Continua... Racconti della serie: "Helvetia"
LA FINE DI MUSSOLINI. | LA GOVERNANTE. | UN CAFFE’ COI FIOCCHI. | LAGER WEISSENBURG - BAD. | LA FUGA |
IL CAMPO DI PUNIZIONE | ACHTUNG! ACHTUNG! FEUER! | IL RIMPATRIO | ITALIA, ITALIA! |
LA
FINE DI MUSSOLINI. Eravamo nell’Aprile 1944: le truppe angloamericane, sfondata la Linea Gotica, avanzavano verso la Valle Padana. Noi rifugiati a Saint Etienne, seguivamo con estremo interesse gli avvenimenti bellici del fronte italiano, ascoltando nella nostra mensa una vecchia radio a valvole, arrivata non ricordo da dove. Il desiderio di ritornare in Patria era forte, e in quei giorni diveniva sempre più acuto. Seguivamo alla radio, anche gli aspetti rivoluzionari della guerra, originati dalla costituzione, in alta Italia, della Repubblica di Salò; fondata dai fascisti, ma praticamente agli ordini di Hitler; alla quale si erano contrapposti il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), e altre similari organizzazioni di partigiani e patrioti. Nella mia ingenuità, pur seguendo, con grande emozione, le fasi dell’avanzata degli eserciti alleati; mi aspettavo che gli angloamericani; conquistata l’Italia del Nord; avrebbero arrestato, processato e giudicato Mussolini e i suoi gerarchi; così come, in seguito, dopo la conquista di Berlino, processarono a Norimberga i gerarchi nazisti. E non va sottaciuto che pure il processo di Norimberga, svolto con tutti i crismi della giurisprudenza, ebbe i suoi critici; i quali stigmatizzarono che non dovrebbero essere i vincitori a giudicare i vinti. Il 29 Aprile, mentre riassettavo la mensa, dopo il pasto di mezzogiorno, sintonizzai come di solito, la radio sull’Italia, per ascoltarne il notiziario. L’annunciatore, era estremamente concitato: parlava di Mussolini, Starace, Petacci, fucilazioni, martiri, piazzale Loreto; ma per capire qualcosa del comunicato, dovetti attendere, che il giornalista ripetesse i fatti; come in seguito avvenne più volte. Quando cominciai ad afferrare la tragicità degli avvenimenti, la tachicardia mi assalì e lo stomaco prese a torcersi. Mussolini, e la sua amica, Claretta Petacci; erano stati catturati in una località sul Lago di Como; e fucilati, a Giulino di Mezzegra dai partigiani comunisti. I loro corpi; con quelli di gerarchi fascisti passati per le armi, poco lontano, a Dongo; erano stati ammucchiati sopra un autocarro, e trasportati a Milano, in piazzale Loreto; dove furono scaricati a terra, e lasciati in balia di gente inferocita, che inveì, su quei morti, con rivoltellate, sputi, minzioni, bastonate e lanci di oggetti. Dopo ciò, i cadaveri furono agganciati per i piedi, alla pensilina di un distributore di benzina, affinché tutti potessero vederli. Quando il corpo della Petacci, fu appeso a testa in giù, la gonna le si rovesciò sul capo, scoprendo le parti intime. Orrendo! Era troppo anche per gli uccisori, che non si opposero a che, finalmente, una mano pietosa appuntasse la gonna, all’altezza delle ginocchia, della spoglia straziata di Claretta. E’ opportuno qui ricordare che Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, membro dello Stato maggiore partigiano; e quindi un antifascista d.o.c.; definì, l’esposizione di quelle salme a piazzale Loreto, una "scena da macelleria messicana". Dal settimanale "Tempo" N° 19 del Maggio 1975, pag. 44-45; riporto: "Questa è la drammatica testimonianza del Colonnello Charles Poletti che, designato dagli Alleati, fu il primo Governatore militare di Milano. Arrivò a piazzale Loreto, prima delle truppe americane e assistette alla ‘impiccagione’ di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi fascisti; e alla fucilazione di Starace... Poi andò da Parri, per chiedergli di far portare subito quei corpi all’obitorio." Per me era già difficile accettare che si fosse proceduto alle esecuzioni senza un regolare processo, ma era del tutto inconcepibile, per la mia mente, un tale feroce vilipendio di cadaveri. Finito il "Notiziario", i disturbi mi si acuirono, incominciai a sudare freddo, e ad avere tremori alle gambe, che sentivo malferme. I dolori non cessavano; si trattava di una congestione incipiente, sulla quale allora non avevo alcuna esperienza. Andai alla mensa degli operai svizzeri della Falegnameria e ordinai un Fernet, con la speranza di agevolare la digestione: ma fu peggio. I dolori aumentarono ancora. Pensai: "E’ la fine"; andai allora nella mia cameretta, mi stesi sul letto e, al colmo degli spasmi, chiesi al Padreterno che si decidesse: o su, o giù. Decise: poco dopo mi arrivarono conati di vomito liberatori. Mi ristabilii abbastanza velocemente, ma quella sera i miei compagni dovettero accontentarsi di cenare con caffelatte, pane, burro e marmellata. giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO
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LA
GOVERNANTE. Modestia a parte io sono sempre stato un buon organizzatore e oculato tesoriere. Già a otto anni, avevo la mia amministrazione privata: un registrino dove annotavo accuratamente, le mancette ricevute da Papà e le spesucce, con tanto di bilancio mensile, e utile di cassa. Perché la mia cassa personale, è sempre stata in attivo, sintantoché rimase personale. Dopo venne l’era dei mutui, ma questa è un’altra lunga storia, un po’ malinconica, e chissà se mai mi verrà lo sghiribizzo di scriverne. Una lunga premessa per convincere che, sapendo fare bene i miei conti, non mi fu difficile reggere i lavori di cucina, compreso il lavaggio delle stoviglie, per 18 coperti; tutto da solo, e avanzarmi inoltre uno stacco quotidiano di un paio d’ore, dalle 14 alle 16, da dedicare alla pennichella nella mia stanza. La cameretta che avevo affittato, graziosa e pulitissima tutta pizzi e ricami, era a piano terra, e la sua finestra si apriva sul portico della facciata, prospiciente la strada. Sotto il portico, stava anche la porta d’ingresso della casa, per cui quando entravo, dovevo girare per due brevi tratti di corridoio prima di giungere alla porta del mio locale. Troppo complicato! Se avevo premura, o anche no, entravo e uscivo dalla finestra; con grande e giusto disappunto della mia padrona di casa; la quale, strillando in tedesco, mi faceva notare la sconvenienza del mio comportamento. Ma io il tedesco non lo capivo! Il peccato, in fondo, era veniale; e Frau Rieder, così si chiamava; avrebbe comunque potuto dirmi: "Giovanotto: o la capisci, o quella è la porta e te ne vai!". Non me lo disse mai: non so se per amor mio, o per quello del franco svizzero, che le pagavo d’affitto. Dalla mia finestra, di là dalla strada, quasi di fronte, si vedeva uno chalet: in breve arguii che lo abitavano madre e figlia, perché solo quelle due donne ne entravano e uscivano. Anzi, dopo qualche giorno, a forza di vederci, finimmo per scambiarci un cenno di saluto, come si fa tra educati vicini. La figlia portava sempre un grembiule candido, con pettorina da balia, e spalline incrociate sulla schiena; ma non aveva abbondanze da nutrice: lunghe trecce nere arrotolate sul capo; un viso rotondetto, gote bianche e rosse, e una figura più tozza che sinuosa. Un pomeriggio, mentre sonnecchiavo, seduto su una panca del portico di casa, la ragazza, mi raggiunse e mi porse un pacchetto, confezionato con carta regalo e cordoncino dorato. Parlava un sufficiente italiano: "Signore, la mia mamma le manda questo, e lo invita a prendere un tè, in casa nostra.". Quel po’ di latino, che non avevo mai studiato a scuola, rigurgitò nella mia mente, queste due parole: "Cui prodest?" (traduco a mio uso: "A vantaggio di chi?"). Tuttavia, con la falsità dettata dalla comune civile convivenza, mi schermii: "Grazie, molto gentile.. ma non doveva disturbarsi... Sarà mio piacere, far visita alla sua signora mamma.. alla prima occasione.". Ma quella, la prima occasione la voleva subito, e replicò tout court: "Facciamo... domani alle cinque allora?". Ahi, ahi! Mi aveva dato "Scacco matto!". Ebbi un attimo di imbarazzata indecisione, ma poi pensando alla massima: "Via il dente, via il dolore", e a quell’altra: "Far buon viso a cattivo gioco."; ritenni di assentire: "Può andare bene domani... però dovremmo anticipare: verrei alle quattro, perché, alle cinque riprendo a lavorare.". Ottenuto ciò che voleva, la gentile fraulein, allontanandosi rapidamente confermò: "Va’ bene. Mi chiamo Magdalene: auf Wiedersehen!". Rientrato in camera, spogliai il pacco, il quale, a dispetto dell’esteriorità della confezione, si rivelò una prosaica scatola da scarpe. Fortunatamente il contenuto era al di sopra di ogni sospetto, e sigillato all’origine: un vasetto di marmellata, due tavolette di cioccolato al latte, una scatola di biscotti, un pacchetto di sigarette. Bene. Mi sforzai di pensare che pure la signora Mirella Rombaldi Armellino, di Grenchen; mi aveva invitato mesi addietro a un tè e, come in seguito ebbi modo di convincermi, il suo cortese gesto fu dettato da mera filantropia. La sera medesima, dopo la mensa; organizzai, con cibi precotti e altri lavori anticipati, la giornata dell’indomani, in modo, da essere pronto, il giorno appresso; compiuta la prevista visita a Magdalene; a servire i miei compagni, senza alcun ritardo sull’ora stabilita per la cena. Così, quando alle quattro bussai a casa della mia dirimpettaia, avevo il cuore in pace e l’animo tranquillo, per quanto si riferisse ai miei impegni di lavoro; ma non altrettanto per gli imprevedibili esiti di quella visita. Dopo i salamelecchi di prima conoscenza, ci accomodammo nelle ampie poltrone del salotto: ben arredato e in ordine, come del resto tutta la casa. La mamma della ragazza, di nome Ingrid, era vedova e, forse per questo, molto loquace, anzi logorroica; ma parlava soltanto tedesco. La figlia, traduceva svogliatamente, di volta in volta, in tre parole, quello che la genitrice mitragliava con tremila. Quando poi Magdalene sospese la sua traduzione, e si allontanò per approntare il tè, restai solo con la madre, la quale proseguì imperterrita a parlarmi in tedesco; mentre io, già avviato ad assentire ritmicamente con la testa, continuai; anche se non capivo niente, né m’importava di capire. La figlia tornò, un po’ accigliata, col vassoio pieno di tazze, teiera e pasticcini, che in silenzio posò sul basso tavolino, attorno al quale eravamo seduti. Poi, parlando tedesco, interruppe bruscamente la mutter, con quattro secche parole; che ovviamente non capii, ma che tradotte dicevano: "A ma’, piantala, e lascia parlare me, che questo l’ho invitato io!". Ingrid s’ammutolì all’istante, come se le fossero saltati i fusibili, e assunse l’espressione anonima di una radio, quando la si spegne con l’interruttore. La ragazza, cambiò subito umore e, mentre mesceva il tè, avendo notato lo stupore scolpito sul mio volto, mi chiarì sottovoce, con amabile sorriso: "Ho detto a mamma, di non affaticarsi: soffre d’asma poverina, e parlare troppo gli fa male!". Poi tra tè e dolcetti, mi rivolse molte domande, e fui io di turno a dover parlare: "Quanti anni avevo?"; "Ero ammogliato?"; "Quale era il mio lavoro in Italia?"; "In quale città avevo casa?". Quando fu ben satura di risposte, m’invitò a salire, dandomi improvvisamente del tu: "Vieni su, con me, che ti faccio vedere la mia zimmer!". Mi allarmai: non sapevo per niente il significato della parola zimmer: a spanne, mi sembrava che potesse essere, anche qualcosa di indecente, di innominabile, e nello stesso tempo, respingevo una tale ipotesi: mi rifiutavo di ammettere che una giovane donna potesse arrivare a un tale grado d’impudenza. Però: quell’improvviso darmi del tu? Mi sovvenni, per altro, che pure la mia affittacamere, quando mi redarguiva, per i miei salti dalla finestra, usava più volte quel vocabolo: zimmer, zimmer. Una bestemmia? Un turpiloquio? Imbarazzato guardai l’ora e, sperando di poter svicolare, obiettai: "Perbacco! Sono già le quattro e quaranta: alle cinque devo essere in Falegnameria." Ma quella insistette: "Che ci vuole a vedere la mia zimmer? Cinque minuti!". Salimmo. Al primo piano, notai un corridoio con quattro porte, Magdalene ne aprì una e m’invitò ad entrare in una stanzetta piena di pizzi e merletti, con tendine ricamate e gerani rossi sul balconcino. L’arredo era spartano: un cassettone antico, con specchiera; un alto ampio letto, e a fianco, un comodino. Addossata ad una parete, faceva bella mostra una pendola dell’800. Fui colpito dalla quantità di fotografie, incorniciate, appese ai muri: erano tutti ritratti di regnanti e principi ereditari di una casa reale europea. Non essendoci, per mancanza di spazio, sedie nella stanza, la mia ospite m’invitò ad accomodarmi sulla sponda del lettone, e lei stessa si sedette vicino a me; poi incominciò, naso muso, a parlarmi di sé. Mi raccontò di essere la governante in una casa reale di cui mi fece il nome, e di godere dell’alta considerazione di regnanti e principi; nobili molto democratici, e gentili nei confronti della servitù e dei collaboratori. Lei poi, era trattata come una di famiglia. A me sembrò strano, che in una reggia, la governante vestisse come una balia, e fosse considerata alla pari; per cui incominciai ad accettare tutto con larghi benefici d’inventario. Eravamo così vicini, che non potevo fare a meno di osservare la sua dentatura. Aveva in bocca tutto l’oro di Fort Nox. Mentre valutavo il costo di tanto deposito, lei continuava a parlare e; ad un tratto vidi che, con abile, fulmineo colpo di lingua, risistemò in bocca la protesi mobile, che le si era di poco staccata. Emozionato gridai: "Uhi!". Lei s’interruppe e interrogò: "Cosa c’è?". Imbarazzato annaspai e mi guardai intorno alla ricerca di un’ispirazione per la risposta; poi i miei occhi caddero sulla pendola e potei esclamare trionfante: "Guardi là: sono le cinque e cinque: debbo proprio scappare. Ci vediamo, auf Wiedersehen!". Scesi quasi di corsa la scala, e potei anche risparmiarmi di salutare Frau Igrid, la quale, ancora sprofondata nella sua poltrona, russava della grossa. Prima di tornare in Falegnameria, passai dalla mia stanza, per consultare il vocabolario: Zi, Zim, Zimmer = Camera. Diavolo! E io, cosa mai ero andato a pensare!
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UN
CAFFE’ COI FIOCCHI. Ai primi di Maggio l’Italia era stata completamente liberata dagli angloamericani e gli italiani, avevano imparato immediatamente a dire Okay; a fumare Camel; a masticare chewing-gum; a ballare il boogie woogie, con le musiche di Glenn Miller e Benny Goodman; e a mangiare i corned beef del Piano Marshall. Naturalmente tutte queste notizie che giungevano dall’Italia, stimolavano fortemente il nostro desiderio di rimpatrio. Viceversa le autorità di occupazione, i cosiddetti Liberatori, il primo provvedimento che presero nei confronti della Svizzera; fu il blocco ermetico delle frontiere. Peggio: vietarono anche lo scambio di corrispondenza, cosa che nemmeno i tedeschi avevano imposto: essi infatti si erano limitati a praticarne la censura. Così per quanto mi riguardava personalmente, non potei più spedire e ricevere lettere dai miei famigliari. Per quanta simpatia avessi sempre avuta per l’America, questa volta non potei risparmiarle un: "Che te possino....". Un mattino, ci giunse notizia di un nuovo trasferimento, e tutti pensammo che ci avrebbero portati a Chiasso per il rientro in Italia. I miei compagni esultarono: io pure; ma con qualche riserva, che mi fece esclamare: "Immaginarsi, ora che mi ero piazzato bene, che il lavoro mi piaceva, che mangiavo a sufficienza e, per di più, che i miei compagni, la domenica, avevano presa la sana abitudine, di lasciarmi qualche franco sulla tavola della mensa: ecco che me ne devo andare!". Per quanto riguardava la smobilitazione della cucina; mi fu dato ordine di raccogliere; dopo il pranzo; i residui della dispensa, in una delle ceste con le quali al martedì mi arrivavano gli alimentari; ma riservando il necessario di pane, burro, marmellata e caffelatte, per l’ultima cena. Quando, seguendo le disposizioni, avevo già riempito a metà, la cesta con i viveri rimasti; mi venne tra le mani un pacchetto, già aperto, di caffè macinato: sulla confezione era indicato il peso di cento grammi; ma ne mancava un po‘. Pensai: "Per finire in bellezza, adesso mi preparo un espresso con i fiocchi! Quando mai lo rivedrò un vero caffè?". Senza pensarci sopra, scaldai l’acqua in un pentolino e vi versai l’intero contenuto del sacchetto. Colai in un gotto del caffè nerissimo, che dovetti zuccherare più volte, perché stentava ad addolcirsi. Lo bevvi, a sorsi, tutto, mentre terminavo di caricare la cesta. Mi attendevo qualcosa di eccellente, ma così non fu, e arrivai al fondo del bicchiere, quasi di malavoglia. Dopo una mezz’ora, cominciai ad accusare un tremore in tutto il corpo e, a tratti, come una scarica elettrica che mi stirava e contraeva, contemporaneamente, i quattro arti; sì che mi era difficile rimanere in piedi. Inoltre le pulsazioni cardiache andavano rapidamente accelerando. Con quel poco di forze che mi erano rimaste, corsi saltellando fino alla mia stanza; vi entrai dalla finestra (questa volta con giustificato motivo), e mi stesi supino sul letto, con gambe e braccia divaricate che continuavano i loro ricorrenti accessi motori. Ad ogni attacco, per riflesso condizionato, avevo una visione della "rana di Galvani". Dopo oltre un’ora, i disturbi accennarono ad attenuarsi, e finirono per estinguersi, come temporale che si allontana verso l’orizzonte. Ritornai alla Falegnameria un po' frastornato, e per mia fortuna, poichè era previsto il menu frugale di caffelatte, burro e marmellata, ebbi poco da trafficare. A sera, a cena, dai discorsi dei miei compagni, capii che il trasferimento ci avrebbe portati in un altro lager, e non in Italia. Non dissi nulla a nessuno della mia sventura: già mi ero dato a sufficienza di cretino; le conferme sarebbero state superflue, anzi dannose alla mia pur modesta immagine.
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LAGER
WEISSENBURG - BAD. Weissenburg-Bad, era una stazione termale, collocata in una valle tanto stretta, da dare l’impressione che, allargando le braccia si avrebbero potuto toccare, le due altissime montagne che l’avevano generata: queste, al fondo, si congiungevano, occludendo ogni via d’uscita. Per un padano come me, il paesaggio invitava alla claustrofobia e alla nevrosi. Le Terme, che comprendevano un lussuosissimo Hotel, sembravano incastonate in una delle due montagne e, a prima vista, non si poteva esser certi, che mai nessun masso, dall’ alto. fosse caduto sull’edificio. Tuttavia, si doveva dedurre, che la costruzione fosse più che sicura; dato che ospitava abitualmente, in una fastosa suite, nientemeno che la Regina Guglielmina d’Olanda, durante le sue vacanze. Quell’anno la Monarca era assente; perché si era rifugiata in Gran Bretagna, a Londra, ospite di quella Casa Reale; a seguito dell’ invasione nei Paesi Bassi, delle armate hitleriane. Noi fummo alloggiati, nei corridoi dell’Hotel, con tutte le comodità di cui godemmo nei precedenti lager, compreso il letto di paglia per dormire, e la fossa biologica. Quanto al comfort, per noi della Falegnameria, fu un salto indietro perché tutti, a Saint Etienne, ci eravamo procurati una camera d’affitto, con uso di bagno; e fruivamo di pasti soddisfacenti, per quantità e qualità. Eravamo alla fine di maggio, le guardie svizzere, ci assegnarono un incarico nel vicino bosco. Si trattava di scavare un sentiero verso l’alto della montagna. Ciò comportava anche l’abbattimento delle piante, che si fossero trovate sul tracciato. Gli alberi; quasi tutti d’alto fusto; non appena abbattuti, venivano diramati, segati in spezzoni di un metro e, ogni pezzo, spaccato poi in quattro, a colpi di mazza, con l’inserzione di cunei di ferro.. Il legname così ricavato, si raccoglieva in buon ordine ai margini del sentiero, in modo da ottenere cataste lunghe tre metri, e alte uno e mezzo. Gli svizzeri, diedero anche delle cartucce di dinamite a nostri compagni già esperti di esplosivi, per squarciare ed estrarre le radici rimaste nel terreno. Il lavoro era abbastanza interessante, ma gli attrezzi a nostra disposizione; una sega, due mazze, quattro accette, dieci cunei, due rastrelli; potevano occupare al massimo una decina di uomini. Noi eravamo almeno in cinquanta: era facile quindi dedurre, che la costruzione di quel sentiero, di cui non si capiva l’utilità, era un semplice pretesto, per tenerci occupati, in attesa che l’Italia riaprisse le frontiere per il nostro rimpatrio. Per altro, nessuno seguiva, né sollecitava l’avanzamento dell’opera. Quella fatica di Sisifo, mi dava ai nervi, e siccome molti preferivano lavorare, per non pensare; gli attrezzi finivano sempre in mano di qualcuno, che era più lesto di me. E ci voleva poco, perché io non mi muovevo affatto. Così, a forza di non far niente, l’intolleranza aumentò e, nella mia testa, prese strada l’idea di fuggire, per raggiungere l’Italia clandestinamente. La mia mente, progettò un piano di fuga, che mi dava garanzie sino ad arrivare a Briga, nei pressi della frontiera con l’Italia. Dopo, sarei stato ad un bivio inquietante: o percorrere una ventina di chilometri, presumibilmente a piedi, per raggiungere il valico del Sempione, e lì cercare un buco nella rete; oppure, a Briga, trovar modo, non visto, di salire su un treno per Domodossola.
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LA
FUGA Una sera comunicai la mia intenzione ai compagni. Ne trovai subito tre, che chiesero di venire con me. Altri si dichiararono disposti ad aiutarci nell’impresa; rispondendo a nome nostro, quando noi ce ne fossimo andati, all’appello delle guardie svizzere. Già da tempo, a Zweisimmen, avevo acquistata una valigia di fibra; nella quale conservavo, il mio vestito nuovo, qualche indumento da lavoro di ricambio, biancheria e oggetti d’uso personale. Con i tre compagni che sarebbero fuggiti con me, decidemmo di viaggiare di notte, e pertanto di iniziare la nostra fuga, dopo il rancio della sera, che si consumava alle sei. Venuto il momento; salutammo i compagni e, in fretta, ci incamminammo per la mulattiera, la quale scendeva fino alla stazione di Weissenburg. Vigeva l’ora legale, quindi il sole non era ancora tramontato. Avevamo percorsi circa cinquecento metri quando, da lontano, vedemmo tre guardie svizzere, con tanto di elmetto e fucile, venirci incontro. Ero il solo a conoscere un po’ di francese, ed ebbi appena il tempo di avvisare i miei compari: "Sentite: qui la si mette male: quando ci fermano quelli là, voi salutate dicendo soltanto: "Bonsuar "; al resto ci penso io". All’incontro, ostentando assoluta tranquillità, informai gli svizzeri: "Bonsoir messieurs: nous sommes transferés a Zweisimmen.". Un soldato, che qualcosa doveva aver capito, rispose in tedesco: "Gut! Gut! Guten Abend." e tutti e tre, ripresero indifferenti il loro cammino. Uno dei miei giannizzeri commentò: "Gut, gut, cosa vuol dire? Al mio paese sono i tacchini che fanno così." Non risposi, col pensiero ero già alla stazione di Weissenburg: ci sarebbero state difficoltà per i biglietti? Arrivammo alla stazione senza altri incidenti di percorso e, un po’ titubante, chiesi allo sportello quattro biglietti per Brig. Poi osservai l’espressione del bigliettaio, temendo che mi chiedesse spiegazioni, o dicesse il temuto "Attendez, s ‘il vous plait", per poi chiamare la Police. Invece niente: con un viso assolutamente disteso, mi diede i quattro biglietti, prese i soldi, e disse una parola, sconosciuta ai suoi colleghi italiani: "Merci". Viaggiammo senza problemi sino a Spiez, dove scendemmo, per salire e trovare posto, su un espresso internazionale, diretto in Italia; che avrebbe fermato a Briga. Era ormai notte: si aprì la porta scorrevole: "Vos billets, Messieurs!". Tranquilli consegnammo i biglietti al controllore, come avevamo già fatto, sull’ altro tratto di viaggio. Il ferroviere, ci squadrò uno per uno, poi domandò: "Italiens?". Risposi: "Oui". Egli obliterò i quattro scontrini e ce li rese dicendo: "Bon, bon.". Ci chiedemmo se ci avrebbe fatti arrestare. Dovevamo attendere: non potevamo far altro. Il treno si fermò a Interlaken. Sbirciando dal finestrino, vedemmo due poliziotti passeggiare sereni sul marciapiede. Poi il convoglio lentamente ripartì. Allora tirammo il fiato: avevamo pensato male. Dopo un po’ il controllore riaprì la porta e, nonostante fossimo solo noi quattro seduti nello scompartimento, si chinò, facendo cenno di avvicinare le nostre orecchie al suo viso; e ci sussurrò, in un quasi italiano dalla erre francese: "Voi allez in Italia? Io posso aiutavvi: ho mandato tanta jente da un amico a Bviga, quelli sono dejà in Italia. Se volete, je vous donne l’advesse.". Sapeva già che avremmo accettato: infatti senza attendere risposta, ci porse un foglietto, scritto a mano, con un indirizzo di Briga; e sparì. Eravamo euforici: avevamo la tesserina che mancava, per completare il nostro piano di fuga! Arrivammo a Briga alle quattro del mattino, e non fu difficile trovare la via, perché il ferroviere, aveva tracciato sul foglietto, anche uno schizzo delle strade. Ci trovammo di fronte ad una villetta, come tante altre, la cui porta d’ingresso era preceduta da un piccolo giardino, con un cancello retto da due colonnine, che interrompevano la recinzione. Presi dal nostro problema, non ci rendevamo conto che l’ora era inopportuna, così uno di noi premette il pulsante di chiamata, senza che gli altri dicessero parola. Poco dopo si accese una luce, e si aprì una finestra al primo piano. Apparve un tizio in pigiama, che ci indirizzò in tedesco, parole che non dovevano essere proprio complimenti. Risposi io, andando subito al sodo e senza nemmeno scusarmi. Siamo rifugiati italiani, un controllore in treno ci ha mandati da lei...". Quello, sempre seccato, ma meno brusco, ci informò parlando in italiano: "Non si può più andare di là: oggi ho portato uno, ma è l’ ultimo: c’è troppo controllo."; e senza aggiungere altro, si ritirò sbattendo la finestra. Avevamo capito finalmente, che il ferroviere procacciava clienti a un passatore. Ci guardammo in faccia e uno mi chiese: "Cosa facciamo adesso?". Mi irritai, ma tenni per me quello che avrei voluto dire: "Possibile che le idee, le debba sempre avere io?". In verità non avevo altra risposta che suggerire: "Andiamo a vedere, se c’è la possibilità di saltare su un treno per l’Italia." Ripresi la valigia che avevo posata a terra, e gli altri i loro fardelli; e ce ne andammo, mesti, alla stazione. Albeggiava, la sala d’aspetto era deserta; ci sedemmo grondanti di sonno e di sconforto; poi, appoggiati l’un l’altro, cademmo in uno stato di dormiveglia. Il rumore di un convoglio in arrivo, ci rianimò bruscamente, quando il sole era già spuntato. Uscimmo dalla sala d’aspetto, con la nostra roba, quasi correndo: era un espresso internazionale. Una carrozza di seconda classe, portava affisso un cartello: Brig/Milano. Stavamo sul marciapiede giusto e le poche persone in attesa, erano già salite: il treno tardava a partire, come di solito avviene, quando arriva ad una stazione di frontiera. Rimasti soli sulla banchina, ci guardammo attorno e vedemmo, venti metri più avanti, due guardie di finanza italiane che, senza badare a noi, chiacchieravano pacificamente col capostazione. Se fossi stato solo, probabilmente sarei saltato in carrozza, ma gli altri tre stavano parlottando tra loro: "Ci hanno visto? E se saliamo, cosa succede? Cosa facciamo? Io non me la sento." Mi pentii di averli presi a rimorchio; intanto il treno era ripartito con i due finanzieri a bordo. Questa volta non potei trattenere la rabbia e furibondo decretai: "Io non so cosa farete voi, per quanto mi riguarda, ho deciso di andare a costituirmi.". Presi la mia valigia, e mi avviai. Non avevo parlato proprio sul serio: speravo in una loro reazione, ma quando vidi che mi seguivano, come i paperini si accodano all’oca; sentii il bisogno morboso di liberarmene ad ogni costo e, chieste informazioni ad un passante, mi recai al Commissariato. La stanchezza e la tensione, ebbero sicuramente la loro parte in questa cervellotica decisione: tanto valeva allora che si andasse allo sbaraglio, tentando di salire su quel treno o su uno successivo: nella peggiore delle ipotesi ci avrebbero arrestati. Il bello fu che, presentatomi con i miei paperini al Commissariato, il brigadiere di servizio; a cui dichiarai che ci costituivamo, perché eravamo fuggiti da un campo di rifugiati italiani; ci rispose sorridendo che non poteva arrestarci, perché non avevamo compiuto alcun reato. Vista poi la mia delusione, il funzionario, parlandomi in francese, mi rincuorò; dandomi, un po’ sorridendo, un’idea: "Peut-etre à la Police Militaire"; in sostanza: che, forse, alla Polizia Militare avrebbero potuto... accontentarci. E qui la storia rasentava il grottesco, perché, se anche la Polizia Militare avesse rifiutato di arrestarci, saremmo stati senza soldi, (avevamo pochi franchi tra tutti); senza mangiare; senza la paglia a terra per dormire; e senza nemmeno la possibilità di rimpatriare. Ci sentivamo come bambini smarriti nella strada. Però, stranamente, per quanto mi riguardava , non avevo nemmeno l’ombra di pentimento per essere fuggito. Alla caserma della Polizia Militare, parlavano tutti in tedesco, e quando riuscimmo a far capire le nostre malefatte, incominciarono a guardarci in cagnesco. Etica professionale. Buon segno per noi. Infatti la nostra attesa non fu lunga: un soldato ci prelevò, per accompagnarci in uno stanzone, poi se ne andò lasciando la porta aperta. Era quasi mezzogiorno. Alla una, venne un altra guardia che ci ordinò: "Kommen!", facendo capire di lasciare lì, a terra, i bagagli. La seguimmo fino alla cucina, dove ci dettero da mangiare: primo, secondo e pane. Poi fummo lasciati ancora un volta soli. Nell’acquaio del locale, c’era un accumulo di stoviglie sporche; pensammo bene di lavarle, il necessario per farlo, era lì appresso. Nel corso del pomeriggio, sempre con la scorta, andammo a prendere i nostri fardelli, e li portammo in una camera di sicurezza, dotata di sei brande. La guardia ci spiegò in tedesco, ma noi lo capimmo dai gesti, che in quel locale avremmo passata la notte; poi andammo a cena. Ripetemmo il lavaggio dei piatti, e infine fummo accompagnati in guardina a dormire. La porta della cella non fu chiusa; fuori a destra c’era un bagno tre stelle, con WC. All’indomani, replica dei soliti percorsi, con relative soste. Ormai era tutto di routine: anche l’ignoto sguattero della polizia, si era evidentemente abituato a trovarsi i piatti lavati e asciugati. Si continuò così in serafica attesa della nostra sorte. Tutto sommato mica si mangiava male presso la Polizei. giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO
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IL
CAMPO DI PUNIZIONE Qualche giorno dopo, di buon mattino, un soldato, con elmetto e fucile ci intimò: "Kommen!", e con un dito, indicò di prendere le nostre robe e di seguirlo. E qui capimmo cosa vuol dire: essere, o essere considerati delinquenti, anche nei paesi democratici e neutrali. Nessuno ci informò, se eravamo stati puniti per il nostro "reato"; eventualmente in quale misura, e dove eventualmente ci avrebbero portati ad espiare le nostre colpe. Comunque, prendemmo tutto con filosofia e pensammo che; sicuri di non essere stati condannati a morte; valeva la pena di vivere anche quest’esperienza da fuori legge. Il militare; che non capiva una parola che non fosse di lingua tedesca; ci portò alla stazione, dove salimmo su un treno diretto al nord. I posti a sedere erano tutti occupati, e dovemmo rimanere in piedi e affiancati, nel corridoio della carrozza. Il viaggio era interminabile e si svolgeva in plaghe piuttosto brulle e pianeggianti. Nei pressi di una fermata, la porta a cui ero appoggiato si mosse, ed io dovetti scostarmi per lasciare uscire una persona con valigia, che doveva scendere. Approfittai per entrare nello scompartimento e, con un sospiro di sollievo, sedermi nel posto lasciato libero. Poco dopo, attraverso il vetro della porta, vidi la mia guardia agitarsi e correre avanti e indietro per il corridoio, come se avesse perso il portafogli. I miei compagni erano invece sempre fermi, in piedi e tranquilli. Ne dedussi, che il nostro gruppo non fosse in procinto di scendere. Poi, il mio sguardo incrociò quello del soldato svizzero. Questi, con un balzo, si avventò ad aprire la porta scorrevole e, urlando in tedesco, mi scatarrò addosso, immagino, tutte le più brutte parole del vocabolario teutonico; incurante che gli altri passeggeri ascoltassero il suo forbito eloquio. Intuii che non si fosse accorto, che lo scompartimento mi aveva risucchiato e, a gesti, cercai inutilmente di esprimere il mio rammarico. Una signora presente alla scena, mi guardò ammutolita, facendomi capire con gli occhi che disapprovava il linguaggio e il comportamento del suo connazionale in uniforme. Gli altri presenti, sembrava che dicessero: "Son de Rovigo, e non m’intrigo.". Naturalmente finii il mio viaggio, in piedi, e nel corridoio. Il mio inconscio, ha rimosso ogni ricordo, di quel tragitto; sì che non so dire dove mi trovassi, quando il mio Caronte, mi fece sbarcare, con gli altri tre dannati. Era pomeriggio inoltrato, e davanti a me apparve una landa sterminata, bruciata, cosparsa di torbiere moreniche, a perdita d’occhio. " E questa è Svizzera? ", mi chiesi. "Ma mi faccia il piacere!", avrebbe risposto Totò. Dalla stazioncina, tipo Far West inizio ‘800; dipartiva verso l’infinito una carraia di colore bruno, sulla quale ci incamminammo. Avanti non si scorgeva, né vicina, né lontana, alcuna costruzione. Per ordine ricevuto, procedevamo in fila indiana: dietro di tutti il nostro cerbero, con elmetto, e fucile sottobraccio; poi venivo io: il criminale più pericoloso; e infine, i tre picciotti della ghenga. Dopo circa un’ora di marcia, bagnati di sudore, vedemmo apparire all’ orizzonte, qualcosa che poteva essere un baraccamento. Procedendo, accertammo che infatti lo era. Quando fummo molto più vicini, distinguemmo che si trattava di un immenso campo di punizione. Due grandi quadrati concentrici reticolati, alti quattro metri; di filo spinato, fissato su colonnine di cemento armato. Agli angoli della cinta, dominavano altrettante torrette di sorveglianza; in legno e con tetto di paglia; occupate da militari armati di mitra. Lo spazio cintato era costellato di basse costruzioni anch’esse di legno. Fummo consegnati all’accettazione presso la quale, dovemmo depositare i nostri bagagli, le cinture dei pantaloni, le stringhe delle scarpe, i portafogli e ogni altro oggetto che avevamo nelle tasche. In cambio ci fu assegnata una gamella per il rancio, e un cucchiaio di alluminio. Mi fu permesso di prendere dalla mia valigia, il sapone e l’asciugamano. Forse anche il necessario per radermi, perché essendo io intollerante alla barba lunga, non ricordo di aver avuto questo fastidio. Poi ci accompagnarono in una baracca, dove trovammo un posto a terra, nella paglia. Notai che recinzioni di filo spinato isolavano, all’interno del campo, anche le varie costruzioni. Nella nostra eravamo tutti italiani, le altre; erano occupate distintamente da francesi, polacchi, romeni, russi, e via dicendo. Il rancio della sera, ci riservò due sorprese. Prima: la portata era costituita da un ramaiolo di patate, tagliate a fette sottili e disidratate all’origine; fatte poi rinvenire in acqua bollente nel nostro lager; scolate, e così distribuite ai prigionieri. Niente altro. Seconda sorpresa: quel menu, ci sarebbe stato servito invariabilmente, mattina e sera, per tutta la nostra permanenza in quel campo. Se c’era qualcosa che abbondava laggiù, era il tempo libero nel quale, per altro, non ci si annoiava, perché ciascuno raccontava le proprie traversie e ascoltava quelle degli altri. Alla prima presentazione, uno chiedeva: "Tu che cosa hai fatto?". Quando toccò a me risposi: "Ho cercato di rientrare in Italia; e tu?". Il mio nuovo compagno, nativo di Padova; che mi disse di chiamarsi Paolino; confessò senza reticenze: "Go robà!". E quando tentai di far capire, a questo ladro, che rubare è un’azione disonesta, che porta in prigione, lui rispose senza scomporsi: "E ti, che no ti ga robà, ti xe, o no ti xe, qua con mi?". (tr.: E tu che non hai rubato, sei o non sei qui con me?). Touché! Con questo strano amico, eravamo sempre in contrasto di principi, e talvolta si arrivava anche alla soglia del litigio. Una sera, sdraiati sulla paglia, in attesa che si spegnessero le luci per addormentarci; sorse uno dei soliti battibecchi, che però avvenivano a bassa voce, per non disturbare gli altri. Lui, stizzito, aveva appena accesa la terza sigaretta, ma la spense subito, perché improvvisamente, dalla porta, era entrata una guardia. Questa annusata l’aria, come un can segugio, gridò qualcosa in tedesco, in cui ricorreva il vocabolo rauchen; poi, visto che non capivamo, fece uno forzo e chiese ripetutamente in francese: "Qui fume?..Qui fume?". Nessuno rispose e quello se ne andò imbronciato, grugnendo parole che capiva soltanto lui. Subito, Paolino, curioso e meravigliato volle sapere: "Perché, non ti ga dito, a quel cruco, che gèro mi a fumar?". (Tr.: Perché non hai detto a quel tedesco che ero io a fumare?). Fui sorpreso a mia volta: "Perché, è sleale fare la spia.". Fu soddisfatto della risposta: mi guardò con ammirazione e dichiarò: "Anca nualtri ladri, non faxemo mai la spia.". (Tr.: Anche noi ladri non facciamo mai la spia.) La maggioranza era gente come me, che scontava il "delitto" di tentato rientro clandestino in Italia. Facile dunque, che si formassero dei crocchi di commento e consultazione, poiché l’argomento era interessante e ciascuno faceva tesoro delle esperienze altrui, avendo in cuor suo il proposito di ripetere il tentativo non riuscito. In queste riunioni, teneva banco uno spallone comasco, dedito ad importare illegalmente nella Confederazione: riso, caffè e bottiglie di liquori. Al rientro in Italia, esportava parimenti, bricolle di sigarette, di dadi di pollo e di tavolette di cioccolata. Il contrabbandiere, confessò che non lo avrebbero beccato, se una notte non si fosse ubriacato. Dava volentieri informazioni e consigli a tutti. Quando gli raccontai la mia disavventura mi criticò in dialetto: "Ti te set sta un ciola, a andà a Briga. Te dovevet andà a Ciass.". (Tr.: Sei stato uno stupido ad andare a Briga. Dovevi puntare su Chiasso!"). Chiaro: Chiasso, si trova a due passi dalla rete di frontiera; questa, tra l’altro, è perennemente foracchiata da passaggi di clandestini, ed io lo avrei dovuto sapere. Così infatti ero arrivato in Svizzera. "Ciola!" Dopo alcuni giorni, le guardie ci scortarono in una baracca, con molte sedie: insomma una specie di sala conferenze. Quando ci fummo accomodati, arrivò un Pastore anglicano, molto simpatico, che parlava un corretto italiano. Non tenne un sermone, ma un discorso sedativo di questo tenore: "Ragazzi, la più parte di voi è qui, per aver tentato di rientrare clandestinamente in Italia. Da un certo punto di vista, è encomiabile il vostro amor patrio; ma l’atto che avete compiuto, è in contrasto con la legge svizzera, e noi svizzeri abbiamo dovuto assolvere il nostro dovere. State tranquilli e abbiate un po’ di pazienza: presto l’Italia riaprirà la frontiera, e voi potrete ritornare nel vostro amato Paese." Detto ciò, l’oratore invitò i suoi aiutanti, a distribuirci una razione di pane e formaggio Emmental. Questo atto, risollevò il nostro morale e il nostro stomaco, molto più delle sue, pur ammirevoli, parole. |
ACHTUNG!
ACHTUNG! FEUER! Davanti all’entrata della nostra baracca, c’era uno spiazzo di terreno nudo, cintato con filo spinato, nel quale potevamo sostare, per prendere una boccata d’aria, quando se ne aveva voglia. Di là dalla cinta; si aggiravano a turno; per sorveglianza a vista; tre guardie armate, con mitra tenuto sempre in posizione di fuoco. Con una di queste guardie, che pur essendo di Zurigo, parlava anche il ticinese e capiva bene l’italiano, scambiai dapprima qualche parola; poi, col passare del tempo, finimmo per intavolare qualche breve, cordiale conversazione. Una cosa, però non mi lasciava tranquillo: durante i nostri colloqui; che avvenivano, in posizione ravvicinata, di qua e di là dal filo spinato; lo svizzero teneva il mitra; che sapevo carico e senza sicura; puntato a un palmo dal mio stomaco. Pensavo, che il suo dovere, non sarebbe divenuto meno, se l’arma, fosse stata spostata, trenta centimetri a destra o a sinistra del mio ombelico. Così, nel corso di un nostro incontro gli dissi: "Senta, quel mitra è carico: non potrebbe puntarlo un po’ più in là?". Nel parlare, allungando lentamente il braccio destro, presi tra il pollice e l’indice, della mia mano spiegata, la bocca del mitra, e, blandamente la scostai di una spanna. La guardia, che forse non si attendeva un atto del genere, rimase un secondo interdetta; indi cambiò violentemente espressione: vidi il suo visto trasfigurarsi in una grinta paonazza, gli occhi pieni d’odio; la sua, bocca vomitò una sequela di urli minacciosi in tedesco, di cui distinsi soltanto , tra gli altri rigurgiti, il ridondare delle parole: Achtung! e Feuer! "; mentre le sua arma nervosamente compiva un va e vieni frenetico in direzione del mio piloro. Mi scostai, con un salto indietro, e dandogli del tu, senza nemmeno rendermene conto, gridai spaventato: " ’Ste fet!... Santa Madonna!". Non so se la mia esclamazione, esorcizzò il diavolo che quel forsennato aveva in corpo; o se da lui fu intesa come la voce della sua coscienza; fatto sta che il soldato, girò sui tacchi di quarantacinque gradi, e mormorando come dicesse il rosario, riprese calmo, a camminare avanti e indietro. I compagni, presenti alle scena mi rimproverarono: "Sei matto? Toccare un’ arma a uno di quelli... meglio i fili dell’alta tensione! Ti è andata bene: una volta, qui, un rifugiato russo, si rifiutò di obbedire all’ordine di ramazzare datogli da una guardia; questa allora gli sparò, e lo uccise. Il Comando verbalizzò che ... il soldato aveva sparato, perché il prigioniero non aveva ubbidito a un ordine.’. Così il caso fu chiuso.". Poco dopo, fui colto da brividi. La paura, quasi sempre, arriva in ritardo. giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO
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IL
RIMPATRIO Al quindicesimo giorno di detenzione, fui chiamato, con gli altri tre compagni di Weissemburg, al Comando; dove un Brigadier, che parlava francese, ci comunicò che stavamo per essere scarcerati. Già una guardia, bardata in assetto di guerra, ci attendeva all’uscita, di là dal filo spinato. Quando domandai dove eravamo destinati, per tutta risposta il Sottufficiale, indicandomi un bancone lì appresso, mi ordinò "Allez-y ". Mi trovai di fronte a un poliziotto del Canton Ticino, il quale, sul piano, aveva già stesi i miei oggetti personali: cinghia, stringhe, portafogli eccetera, e mi guardava, con aria divertita, a braccia conserte. Una rapida occhiata e, ritirando tutto, reclamai: "Qui manca il mio coltellino!". Il ticinese, aprì il cassetto, tirò fuori e mise sul bancone il mio temperino poi, sempre a braccia incrociate domandò: "L’è quest?" (Tr.: È questo?) e, senza attendere risposta, aggiunse: "Ma questa, l’è un’arma proibida!". (Tr.: Ma questa è un'arma proibita.). Arraffai di volata il mio arnese, e gli risposi: "Anca grattà l’è proibì!". (Tr.: Anche rubare è proibito!".) Il poliziotto non si mosse, e si limitò a ridere. Fu l’unica faccia umana, che vidi all’interno di quel girone dantesco. Più avanti, su una panca, ritrovai la mia valigia: la misi a terra, mi allacciai la cintura, stringai le scarpe, e intascai gli altri oggetti. I miei svampiti compagni, erano già, pronti. Come brave pecorelle ci mettemmo in cammino, sulla via del ritorno; col can pastore alle calcagna. Da bravo ex carcerato, mi ero incarognito, e durante tutto il viaggio di ritorno, studiai un nuovo piano di fuga: basta compagni di viaggio! Basta Briga! Obiettivo: Chiasso! Nel progettare, il tempo passò rapido e mi accorsi, quando la guardia ci ordinò di scendere, che eravamo alla stazione di Weissenburg. Ritornando al nostro Lager prevedevo di essere dileggiato dai compagni; che invece ci accolsero festosi, subissandoci di domande sulla nostra avventura. Una volta tanto l’eroe ero io, e non dovevo perdere questo ruolo, per cui dichiarai baldanzoso: "Non mi piego, e ritenterò!". Fui lieto, di rilevare che i miei tre paperini si fossero risparmiati di annunciare: "Anche noi!". Ma un secondo tentativo di fuga non fu necessario, perché, qualche giorno dopo, ci comunicarono, che era giunto l’ordine di rimpatrio: l’Italia aveva riaperto le frontiere. Venne al campo un fotografo, e scattò, a chi non l’aveva, una fotografia formato tessera, la quale servì al Comando, per consegnarci poi, un documento personale di riconoscimento, attestante il periodo di permanenza in Svizzera, quale rifugiato militare. Era la prova che veramente saremmo tornati a casa. Quello del viaggio di ritorno, fu un giorno di grande emozione per tutti: stentavamo a convincerci che era vero: si tornava in Italia! Ricordo soltanto che quel mattino, dopo la colazione, fummo accompagnati a Weissemburg, dove salimmo su un convoglio speciale proveniente da Zweisimmen, già pieno di rifugiati; ma gli svizzeri le cose le fanno perbene, e trovammo tutti posto a sedere. L’impazienza di arrivare non fermò nella mia memoria, alcun ricordo di quel percorso in treno. Sicuramente scendemmo a Chiasso, e fummo condotti allo stadio, che io già ben conoscevo.
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ITALIA,
ITALIA! Primo batticuore: nel prato dello stadio, una decina di autocarri militari italiani, scoperti, con tanto di targa tricolore e la sigla R.E., ci attendevano affiancati, con le sponde posteriori aperte, e panche fissate sul pianale. Un Tenente italiano, in piedi su un bauletto grigioverde, e con una lista in mano, cominciò, usando un altoparlante, a fare l’appello dei rimpatriandi. Il "reduce" chiamato, presentava il documento di riconoscimento a un maresciallo; che sostava presso il primo autocarro; e poi, alla riconsegna della carta, saltava sul camion e si sedeva. Come un autoveicolo era completo, partiva subito, e iniziava il carico di un altro. Quando toccò a me, tutto mi sembrò irreale. Salii sull’autocarro, e mi sedetti a fianco di altri. Poco dopo udii un ordine, il motore fu acceso e il veicolo si mise in marcia. Un altro propulsore batteva forte, qui dentro. Viaggiavamo veloci: "Ciao Svizzera: grazie!"; le barriere di Chiasso erano aperte, e quelle dell’Italia pure: passammo senza fermarci e incominciai a vedere le prime case italiane, e la gente italiana, e le rovine della guerra italiane. Un flusso quieto, senza singhiozzo, mi rigò le guance. Non mi vergognai: era il risultato di un sentimento che, allora esisteva ancora, e si chiamava: "Amor di Patria". Fummo scaricati in una caserma, sede del "Centro alloggio di Como", dove compilarono una scheda di cui, con una banconota, mi fu data copia, e sulla quale era scritto: "Lire cinquecento di anticipo". Sul retro: altra annotazione: "Deve presentarsi al CAR - Comando 1^ Squadra Aerea - Ha subito la bonifica?: NO.". Forse mi dettero anche qualcosa da mangiare; ma non ci giuro. Quando mi rilasciarono, corsi alla stazione ferroviaria di Como e, con le lire italiane da poco avute, acquistai un biglietto per Milano. Arrivato: salii su un tram (che effetto!) e corsi a casa. Altra caragnata con mia Mamma. Questa volta con singhiozzo. Verso sera, esplorai il rione Calvairate. All’aperto, in piazza Cuoco, era stata allestita una balera pubblica, come molte altre nella città, ornata di tante, tante, tante bandiere rosse con falce e martello e, qualcuna, a stelle e strisce e Union Jack. Dagli altoparlanti sgorgavano, alternandosi, ballabili italiani, e musiche Jazz americane. Imperava il boogie woogie, e le ragazze lo apprendevano direttamente dai soldati yankee, che le invitavano dicendo: "Segnorina: for me? Okai?". Mi allontanai da quella piazza, mentre gli amplificatori diffondevano una canzone nuova, nuova; che incominciava con queste parole: "Sola, me ne vo’, per la città, / Passo tra la folla, che non sa, / Che non vede il mio dolore...". La tristezza di quei versi equilibrava un poco i miei sentimenti: tanta gente aveva una gran voglia di divertirsi, e di ballare; e tant’altra era sicuramente chiusa in casa; a piangere i propri morti ammazzati! Udii una sirena: era una Jeep, della M.P. angloamericana. Ah! Già! Sono presenti anche i "Liberatori". Era la sera del 19 Luglio 1945. L’aura stagnava, calda, greve; e dai tempi lontani della scuola, mi giunsero le parole del Vate: "Ahi serva Italia, di dolore ostello, / Nave senza nocchiere in gran tempesta / Non donna di provincie, ma bordello! " . FINE NOTA - I fatti descritti nei racconti delle Serie: "Servizio Militare" ed "Helvetia", tratti da mie esperienze personali, sono oggettivamente accaduti e le persone citate veramente esistite, i cui nomi tuttavia, per motivi di privacy, non corrispondono sempre a quelli reali. Anche nomi di località e di aziende, in qualche caso non sono quelli veri. Dedico questi modesti lavori a chi ricordo con affetto e che, qui sotto, elenco: Renzo Vanzini di Mirandola (Modena) / Capitano Ostali / Mirella Rambaldi Armellino (Svizzera) / Hedy Kläy (Svizzera) / "Fata Turchina" / e ai Ferrovieri Italiani, i quali mi aiutarono con personale e reale rischio, nella mia avventura dell’ 8 Settembre 1943. giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO |