. Altro che missione compiuta! Dopo pranzo, non appena sceso in ufficio, fui aggredito dal mio austero genitore: “Si può sapere che cos’hai fatto a quella povera ragazza? Suo padre mi ha telefonato urlando che l’hai fatta piangere! Certe notizie si devono dare con criterio, con un po’ di prudenza! Ecco: non dovevo fidarmi di te!”. Mi difesi senza speranza: “Che c’entro io Papà? Appena le ho detto che ero della ditta dove lavora suo padre, non mi ha lasciato finire, e si è messa a piangere e a gridare senza ascoltarmi!”. Non ebbi risposta, ma era una risposta: “Con te è inutile parlare.”. Mi consolai pensando che un Maniscalco non poteva generare altro che una puledra bizzarra. Il nostro socio lavorava e portava ogni giorno parecchie ordinazioni. Ogni tanto, quando la sera versava gli incassi della giornata, chiedeva a mio padre degli anticipi sui futuri dividendi. Gli affari andavano benino, però, nel complesso la clientela tardava a saldare le fatture. Troppo rischioso sarebbe stato inviare solleciti di pagamento: eravamo agli inizi dell’attività ed i clienti dovevamo tenerceli cari. Sannazzari affermava per altro, che i tempi erano difficili, ma che i negozianti egli li aveva selezionati tra i più sicuri, per cui ogni timore non aveva motivo di essere.
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SCUOLA
ADDIO ! Intanto il settembre (1936) era passato. In casa nessuno aveva fiatato per la mia reiscrizione all’Istituto Tecnico, e nemmeno io ne accennai: fu come una tacita intesa con diverse motivazioni. Personalmente, ritenevo maramaldesco anche soltanto chiederla: mi sentivo in colpa per la bocciatura, e inoltre sapevo che le finanze famigliari avrebbero mal sopportato un congruo esborso per tasse e libri. Siccome non tutto il male viene per nuocere; mi rincuoravo all’idea, che mi sarebbe stata risparmiata almeno l’umiliazione di rivedere i miei compagni promossi, frequentare la classe superiore. Però non capivo il motivo del silenzio famigliare. Qualche anno dopo, i miei genitori, in via di discorso con amici, affermarono che il livello di scuole da me raggiunto; tenuto conto che non ero un “secchione” da borsa di studio; poteva già assicurarmi un lavoro decente. Così finalmente e per caso, venni a sapere il loro perché. Messomi il cuore in pace, che un titolo di studio non l’avrei raggiunto, incominciai a pensare di trovarmi un’occupazione. Mi sarebbe piaciuto essere assunto da un laboratorio di riparazioni radio, dove s’impara molto più che in una catena di montaggio di apparecchi. Mio padre, mi fece riflettere affermando che, purtroppo, non sempre è dato di trovare subito il tipo di attività che ci interessa. In attesa, osservò che io avrei avuto l’occasione immediata di imparare un lavoro di rappresentanza, accodandomi a Sannazzari, nel visitare la nostra clientela. Non me ne sentivo affatto le attitudini, ma non ebbi il coraggio di declinare la proposta. Egli ne parlò al suo socio, il quale accettò apparentemente di buon grado, sicché un mattino, inforcate le biciclette, incominciammo il giro. Strada facendo, si parlava di banalità, ma avevo vagamente l’impressione, che la mia presenza fosse di un certo disagio al mio Virgilio. Visitammo alcuni negozianti. Entrati nella bottega, si attendeva pazientemente che l’ultimo cliente ne uscisse, poi, mentre io rimanevo in un angolo, Sannazzari, trattava, campionario alla mano, l’offerta di vendita, e, al caso, redigeva l’ordine d’acquisto. Se il bottegaio s’interessava della mia presenza, veniva informato che io ero il figlio del socio, in corso di apprendimento. Il “maestro”, con cui ci davamo del lei, mi diceva in qualche caso: “Scusi, ma qui dovrei entrare solo:sa questo cliente è un po’ timido, e il vederci entrare in due, potrebbe indisporlo”. Io annuivo, però la giustificazione mi sembrava palesemente sospetta. A sera esternavo i miei dubbi a Papà, il quale non li prendeva in considerazione e tagliava corto: “Sannazzari el xe un bravo fio, el lavora duro, el porta a casa ordini e schei!”. (tr.: Sannazzari è un bravo ragazzo, lavora duro e porta a casa ordini e soldi). I figli sono carognette, le quali, se non la spuntano con un genitore, ricorrono all’altro. Mamma fu più accorta: “El to papà el xe un galantomo, che crede tutti onesti come lu, ma guai a dirghelo.”. (tr.: Tuo papà è un uomo onesto, il quale crede che tutti siano onesti, come lo è lui, ma non accetta che qualcuno glielo dica.). Era come mi avesse suggerito: “Continua a tenerlo d’occhio, il nostro... socio!”. Perciò, quando Sannazzari decideva di entrare solo, io anziché distrarmi, incominciai a spiare discretamente, attraverso la vetrina del negozio; e una volta distintamente vidi il bottegaio, aprire il registratore di cassa, trarne dei soldi e consegnarli al nostro piazzista. Siccome costui quella sera, non versò una lira d’incasso giornaliero; avvisai Papà, quando rimanemmo soli; che il suo socio, quel giorno, almeno da un cliente di soldi ne aveva presi. Accesa la miccia, la bomba fatalmente scoppiò. Il giorno dopo, con qualche discreta telefonata, mio padre appurò, che parecchi clienti avevano in realtà già saldate vecchie fatture, le quali a noi risultavano ancora scoperte, e non fu difficile stabilire la cospicua entità degli ammanchi. Si sciolse in questa maniera anche la “società della carta”. Nonostante, le immaginabili e pretestuose ragioni addotte, il Sannazzari fu messo alla porta; e il mio onesto genitore, dovette poi occuparsi di smaltire il nostro deposito di carta, cedendola ad altri grossisti, con un certo sconto sui prezzi di listino. In casa piombò l’umor nero. Io, che in effetti ero stato l’agente provocatore di quella débâcle, non me ne sentivo in colpa: prima o poi il guaio sarebbe venuto a galla; ed è stato meglio prima che poi. Tuttavia nessuno si complimentò con me, né io mi aspettavo complimenti, avevamo tutti altre gatte da pelare. Quest’ultima stangata impose alla nostra famiglia un’ulteriore giro di vite. Disdettati alla scadenza i contratti del negozio, del magazzino, e dell’appartamento di cinque locali, al terzo piano nobile; ci trasferimmo in un più modesto alloggio al secondo piano del medesimo stabile. Mio padre, si trovò un’occupazione come rappresentante, presso una ditta di articoli réclame, come si diceva allora. Il titolare era un ebreo, persona molto cortese e scrupolosa. Il fatto mi sorprese, perché credevo che Papà avesse sempre lavorato nei trasporti, e fosse specializzato in norme e tariffe doganali, avendo iniziato da ragazzo, alle dipendenze di mio nonno, titolare di un’impresa di spedizioni. Invece, dovetti ricredermi: altre volte, per casi della vita, egli era stato agente di commercio. Con questo nuovo lavoro, Papà guadagnava benino, se non che, un giorno il titolare della sua ditta, l’informò, con rammarico, di essere costretto a licenziare tutto il personale e a chiudere l’azienda. Essendo egli ebreo, era portato a tale determinazione, dalle recenti disposizioni razziali, emanate dal regime fascista, le quali vietavano a possessori o dirigenti d’impresa, di razza ebraica, di continuare ad esercitare.
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PAPA’
TROVA UN NUOVO IMPIEGO La grande professionalità di mio padre, nel ramo dei trasporti terrestri e marittimi e nell’import-esport, rendevano la sua collocazione nei grandi complessi molto facile, ma soltanto a condizione che qualche incarico si rendesse vacante. Occasioni del genere erano molto rare, ma quando si presentavano, egli non aveva da temere concorrenze. Rispondendo ad un annuncio, fu infatti assunto con l’incarico di dirigente della sezione trasporti, di una filiale della “Società Brill”; con sede a Dergano, alle porte di Milano; fabbrica molto nota di lucido da scarpe, e di altri prodotti per la pulizia della casa. Purtroppo, il mio austero genitore, aveva a che fare con un dirigente della Società tedesco, e per di più teutonicamente caparbio che, oltretutto, ad onta della sua autorità, non aveva alcuna dimestichezza, con i problemi dei trasporti. Non poteva capitargli di peggio! Il veleno che Papà, normalmente così riservato, era costretto ad ingoiare in ufficio, lo espelleva poi sfogandosi in famiglia: “Già, mi... fin dal tempo de la guèra, i tedeschi no go mai poduo vederli... Questo po’!... a la mensa, el magna crauti e beve sugo de pomodoro! Che schifo!.. Ma digo mi!.. In ufficio, ‘sto fiol d’un can, el xe sempre tra i pie; el vol comandarme e nol capisse gnente: el me fa soltanto tribolar!”. (tr.: Già, io... fin dal tempo di guerra, i tedeschi non li ho mai sopportati. Questo poi!... alla mensa mangia crauti e beve sugo di pomodoro! Che schifo!... Ma dico io: questo figlio di cane è sempre tra piedi, non capisce niente, pretende di comandarmi e mi fa soltanto tribolare!) Non poteva continuare e non continuò. Dopo circa un anno, gli si presentò l’occasione di un nuovo incarico, sempre nel suo ramo, alle “Cartiere di Verona”, in via dei Missaglia. Non se lo lasciò sfuggire, e divenne capo dell’Ufficio spedizioni, di quella Società, la cui Direzione mai eccepì sul suo operato. E in quell’Azienda mio padre lavorò sino a che, per complicazioni intestinali conseguenti all’invalidità contratta durante la prima guerra 1915/18, se ne andò, il 13 Aprile 1943, a 57 anni, in pieno corso del nuovo conflitto mondiale.
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