Continua... Racconti della serie: "Helvetia"
LAGER
ZWEISIMMEN. Nel Lago di Thun, sfocia il fiume Simme, da una vallata che ne prende il nome: Simmental. Risalendo, per un lungo tratto, questa bellissima valle, si scopre che il corso d’acqua riceve un affluente e, in quel punto, sorge un grosso borgo turistico che si chiama Zweisimmen (ossia "Due simmen" = "Due fiumi"); m. 495 sm.. Questa signorile cittadina, scintilla di luci e di oreficerie; di negozi di articoli sportivi e di boutiques; e proprio qui, i rifugiati di Allenlüften trovarono il loro nuovo alloggio. Il Lager, ricavato in una vecchia locanda, non aveva nulla da invidiare in fatto di essenzialità, alle comodità; si fa per dire; già godute nei precedenti campi di accoglienza: stessa fossa biologica, stessa fontanella all’aperto per le pulizie, stessa paglia, stessi tavoloni e panche. Seguendo il Simme oltre Zweisimmen, si incontra dopo circa venti chilometri il centro sciistico di Lenk, poi il fiume, per altrettanta distanza, s’inerpica sul ghiacciaio Wildhorn, da cui nasce. Guardando il ghiacciaio Wildhorn da Zweisimmen, si ha l’impressione che la vallata si chiuda, là in fondo, con un’immane parete di ghiaccio, la quale; e questa è una verità tangibile; fa sentire il suo gelido alito. Tanto; per convincere che in quelle località, si registrano in inverno temperature molto basse, anche di 25-30° C. e più sotto zero. Nel Novembre 1944, quando noi arrivammo, le strade erano oramai lastricate di ghiaccio. Rammento che al mattino, non appena alzato, scendevo con altri, alla fontanella del giardino per lavarmi, e quando mi asciugavo; si era già abbondantemente sotto zero; i capelli mi si irrigidivano per l’istantaneo agghiacciarsi dell’umidità residua, e il naso, al tatto, crocchiava per congelazione dell'umidità interna. Nell’attuale accampamento, ebbi, come sempre, alcuni nuovi compagni, tra i quali un certo Giardini: virtuoso violinista, pieno di superbia e di sussiego. Questo musicista, allacciò amicizia, nel nostro ambito, con un suonatore di chitarra e velleitario cabarettista; con cui trovò facili ingaggi nei caffè del luogo. Io, ed altri rifugiati, li seguivamo in questi locali, perché ci divertivamo, sia per l’indiscussa abilità del violinista, il cui cavallo di battaglia era un pezzo di Paganini, intitolato "L’usignolo"; sia per le improvvisazioni del cabarettista, il quale, a suon di chitarra; contando che il dialetto milanese fosse ignorato, come lo era, dagli abitanti del luogo; scaraventava sui presenti, canzoni e stornelli contornati dai più scurrili termini ambrosiani. Come non bastasse, questo bel tipo terminava i suoi pezzi, urlando al pubblico un ripetuto: "E ti, và a dà via...", con quel che segue. Noi lombardi ci ritenevamo esclusi dal... consiglio, e crepavamo dal ridere, vedendo gli svizzeri che, ignari, approvavano queste becere uscite, spellandosi le mani per gli applausi e per chiedere il bis. A capo della guarnigione che ci sorvegliava, era un Lieutenent, (con moglie appresso), della svizzera francese: longilineo, azzimato e a prima, vista, alquanto scostante. Questo ufficiale e moglie, entrarono in confidenza col nostro duo di musicisti e, quel che è peggio, anche con i due cucinieri italiani, addetti al nostro rancio. La combriccola, si appartava ogni tanto per banchetti privati; e fino a qui, poco da obiettare; se non che noi, comuni rifugiati militari, notammo, dopo qualche tempo, che le razioni nei nostri piatti scarseggiavano di grammatura; che la marmellata era allungata con acqua; che il caffelatte del mattino, tradiva il vecchio trucco, dello zucchero tagliato con pari peso di sale. La constatazione, non era solo mia personale, ma di tutti i rifugiati del nostro campo, per cui, assieme, fummo d’accordo di rendere noto al Lieutenent Deladier, che avremmo gradito, la sostituzione dei cucinieri, nostri compagni. "Chi s’incarica di parlare?. Si offrì il sottoscritto; il quale, nel corso di un rancio, si alzò e riferì: "Signor Lieutenent, parlo a nome di tutti noi, per chiederle cortesemente, di sostituire i cucinieri, in quanto non riscuotono più la nostra fiducia.". L’ufficiale, restò un momento pensoso; poi rivolto ai miei compagni, giustamente interrogò: "Qui est d’accord? " (tr.: Chi è d'accordo?) Da bravi italiani, nessuno fiatò; e allora il mio interlocutore ebbe buon gioco a replicarmi: "Fiduscìa, fiduscìa... Si vous n’étez pas d’accord: alors allez chez vous!". (tr.: ... Se lei non è d'accordo, allora ritorni a casa sua!"). Mi sedetti, e con giustificato voltastomaco, guardai intorno i miei commensali. Intendiamoci! Non è che il Lieutenent fosse complice nelle ruberie dei cucinieri. Non lo voglio pensare. Egli li proteggeva, in omaggio all’amicizia che loro riservava; trascurando però, il suo precipuo dovere di controllo dei servizi. Passato oltre un mese di permanenza nel nuovo Lager; non avevo dimenticato che il mio abito, già da tempo avrebbe dovuto essere pronto, presso il sarto a Laupen. Il dilemma era: chiedere o no al Lieutenent Deladier, il permesso di assentarmi da Zweisimmen, per ritirare l’indumento? Certamente, se costui mi avesse negata l’autorizzazione, avrei avuto un grosso problema, per ricuperare il mio vestito. Decisi di non correre questo rischio, e di confidare nella mia buona stella. Certo com’ero che, alla sera l’appello dei rifugiati avveniva per chiamata; chiesi ed ottenni da un compagno di rispondere per me "Presente!". E con buon pace di monsieur Deladier, me ne andai beato in ferrovia, per valli e per monti fino a Laupen; da cui, il giorno dopo, felicemente tornai a Zweisimmen, col pacco del mio vestito nuovo. Alla vigilia di Natale, corse voce nel campo rifugiati, che eravamo tutti invitati, la sera stessa, ad una cena presso un ristorante del luogo. Un’anima buona, sapendoci lontani dalle famiglie, voleva attenuare, con un atto di calore umano e di generosità, la tristezza, che la ricorrenza avrebbe destato nei nostri animi. Un salone riservato, del migliore Hotel di Zweisimmen, ci accolse, addobbato per l’occasione, con luminarie e un grande albero di natale. L’idea che qualcuno avesse pensato a noi con questo invito, ci commuoveva e ci allietava ad un tempo. I nostri anfitrioni, li trovammo in fondo, oltre la tavolata preparata per la cena. Erano due attempate e gentili signore, che ci attendevano sprofondate in ampie poltrone, dinanzi al camino acceso. Scambiammo tutti con loro, due parole di presentazione e di augurio; dopo di che fummo invitati ad accostarci alla lunga tavolata. Nel corso del cenone soddisfacemmo, oltre al palato, anche le domande delle care ospiti, sulle nostre vicende militari e famigliari. In quelle condizioni, l’allegria nacque spontanea e per qualche ora, scacciò in noi l’assillante tormentosa domanda: "Ma quando torneremo in Italia? Ma quando?". Il convito dileguò con un brindisi e al canto di "Bianco Natale". VIRTUOSISMI SCIATORI Alla periferia della cittadina, sfociava una pista per campionati sciistici, le cui manifestazioni avevano luogo, di norma, la domenica. Negli altri giorni, la pista, il cui inizio si perdeva nell’alto della montagna, era di accesso libero a tutti. Il tracciato finiva con una discesa ripidissima, di circa 35°, alla quale seguiva uno spiazzo di un centinaio di metri, perfettamente orizzontale, arginato dal muro di alcune case. In quest’area piana, a cinquanta metri dalla fine dell’impianto, che disponeva anche di sciovia, si ergeva lo striscione del traguardo. Prudenzialmente, accanto alle costruzioni stazionava, in permanenza, un’autolettiga. La discesa che precedeva la Ligne d’arrivée offriva, durante le gare, uno spettacolo interessantissimo, e non solo sportivo, ma anche chiaramente acrobatico e da brivido; perché un discesista, che fosse caduto al termine del pendio, avrebbe arrischiato, quasi senza appello, di fermarsi soltanto contro i muri di fine pista. Unica fortuna, diciamo, per l’eventuale malcapitato: l’autolettiga lì, pronta ad accoglierlo. Quando non c’erano gare, lo spettacolo in pista cambiava, e da sportivo-acrobatico, diveniva tragicomico, poiché a cimentarsi con la discesa erano, salvo i pochi veramente esperti; gli esaltati, e gli ottimisti. Quasi sempre, questi dilettanti, cadevano per emozione o inabilità, poco dopo aver imboccato, là in alto, la ripida discesa e, capitombolando disordinatamente, con sci, racchette e scarponi; mettevano in atto un’involontaria azione frenante; la quale, data la lunghezza del percorso, li salvava quasi sempre, dall’impatto finale con le case. In ogni modo il divertimento, per gli spettatori un po’ cinici, era assicurato. Evidentemente da Allenlüften, era stato trasferito con noi, anche il ladro, di attrezzi sportivi; giacché nel nuovo Lager, apparvero; sempre di proprietario ignoto; due paia di sci e tre slittini di varie dimensioni. Questi furti non presentavano difficoltà di sorta per il razziatore; dato l’uso che da quelle parti avevano gli svizzeri, di lasciare fuori casa tali aggeggi; così come da noi è vezzo, abbandonare ombrelli grondanti di pioggia, all’esterno della porta d’entrata. Noi rifugiati poi, a forza di trovarci tra i piedi, sci, slitte e racchette, finimmo per usarli quando se ne aveva voglia, non pensando al rischio dei guai che avremmo avuto, se il legittimo proprietario li avesse riconosciuti nelle nostre mani. Un giorno, nell’area di arrivo delle gare, incontrai un compagno che si riposava, dopo essersi destreggiato con sci, prelevati al Lager. Gli spiegai: "Senti: io non ho mai messo ai piedi un paio di sci. Mi lasceresti provare un attimo?". E quello con indifferenza: "Fai pure: il collo è tuo.". Si slacciò gli attrezzi e, un po’ ghignando, mi aiutò anche ad indossarli; poi si sedette a vedere. Io, in piedi, puntato sulle racchette, attesi; come un atleta al trapezio; il giusto momento psicofisico per lanciarmi. Infine, con un: "Op-là!" del pensiero, presi l’avvio. Cinque metri dopo, mi si incrociarono gli sci, e mi piegai violentemente sulla neve, poggiando con le natiche. Essendo fortunatamente in piano, mi arrestai subito e, per caso, proprio sotto lo striscione del traguardo. All’amico che, ridendo, corse a darmi aiuto, mentre stavo per rialzarmi, imposi serio: "Aspetta un attimo!". Poi chiamai il fotografo ambulante, che cercava clienti nei dintorni e mi feci riprendere in posizione eroica. Ritirai lo scontrino e, in seguito, la relativa fotografia presso il negozio indicatomi. Ma con gli sci non ci riprovai. La fotografia? La conservo, ma non ho più né l'età, né la voglia, di vantarmene con gli amici. Tra i miei nuovi compagni, scovai uno strano amico: un pastore sardo: capelli nerissimi, faccia incartapecorita e bruciata dal sole, altezza un metro e mezzo, ed età impossibile da definire. Abitualmente taciturno, si arguiva che sui monti della Barbagia, dove aveva custodito gli armenti, fosse dedito nella solitudine alla meditazione. Mi chiedevo, se succhiasse caramelle d’allume di rocca, perché normalmente rispondeva in punta di labbra, con la lingua legata, nel suo più stretto dialetto. Se richiesto, però, traduceva quanto aveva da dire, con le cento parole d’italiano che conosceva. Si chiamava Nieddu e per me aveva molta simpatia in quanto, contrariamente agli altri, non lo deridevo per la sua ignoranza. Si divertiva un mondo quando, con le slitte del Lager, componevamo il "treno", che si metteva insieme così: io mi adagiavo sdraiato a bocconi su una slitta, impugnando le due estremità ricurve della parte anteriore; poi, con i piedi divaricati, agganciavo una seconda slitta; su cui Nieddu sedeva come un sultano, con le gambe incrociate e aria trionfale. Insomma un congegno ideale per finire entrambi all’ospedale. Avevamo scelto, per le nostre scivolate, un percorso in leggera pendenza, di un centinaio di metri e quasi sempre deserto; il quale, dal piano dell’Arrivée, scendeva sino alle prime case del borgo, dove il declivio finiva. Tutto andò bene per molte discese; ma un giorno, quasi a termine di percorso, un bambinello mi attraversò improvvisamente la strada e, per non investirlo, dovetti sterzare decisamente a sinistra, per cui, dopo qualche metro, mi rovesciai con violenza, sui gradini d’accesso di una palazzina. Nieddu, catapultò tre metri avanti a me, con la sua slitta; sganciatasi, non so come, dai miei piedi. Restammo, per grazia ricevuta, incolumi e definitivamente risanati dalla voglia di slittare. Il nostro rapporto d’amicizia continuò, però, immutato. giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO |
LA
FALEGNAMERIA "STEIGER". Le guardie svizzere ci informarono che la Falegnameria di Saint Etienne, un paese ad alcuni chilometri da Zweisimmen, era disposta a dare lavoro a rifugiati militari italiani. In diciotto accettammo e, per i viaggi, ci fu consegnato un tesserino personale di abbonamento alla ferrovia, a scartamento ridotto, che percorreva la valle del Simme. Alle sette di ogni mattina, salivamo regolarmente, ciascuno per proprio conto, sul trenino; il quale, dopo una mezz’ora di monotono tran-tran, ci scaricava a Saint Etienne. Alla Mensa della Falegnameria, consumavamo un petit café au lait, ( il petit ce l’ho messo io), e poi: via al lavoro. Eravamo nel Gennaio 1944, il tempo era magnifico, ma la temperatura a meno 26° C. Il mattino del primo giorno, venne a prelevarci alla Mensa, un ometto dagli occhi celesti; un factotum della Direzione, che ci accompagnò allo stabilimento. Questo capetto, consegnò a ciascuno di noi, un metro snodabile di legno, raccomandandoci di non perderlo, pena l’addebito. Il mio primo commento mentale fu: "Qui ho bevuto un caffelatte, diciamo, ristretto; mi hanno dato un metro di cento centimetri e non un doppiometro; e messo alle dipendenze di un omino, pure lui ridotto: ho la vaga impressione che la Direzione, lavori all’insegna dell’economia.". Non mi sbagliavo. Kruger, così si chiamava il nostro caposquadra dal viso pallido e sguardo celestiale; non era per niente stupido, anzi. Si intendeva di tutto: di impianti elettrici; di macchine utensili; di riparazioni; e di ogni tipo di lavorazione: dalla pianta da abbattere, al taglio delle assi, alla loro stagionatura, sino alla produzione di semilavorati, e prodotti finiti. Ciò che, col tempo, finii per ammirare in quella Falegnameria, fu il metodo, l’efficienza, e l’organizzazione. Anche se eravamo destinati a compiti di bassa manovalanza; per esempio; Kruger, prima di assegnarci il lavoro, ci portò a visitare tutti gli impianti; e fu un’esperienza interessantissima. L’Opificio sovrastava un corso d’acqua; non so se fosse il Simme stesso o un canale derivato; da cui traeva l’energia per le proprie lavorazioni. Sotto il piano terra, infatti, era situata la rumorosa sala delle turbine, le quali, mosse dal corso d’acqua; in parte azionavano gli alternatori per la produzione di energia elettrica; e in parte muovevano pulegge da cui, tramite un complesso di cinghie di trasmissione, il moto rotatorio era rinviato direttamente a macchine operatrici, collocate al piano superiore. Ogni punto di lavorazione, là dove si producevano trucioli o segatura, veniva immediatamente ripulito da un tubo di aspirazione, il quale sfociava, al di sopra dei capannoni, in un grosso collettore generale, a sezione circolare, che trasferiva gli sfridi prodotti dalle macchine, in cima a un silos; da cui cadevano all’interno. Un raccordo ferroviario, entrava nella Falegnameria, e, scendendo per uno scivolo, metteva i carri merci, col piano di carico a livello del piano di terra del silos; e a pochi metri di distanza. Il lavoro degli operai, si limitava quindi al trasporto, orizzontale della segatura, dal silos al carro ferroviario. L’orario di lavoro era: 8/12 - 13/17. Al sabato, la giornata lavorativa terminava alle 12; ma alle 11, le macchine venivano spente, e gli operai si dedicavano alla scrupolosa pulizia delle attrezzature e degli ambienti di lavoro. Il trillare di una campana, segnalava ogni inizio e ogni termine dell’attività aziendale. Finita questa visita, Kruger, ci dispose all’entrata dei laboratori, in fila e di fronte, invitandoci ad attendere; indi andò ad un vicino citofono per una breve telefonata, e ritornò presso a noi. Cinque minuti appresso, un signore: bel taglio di capelli neri, distinto, in abito da cavallerizzo, che, ritto in sella, montava un baio purosangue, entrò, col suo destriero nel capannone. Egli girò, con alterigia, due volte intorno a noi, poi, senza aprire bocca, se ne uscì con l’animale al trotto. Kruger, irrigidito, e quasi invitandoci alla riverenza, esclamò eccitato: "Herr Steiger! C’est le patron, c’est le patron!".(Tr.:"È il signor Steiger! È il Padrone! È il Padrone!"). A noi il patron aveva provocato, col suo atteggiamento in questo primo incontro, solo una reazione di rigetto, tanto che un nostro compagno, indirizzò sfacciatamente al servile Kruger, il gesto dell’ombrello. Visto che il nostro capetto ci aveva forniti di un metro di legno, ci aspettavamo di lavorare presso una macchina operatrice. Invece no: fummo accompagnati all’aperto, dove trovammo pale e rastrelli, per liberare dalla neve alta ottanta centimetri, strade e spiazzi dello stabilimento, nelle zone dove ne erano ancora ostruiti. Il sole era alto e caldo, per cui non avvertivamo i 26 gradi sotto zero; anzi, dopo una mezz’ora a spazzare neve, incominciammo a sudare e a toglierci qualche indumento, concludendo poi, per lavorare a torso nudo. Verso sera però, quando il sole, improvvisamente si eclissò dietro la vicina montagna; subito un freddo polare calò sui nostri toraci scoperti, e dovemmo rivestirci in fretta, per evitare qualche malanno. Scherzi dei raggi infrarossi. Di tanto in tanto appariva, con passo felpato, il patron herr Steiger, e dall’alto della sua statura, che era quasi uguale alla mia; ci rivolgeva, in un italiano abbastanza comprensibile, qualche domanda sul nostro lavoro; poi se ne andava senza salutare. Una mattina, poco prima di mezzogiorno, Steiger ci colse a chiacchierare in quattro, appoggiati al manico delle pale, mentre si attendeva la campana. Domandò con la sua marcata erre moscia: "Come mai afette finito di lafovave?". Fui il primo a inventare sul momento una balla quasi vera: "Signor Steiger: è un’usanza del nostro Paese: si sospende il lavoro, qualche minuto prima del segnale." Lui, con espressione severa e occhi ardenti puntualizzò: "Io fi pago tutti i minuti del fostvo lafovo, e ho il tivitto di pvetendeve che foi lafovate fino alla campana". Replicai spudoratamente con aria contrita: "Sarà fatto. Ci scusi, signor Steiger: non sapevamo che in Svizzera ci fossero altre usanze!." Era evidente che non mi credesse; ma non mi rispose e se ne andò stizzito, sacramentando fra i denti, in lingua teutonica. Prudentemente fra me esorcizzai: "Sia lodato Gesù Cristo!" e subito dopo una campana suonò; ma era quella di sospensione dei lavori. La prima volta che accedemmo alla Mensa della Falegnameria, con una fame da piranha, dopo quattro ore a spalare neve; ci fu servita, una minestra locale chiamata galba; alla vista: pappina color del latte, poco densa, contenente radi puntolini verdi: forse prezzemolo. Il secondo piatto era composto da purè di patate, accompagnato da un intingolo, a base di probabile salsa di pomodoro. Stop. Conseguentemente alla sera, rientrando al Lager, trovammo buone e abbondanti, le porzioni, distribuiteci dai nostri cucinieri ladri, che in precedenza io avevo eroicamente contestati, durante un rancio a Zweissimmen. Quando le aree ingombre di neve furono completamente ripulite, Kruger, ci portò al silos della segatura, ordinandoci di riempire un carro ferroviario coperto; che era fermo a pochi passi, sul binario morto. Due cassoni cubici, trasformati in barelle, con stanghe inchiodate in alto a due facce contrapposte; erano gli strumenti di cui ci dovevamo servire. A scopo stimolativo, ci fu riferito che gli operai svizzeri, che prima di noi avevano svolto questo lavoro; completavano il riempimento in dieci ore. Eravamo in sei, e ci spartimmo i compiti così: quattro rovesciavano segatura nel primo cassone, quando questo era colmo, gli altri due lo andavano a svuotare nel vagone, mentre i quattro riprendevano a calare segatura nel secondo recipiente. Con questo metodo, il nostro carro fu pieno, e pronto per la partenza alla sera, in otto ore. E senza faticare troppo. Evidentemente, la Direzione era soddisfatta del nostro rendimento, poiché nei giorni seguenti continuammo a caricare segatura. Tuttavia, quello di arrivare a sera col vagone completo, era ormai per noi un punto d’orgoglio irrinunciabile; tanto che, per esserne sicuri, avevamo leggermente aumentati i nostri sforzi; al punto che in sette ore e mezza, il carro era praticamente già riempito. Durante il lavoro, i nostri discorsi, a spizzichi e bocconi, puntavano su quanto; in relazione alle nostre forze e affiatamento; avremmo potuto ridurre ulteriormente il tempo di carica di un vagone. Un provocatore affermò: "Io dico, che, se ce la mettiamo tutta: un carro lo riempiamo in quattro ore: lo spazio di una mattinata.". Fu come sollevare un vespaio di obiezioni: "Sei matto? "; "E chi ce lo fa fare?"; "E anche ammesso: noi che cosa ci guadagnamo?"; "Tu non hai le idee chiare!". Ma quello le idee chiare le aveva, perché riprese: "Sentite! Se arriviamo a quanto ho detto, si potrebbe dire a Steiger: - Noi ti carichiamo un vagone in un mattino; e tu ci lasci libero, ma pagato il pomeriggio -. Così: lui, risparmia mezza giornata di noleggio del carro, che non è poco; e noi finiamo di faticare a mezzogiorno". L’idea del pomeriggio libero, ebbe successo su ogni perplessità, ma tutti comunque si conveniva che, prima di tentare una simile impresa; dovevamo essere sicuri che Steiger accettasse la proposta. Visto che già una volta gli avevo parlato, i miei compagni mi chiesero di presentare il nostro progetto al principale. Esitai: era ancora viva in me l’umiliazione che, causa loro, mi aveva inflitta in precedenza il Lieutenent Deladier; ma poi accettai, pensando che qui il caso era diverso: al massimo il patron, mi avrebbe risposto di no. Lo cercai e lo trovai, come sempre incollato in sella al suo cavallo; come Garibaldi, sul suo monumento in piazza Cairoli, a Milano. Gli esposi per filo e per segno il nostro progetto, mentre lui ascoltava con aria incredula e beffarda. Quando tacqui per fine messaggio, mi rispose con due parole: "Potete tentave."; indi tirò bruscamente le redini: il cavallo rinculò; poi con un balzo fece testa coda e, con l’asino che aveva in groppa, mi piantò in asso. Corsi contento dai miei compagni riferendo: "Ragazzi! Steiger, papale papale, ha risposto: - Potete tentare -". Dopo un momento di esultanza, ci rendemmo conto, che questa era una sfida col tempo, che non potevamo perdere; e ci mettemmo subito a studiare come guadagnare secondi, nel cimento che ci avrebbe atteso all’indomani. Noi, con gli operai svizzeri non avevamo contatti sul lavoro, ma i loro umori ci arrivavano per qualche indiscrezione di Kruger, o dei suoi due giannizzeri: Emil e Felix. Così, fummo informati che gli svizzeri, quando vennero a sapere, che noi, in otto ore; riempivamo di segatura un vagone; anziché in dieci come loro; ci avevano preso in uggia; e non si poteva dar loro torto: via i rifugiati; la Direzione avrebbe preteso da loro uguale rendimento. Con questi precedenti; quando nei laboratori girò voce, su che cosa noi stavamo per tentare, autorizzati da Steiger; fu un subbuglio di immaginabili commenti; e non posso giurare, che, oltre a qualche maledizione al nostro indirizzo; non ci fossero scappate anche delle scommesse. Fu quella, una mattinata memorabile. La nostra équipe, alle otto in punto, incominciò i trasbordi di segatura sul vagone vuoto, che ci sembrava più grande dei soliti, ma non lo era. I barellieri correvano con le ali ai piedi; e i caricatori dei cassoni, azionavano i badili a scatti rapidi e precisi: tutto come in una scena da film di Ridolini. Non avevamo mai visto tanti operai svizzeri, passare nelle vicinanze del silos: effetti della curiosità. Noi, sudatissimi nel nostro concitato andirivieni, si recriminava alle critiche che ci scambiavamo. Uno si fermava a riallacciare una scarpa? Eccolo subito redarguito dal compagno: "Dai, muoviti, il tempo corre!" e quello, senza complimenti. "Vaffan..! Devo camminare scalzo?". Non sospendevamo neanche per mingere. La facevamo senza pudore, dove ci si trovava: sul mucchio di segatura nel vagone, o su quello del silos; e, nella fretta, talvolta si... intascava in anticipo, trasformando i pantaloni in un tubo di scarico. Col passare del tempo, i movimenti divenivano meno veloci. il respiro più affannoso, e sentivamo il cuore battere in gola; ma nessuno osò proporre di smettere. Il carro si riempiva con esasperante lentezza, il tempo passava e, sino all’ultimo, rimanemmo col dubbio di potercela fare. Cinque minuti prima di mezzogiorno, l’ultima barella fu caricata; e noi crollammo a sederci affranti; guardandoci l’un l’altro ancora ansimanti; ma sorridenti e dimentichi di ogni improperio che, durante il lavoro, ci eravamo scambiati. Ce l’avevamo fatta! UN SIGNORE VOLTAGABBANA Quando la campana suonò, trovai all’uscita dello stabilimento Steiger, che stava parlando con Kruger. Figurarsi! Capii che sapeva già tutto e, senza preamboli, l’informai: "Abbiamo completato il carro a mezzogiorno. Come d’accordo, signor Steiger, nel pomeriggio ci riposiamo." Lui, con una bella faccia di bronzo, mi bloccò: "No!.. No!.. Foi questa matina, afette mostvato le fostve capacità; alova così dovete lafovave sempve. Anche questo pomeviggio!". Mi infuriai, per lo scherzo di pessimo gusto che costui mi aveva giocato, ma; nonostante l’irritazione e la stanchezza; riuscii a contenermi e a racimolare una risposta abbastanza diplomatica: "Stamani ci siamo stancati troppo, signor Steiger, e quindi non posso assicurarle una nostra uguale efficienza per il resto della giornata.". Detto questo, non attesi risposta: chiamavamo: Balilla. Questo tipetto, biondo, col viso ancora da bambino, che ti fa? Conquista, una ragioniera, impiegata alla Falegnameria, ultrasessantenne, brutta come uno scorfano; e va a conviverci. Lo poteva fare perché, a richiesta, il Comando militare ci autorizzava a domiciliarci, naturalmente a nostre spese, nella località dove svolgevamo il nostro lavoro. L’appartamento della vecchia, era al primo piano di uno chalet affacciato sulla strada principale di Saint Etienne, come dire: un passaggio obbligato quando, dalla Falegnameria, si avesse voluto andare all’unico Gasthof del Paese. Un sabato pomeriggio, transitavo con altri rifugiati per quella via, quando vidi Balilla, affacciato alla finestra, con a fianco la vetusta signorina. I due ci notarono da lontano, ma era troppo tardi per ritirarsi, giacché noi; che li avevamo visti per primi; già sorridevamo, ambiguamente cordiali, al loro indirizzo. La scorfana salutò tranquilla, alzando la grinzosa manina, e Balilla ci rispose con un sorriso alquanto forzato. Non appena fummo sotto la loro finestra, un compaesano del ragazzo lo apostrofò così: "Oehi! Baloss: s' te ghe fet a quela poera tosetta?". E l’altro, suo malgrado stando al gioco: "Mi? Nient: l’è lé, che la me fa, a mi.". E quello: "E cosa la te fa?". Replica: "Pan, butter, e marmelada; e poeu dei bei regai e... una coverta calda per la sira.". Il compaesano concluse allusivo: "Contala giusta Balilla!". E lui, seccato: "Va’ via: mort de famm!". Traduzione rapida per gli extralombardi: "Ehi, monello: cosa fai a quella povera bambina?" - "Io? Niente: è lei che fa a me." - "E che cosa ti fa?" - "Pane, burro e marmellata; e poi dei bei regali e una coperta calda per la sera." - "Devi dire la verità" - "Squagliati: morto di fame!". Questo dialogo dice tutto: uno si donava per mangiare; e l’altro tirava la cinghia, piuttosto che vendersi. IL BÄCKEREI Il Bäckerei era la rivendita del paese ove andavo ad acquistare il pane (un genere razionato), con i coupon che ci venivano dati ad integrazione dalla Mensa aziendale. Il negozio era gestito da due giovani sorelle, pressappoco della mia età, entrambe molto gentili: una, la meno giovane, la vedevo raramente, perché sempre immersa nei lavori interni; l’altra invece; serviva ogni giorno al banco di vendita; si chiamava: Hedy Kläy. Per tutto il tempo che trattai con lei, non mi permisi mai di chiamarla confidenzialmente Hedy; le dicevo sempre: Mademoiselle, e lei, con me, Monsieur; quasi fossimo due persone di alto lignaggio. Credo che gradisse questo mantenere le distanze. La bottega, non era molto frequentata in certe ore, ed io un giorno scelsi proprio quelle, per scambiare con la ragazza qualche parola, ma soprattutto; e questo era il vero motivo; per chiederle a bassa voce, quando fossimo rimasti soli se, con il coupon di cui disponevo, avrebbe potuto darmi anziché 350 grammi; un pane intero di due chili. Alla mia richiesta, lei non rispose: prese dalla madia la pagnotta, la mise in un sacchetto di carta, per nasconderla alla vista degli indiscreti, e me la porse, senza parlare, con l’apparenza di un sorriso sulle labbra. Dopo, io rimasi ancora nel negozio a chiacchierare, sino all’entrata di un altro cliente. Un paio d’ore appresso, di quel pane restavano solo le briciole: l’avevo divorato tutto io, così, asciutto e... averne ancora. Dove lo mettevo, lo sa Dio: ero sempre magro come un chiodo. Il giorno seguente tornai dal Bäckerei, stessa ora, stesso entretien con Hedy, ma, nel presentare il coupon, non ebbi il coraggio di reiterare la richiesta del giorno precedente. La ragazza mi scrutò, per indovinare; e poi mi chiese quello che sapeva già: "Monsieur, désirez la miche?". (Tr.: Signore. desidera la michetta?"). Il terzo giorno, non mi chiese nulla: prese il coupon, insaccò il michettone e me lo porse. Io non arrossii più, augurandomi che la panettiera, non si ponesse domande sul destino di tanto pane. Non seppi mai se Hedy Kläy fosse slanciata di statura, perché la vedevo sempre dietro il banco di vendita, e ignoravo l’altezza della pedana. I capelli rossicci, le arrivavano alle spalle con riccioli ribelli. Il viso carino, era generosamente cosparso di efelidi, che le davano una sorprendente somiglianza con l’attrice Maureen O’Hara, così come la si vede, nel film già sopra menzionato: "Un uomo tranquillo". Fu lei, ad informarmi sull’esistenza di figli naturali, nati in Svizzera, nel corso del precedente conflitto mondiale. Col tempo, apprezzata la mia discrezione, mi confidò anche il segreto della sua dissimulata tristezza: si era da poco lasciata col fidanzato, a cui era unita da anni, il quale, divenuto di recente campione nazionale di sci, si era dimostrato troppo sensibile, alla corte delle sue ammiratrici.
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LA
CUCINA ITALIANA Il Responsabile dei Rifugiati Italiani, presso la Falegnameria, era un Maresciallo dell’ Esercito, di nome Merlin, veneto, rodigino, il quale, in qualità di nostro Comandante, non lavorava, ma veniva egualmente retribuito, a’ termini di un certo articolo della Convenzione di Ginevra. Anche Merlin conveniva, quando con lui ci lamentavamo, che i pasti della Mensa aziendale, lasciavano gli italiani insoddisfatti e soprattutto affamati, e siccome la nostra permanenza a Saint Etienne, incominciava a prolungarsi un po’ troppo; il Maresciallo decise di riportare le lamentele dei suoi rappresentati, al Comando di Zweisimmen. Tornò con una risposta, che ci sorprese e indusse a lunghe discussioni. In sostanza il Lieutenent Deladier, oppose al Maresciallo, una replica protocollare che, tradotta, dal francese suonava così: "Voi rifugiati militari, a termini di regolamento, avete diritto alle stesse razioni alimentari; in natura; dei nostri soldati. Se a Saint Etienne, siete in grado di cucinarle, ve le farò avere.". Riuniti, con Merlin, studiavamo soluzioni. Innanzitutto occorreva un locale per la cucina. Nella Falegnameria, avevamo notato, all’interno di un capannone, la presenza di un casotto di legno vuoto, insonorizzato e fornito di impianto luce e acqua corrente. Serviva per emergenze di lavoro. Questo locale, col permesso della Direzione, avremmo potuto trasformarlo in un luogo di cottura, e consumo pasti. Già, ma il cuoco o, meglio, il cuciniere, dove lo andavamo a prendere? Scoppiò la solita selva di proposte e critiche: "Lo chiediamo a Steiger!"; "E poi? Dobbiamo già chiedergli il locale cucina."; " Lo facciamo a turno."; " Come? Sappiamo tutti cucinare per caso?"; "In cucina ci vuole uno che conosca le ricette."; "Sì: assumeremo adesso Pellegrino Artusi! Ma va’!", e via dicendo. Le chiacchiere durarono a lungo, sinché il Maresciallo, stufo, sbottò: "Insomma, se vogliamo mangiare, bisogna che uno di voi si butti dentro a cucinare. Se farà delle boiate: pazienza! Mangeremo boiate; ma, perdio, mangeremo!". Io protestai: "Boiate! Non penso che usando ingredienti buoni si ottengano risultati indecenti, soprattutto mettendo in atto un po’ di buon senso. Mia madre, veneziana, era brava in cucina; ed io passando molte ore a farle compagnia, imparai, tanti accorgimenti e qualche ricetta. Se qualcuno di voi si fa avanti, io gli prometto la mia modesta consulenza.". Il Maresciallo allora subito m’ incastrò: "Benone! Giacché ne sai più di tutti noi, tanto vale che il cuoco lo faccia tu! Semmai sarò io a darti qualche consiglio, se avrai dei problemi.". I compagni, in questa idea videro il superamento dell’ultimo ostacolo, e non mi diedero il tempo di schermirmi: "Sì, sì: fallo tu!". Senza cedermi la parola, uno interrogò: "E adesso, chi gliele va a presentare a Steiger, tutte queste richieste?". Merlin rispose: "Sono il vostro rappresentante, no? E allora tocca a me!". Io, m’ero già pentito di aver parlato, ma ormai era tardi: non mi rimaneva che sperare in un fallimento delle trattative con Steiger. Quando nel pronosticare, vedevo invece la possibilità, che il patron potesse avere interesse ad acconsentire; allora nella mia mente cambiavano i pensieri: "In quanti minuti si cuociono gli spaghetti? Quali sono gli ingredienti del ragù? E il minestrone: come si combina? Quanto tempo, per le uova sode?" Il Maresciallo Merlin, portava due baffetti alla Hitler, ma erano biondicci, e lui aveva un carattere tutt’altro che dittatoriale. Anzi, era conciliante e cordiale, e pronto a dar segni di amicizia a tutti. Tuttavia il suo viso, a prima vista quasi insignificante aveva, tra occhietti e boccuccia, un’espressione di volpe consumata, inavvertita ai normali osservatori, che prometteva: "Guarda con gli occhi, che ti frego con le mani!". Di ciò, mi convinsi ancor più, dopo i suoi colloqui con Steiger, quando ci comunicò, durante il pasto di mezzogiorno: "Ragazzi, non chiedetemi come ho fatto: con lunedì prossimo avremo una mensa tutta per noi: costruita espressamente." Felici, lo subissammo di domande, ma Merlin, si limitò a precisare: "Steiger, non solo ci metterà a disposizione un locale completamente nuovo, ma lo completerà anche con tutto il necessario, per la confezione e il consumo dei pasti.". Nel pomeriggio, era giovedì, udii; mentre caricavo segatura; martelli e seghe, già impegnati ad allestire il nuovo padiglione. Quel batacchiare, mi portò, per trasposizione psicopatologica, a sospettare che stessero costruendo la mia forca. Chiesi, un giorno, ad un amico paracadutista: "Dimmi: come hai affrontato il tuo primo lancio?". Egli con naturalezza mi spiegò il trucco: "Semplice: quando, sull’aereo, ricevetti l’ordine di gettarmi, gridai: ‘mamma mia che paura!’ e mi lanciai." E’ vero, le prove vanno affrontate con determinazione, altrimenti sono perse in partenza. I compagni; venivano a rincuorarmi, a darmi suggerimenti, ricette della nonna, e pacche sulle spalle. A me; già idealmente tra i fornelli; questo tipo di assistenza morale, mi innervosiva, ma prudentemente non lo davo a vedere. Calcolando, che il nuovo impegno esigeva che fossi pronto al lavoro, alle sei del mattino; cercai e trovai una camera in affitto, presso una anziana vedova, che possedeva una casetta a pochi passi dalla Falegnameria. Pigione: un franco a notte. Il Maresciallo, mi informò sull’arrivo delle forniture alimentari: quelle non deperibili, sarebbero giunte direttamente dall’Armée, in ceste sigillate, ogni martedì; invece quelle fresche: pane, latte, burro, formaggi; le avrei acquistate a compensazione, per una somma fissa giornaliera, nei negozi locali convenzionati, contro il rilascio di una firma di ricevuta. Per il trasporto dei prodotti, fui dotato di un carrettino, con quattro ruote di legno, e un contenitore di lamiera zincata, per il latte. I tempi: ore 7,30: colazione; ore 12: pranzo; ore 18: cena. Il menu si sarebbe stabilito tutti assieme, compatibilmente con le disponibilità della dispensa. Il primo giorno del nuovo incarico, alle cinque mi levai, e mezz’ora dopo ero pronto. Incominciai a seguire, passo passo, la tabella di marcia, che già era tracciata nella mia mente. Mi recai alla Falegnameria; il portiere di notte, già sapeva e mi lasciò entrare. Presso la mensa presi il carretto, e andai da Hedy ad acquistare il pane. Poi passai dal Kaserei, a prelevare un pacco di burro e sei litri di latte; infine tornai sui miei passi. Il locale della nostra mensa, era molto ampio, e conteneva, oltre a panche e tavoli accostati per una ventina di posti; anche l’intero arredamento per la cottura dei pasti; una grande cucina economica; una dispensa; un armadio con pentole e stoviglie; e un acquaio con doppia vaschetta. Quando due giorni prima di iniziare la mia attività di cuciniere, visitai il nuovo grandissimo locale, arredato di tutto punto; non potei impedirmi di pensare: "Strano! Steiger, così parsimonioso, ha speso un mucchio di soldi per allestirci la mensa. Il Lieutenent, amico dei cucinieri disonesti di Zweisimmen, ci ha dato la dritta, per avere le razioni dei militari svizzeri. Infine il Maresciallo Merlin, non ha voluto spiegarci quali mezzi di convinzione abbia usato per ottenere, dai due predetti tanta generosità. E conclusi con una malignità, che il senatore a vita, Giulio Andreotti, capo di sette governi italiani; molti anni dopo copiò da me: "A pensar male, si fa peccato; però tante volte ci si azzecca.". Rientrato alla mensa, alle ore 6.30; per prima cosa accesi la grande cucina economica. Questo non fu un problema: cataste di ritagli di legno dolce, stagionato, residui di lavorazioni; si trovavano ad ogni passo in Falegnameria. Misi sul fuoco una pentola d’acqua, per il caffè, e poi una capace casseruola, da dieci litri, in cui travasai tutto il latte acquistato. Sistemai sulla piastra anche un pentolone d’acqua, onde averla calda per ogni evenienza. Sul tavolo di cucina preparai le tazze e, sul tavolone della mensa, ad ogni posto, un cucchiaio: in mezzo le pagnotte. Ore 7.05. Intanto l’acqua della pentola piccola incominciò a bollire: io tolsi dal fuoco il recipiente, e vi versai un sacchetto di caffè macinato, mescolando con un cucchiaione. A questo punto, ritirai dalla piastra anche la casseruola del latte, ormai caldo; sopra vi collocai un apposito colatoio a buchi piccolissimi, su cui gocciolai lentamente il caffè già pronto; spiando, per regolarmi, l’annerirsi del latte sottostante. Nell’acquaio a due vaschette, lavai subito pentola e colo del caffè; poi completai, con lo zucchero, il caffelatte. L’orologio a muro segnava le 7,25. Pensai: "Per poco non ho sforato: devo rivedere operazioni e tempi, per essere pronto, domani, con più anticipo." Fuori, dato che avevo chiuso la porta a chiave, i miei compagni, stavano radunandosi, alla spicciolata, in tranquilla attesa. Alle 7.30 precise, aprii la porta e, al primo che entrò proposi: "Ti nomino mio assistente: mi dai una mano a passare le ciotole?". Quello annuì e da allora divenne il mio occasionale servente. Presi un ramaiolo e incominciai la distribuzione del caffelatte. I commensali, non dissero parola sul nuovo servizio, e ciò mi persuase che già mi avessero addossato l’abito del cuciniere: né bravo, né pessimo; svolge semplicemente il suo lavoro. La preparazione delle altre vivande era, naturalmente più impegnativa del semplice caffelatte, e spesso soffrii di batticuore, specialmente quando, per un cattivo dosaggio, o una dimenticanza, o una distrazione, incappai in situazioni, difficilmente ovviabili, in relazione al tempo che rimaneva a mia disposizione. A mezzogiorno il pasto, comunque, doveva essere pronto: questo l’imperativo! Mi limiterò a raccontare la mia prima, terribile esperienza: quando fui alle prese con un minestrone. Misi al fuoco un pentolone, con un etto di burro, tre cipolle affettate e gli spicchi di una testa d’aglio: per il soffritto non avevo altro. In attesa che questi ingredienti si rosolassero, mondai un po’ di carote e patate, che poi lavai e incominciai a tagliare in piccoli pezzi. A metà operazione avvertii odore di bruciato e un fil di fumo che saliva dalla pentola. La tolsi dal fuoco e notai, con terrore, che l’aglio era completamente annerito e le cipolle molto abbrunate. Mi chiesi: "Ora che faccio?". Non c’era tempo per preparare un altro soffritto. Presi una decisione: eliminai gli spicchi neri dell’aglio; affinché non fossero scambiati per scarafaggi; e, versati sei litri d’acqua nella pentola, la rimisi sulla stufa. Aggiunsi quattro pugni di sale grosso, e tre dadi di pollo; indi, finito di spezzettare carote e patate, le gettai nell’acqua che già cominciava a bollire. Passato un quarto d’ora volli assaggiare il preparato. Raccolsi col ramaiolo un po’ del liquido in ebollizione e ne colai una piccola quantità in un cucchiaio che portai alla bocca: uno schifo! Troppi quattro pugni di sale, e i dadi avevano completato il disastro. Dopo un attimo di smarrimento conclusi: "A mali estremi, estremi rimedi!": scaricai nell’acquaio quasi la metà del brodo; col quale se ne andò anche parte della verdura; e rimettendo sulla piastra il pentolone, vi aggiunsi altri litri d’acqua di rubinetto. All’ebollizione, provai di nuovo: questa volta il liquido mi sembrò scipito; ma forse era soltanto un’impressione: tra fumi ed emozioni non mi sentivo più in grado di giudicare. Eppure, a parte il sale, qualcosa mancava: non c’era sostanza. "Cribbio! Ci vogliono più grassi!": dentro quattro etti di burro! Ormai erano le 11,30. Quando il condimento, cinque minuti dopo, si fu sciolto, buttai nel brodo un chilo di orzo perlato. Da quel momento lavorai in apnea: basta assaggi. E mi venne in mente una canzone, che sarebbe stata divulgata alcuni anni dopo: "Que serà, serà...". La minestra, piuttosto brodosa e molto calda, che stavo per servire ai miei ospiti; aveva un aspetto giallastro, e il mio naso, oltraggiato per tutta la mattina dagli effluvi di cucina, si rifiutava ancora di esprimere giudizi. Mentre scodellavo nei piatti fondi; che il mio solito assistente, uno dopo l’altro, portava in tavola ai commensali; sbirciavo di sottecchi coloro, che già serviti, avevano cominciato a mangiare. Ma nessuno faceva smorfie: anzi trangugiavano, conversando pacificamente. Quando, dopo aver consumato il secondo (un grosso Würstel, scaldato in acqua bollente e patate nature), i miei compagni se ne andarono lasciandomi solo; osai allora assaporare un cucchiaio della mia specialità: "Buono! - mi mentii - altro che Artusi!". In ogni modo, nel corso di quella prima settimana, feci rapidi progressi e ne ebbi conferma, perché, al sabato Merlin, mi annunciò: "Ho invitato per domani, alla nostra mensa Kruger e i suoi assistenti: Emil e Felix. Che cosa ci prepari?". Scelsi un menu semplice e rapido, già studiato nella mia mente, per l’eventualità di una nostra festa: "Maresciallo, io penso a una bella spaghettata; piatto italiano; e per secondo una specialità milanese: cotolette impanate con patate in insalata. Però, mi occorrerebbe un aiuto in cucina, per pelare patate, e grattare pane secco.". Merlin, soddisfatto e tranquillo, se ne andò a cercarmi gli aiuti. Ormai, esperto in soffritti, non mi fu difficile preparare un sugo con l’aggiunta di dadi, salsa di pomodoro e un goccio di latte. Per le cotolette bastava immergere le fettine di carne, in uovo sbattuto con presa di sale, e passarle nel pangrattato, prima di cuocerle nel burro, sciolto in un tegame. Per quanto poi riguardava l’insalata di patate, non avrei corso alcun rischio condendola con quell’orribile Sauce in bottiglia, che nella Confederazione, andava per la maggiore, ivi essendo pressoché introvabili prodotti, considerati quasi coloniali, come l’olio d’oliva e l’aceto di vino. Durante il pranzo, Kruger, con i suoi collaboratori Emil e Felix; che, per l’occasione, ci avevano portate parecchie bottiglie di birra, continuavano ad esclamare: "C’est bon, c’est bon!"; mentre i miei compagni, gongolavano tutti, come per dire agli ospiti: "Vedete, come noi italiani siamo bravi in cucina!". Io intanto sogghignavo pensando: "Ma non sapete che cosa vi siete persi, per non aver assaporato il mio minestrone!". La conversazione fu portata dagli italiani sull’argomento dei cucinieri, nel senso che; da quando la nostra mensa aveva iniziato a funzionare; si era mangiato meglio e a sazietà; ciò che non avveniva quand’eravamo a Zweisimmen. Questa constatazione, avallava il sospetto che avevamo espresso, a suo tempo, al Lieutenent Deladier. Poi il discorso di spostò sul secondo: le cotolette, per altro molto bene riuscite. Un nostro compagno, milanese puro sangue; tanto puro sangue da chiamarsi Cerutti, e da parlare soltanto meneghino; non conoscendo altre lingue, compreso l’italiano; infilzò con la forchetta la carne che aveva sul piatto e, tenendola sospesa a un palmo dal naso di Kruger, esclamò con aria di superiorità: "Questa, l’è ona specialità milanesa, e la se ciama coteletta!". Kruger, che capiva il ticinese, intuì l’affermazione, di Cerutti e, piccato, replicò subito, in un linguaggio internazionale franco-tedesco di sua completa invenzione: "Nein, nein! C’est une delicatesse autrichienne. Elle s’appelle: Wiener Schnitzel !". Cerutti che di tutta quella risposta, aveva capito soltanto il senso di contestazione; rivolto alla comunità italiana interrogò irritato: "Cosa l’è ch’ el voeur quest’ chi?" (Traduzione per gli svizzeri del nord: "Cosa vuole costui?"). Per scongiurare una guerra italo-elvetica, nel limite territoriale della mensa, incominciammo tutti ad interessarci della disputa, con toni di conciliazione. Nella discussione saltò fuori, che la proprietà della ricetta, del piatto di carne appena servito, é rivendicata dall’Austria; la quale sostiene di averla esportata in Italia, col generale Radetzki; durante l’occupazione del Lombardo-Veneto. I Milanesi giurano invece, che diedero loro la ricetta a Radetzki, nel 1848, quando lo rispedirono in Austria, dopo le "Cinque giornate di Milano". In omaggio alla verità, è da dire che in effetti l’invenzione è milanese, e Radetzky stesso nel suo libro di memorie, lo dichiara senza mezzi termini. La controversia si risolse senza danni, perché Felix, scolata l’ultima bottiglia di birra, intonò un canto con lo Jodler; imitato, secondo le personali capacità canore e di lingua, dai presenti. Ogni strofa finiva con: "Ehi, ohi, ehi, ohi, ehi, ohi... ii-hao, ii-hao, ii-hao, ii-hao... ei-hi, ei-hi, ei-hi... iuo-hiti, iuo-hiti, iuo-hiti...", e via cantando. Andati gli svizzeri, i miei compagni, parlottarono col Maresciallo; e quando pure loro uscirono, Merlin, che fu l’ultimo; appoggiando sul tavolone, invaso dalle stoviglie sporche che mi apprestavo a lavare, un mucchietto di monete d’argento, pronunciò tre parole: "Tutti ti ringraziamo.". Erano nove franchi, ma per me, il significato morale di quel gesto, valeva molto, molto di più . giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO |