Vecchio Giorgio 12

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...Continua:   Racconti della serie:  "Servizio militare"

 



Restammo di marmo, sbigottiti. Possibile che i nostri signori ufficiali; che sempre ci abbaiano addosso; che continuamente ci parlano di doveri; se la siano squagliata così, vergognosamente, alla chetichella? Senza dirci, o almeno a mandarci a dire, una parola? Che decisioni potevamo prendere noi adesso? E quale responsabilità sarebbe pesata sul nostro capo, per qualunque nostro atto spontaneo?


Quello che meno ragionava tra tutti noi, prese il fucile, e si mise a correre verso l'uscita gridando: "Andiamo a sparare ai tedeschi!". Fu rincorso da quattro compagni, che lo agguantarono di peso e lo riportarono indietro. Rinsavì, quando gli facemmo notare che non avevamo pallottole, e che sulla strada, i tedeschi si muovevano dentro i loro panzer.


Una decisione era da prendere e la prendemmo all'unanimità: "Si salvi chi può!".


Con Renzo, decidemmo di dividerci al momento, per cercare nei magazzini qualcosa da mangiare ed eventualmente qualche arma e munizioni. Poi, ci saremmo ritrovati presso le nostre brande, per far fagotto e andarcene.


Nell'armeria trovai solo una cassa di bombe a mano "Balilla" (poco più che petardi!). Ne presi tre. Corsi poi al magazzino viveri e vi giunsi sommerso da una marea di commilitoni. In un ripostiglio, trovammo solo delle scatole, da dieci chili, di concentrato di pomodoro. Che farcene? Mentre uscivamo in folla, fui assalito da uno straccione in abito civile: pretendeva che gli dessi metà di quello che, secondo lui, avevo preso. Si convinse presto, che ero a mani vuote. Non avevo tempo, né voglia di fare a cazzotti.


Rientrato in camerata, vidi Renzo che stava affardellando il suo zaino. Lui pure non aveva trovato nulla di utile. Chiacchierammo sull'immediato futuro. Anch'io, intanto, cominciai a insaccare la mia roba.


Fummo d'accordo sul prendere la strada del Nord, verso le nostre famiglie. Io avrei sostato
a Mirandola, a casa sua, prima di puntare su Milano. Queste le intenzioni. Avremmo dovuto poi, fare i conti con la realtà.


Punto della situazione: sapevamo dalle radio del Nord, che i tedeschi avevano già in mano la direzione della rete ferroviaria; e che i fascisti davano loro assistenza; con l' evidente speranza di riconquistare il potere politico.


Mentre parlavo con Renzo; un nostro compagno di camerata che ormai consideravamo amico; credo si chiamasse Paolo, di Carpi; udendo i nostri discorsi, espresse il desiderio, dovendo lui fare la nostra medesima strada, di unirsi a noi.


Paolo era un ragazzo un po' strano, un qualcosa tra il filosofo e l'asceta: aveva idee sue, che quasi mai esprimeva. Sedeva spesso sulla sua branda, con le gambe incrociate, quasi fosse in un eremo. Parlava poco, come chi pensa molto, e quando decideva di aprire bocca, usciva con brevi espressioni, che inducevano i presenti, a lunghi pensamenti per capirne il senso nascosto.


Assecondammo, un po' meravigliati, la sua richiesta. Per tutto il tempo del nostro viaggio a piedi, egli ci seguì alla distanza di dieci passi, senza dire una parola che non fosse indispensabile. Scelta sua, non dichiarata.


Indossammo le tute da fatica di tela olona e mettemmo in spalla zaini e fucili avuti in dotazione. Io portai anche la maschera antigas, nella custodia della quale avevo nascoste le tre bombe. Ci avviammo in direzione Nord, costeggiando il campo d'aviazione; mentre dalle reti di recinzione, fatte ormai a pezzi, dilagavano verso le caserme, orde di predoni in abiti civili.





IN VIAGGIO VERSO CASA.


Dall'altra parte del campo, vedemmo uscire dall'autorimessa, la rossa autopompa dell'Aeroporto; e ci venne in mente che, un nostro compagno, che da quelle parti possedeva una cascina di famiglia, disse al primo subbuglio: "L'autopompa, la porto via io e la nascondo nel mio fienile.". Speriamo a fin di bene.


Prima di lasciare la pista di decollo, trovammo un piccolo aereo civile, abbandonato. Ci ponemmo il dilemma: "Nostro dovere è incendiarlo o no?". E chi lo sapeva quale fosse, in quel momento, il nostro dovere? Non lo incendiammo.


Usciti a fondo campo, ci incamminammo per strade di terra battuta, fuori mano, mantenendo a lume di naso, una direzione nord-ovest, con la speranza di incocciare qualche linea ferroviaria che ci portasse verso il settentrione.


Chiedevamo informazioni sul nostro percorso ai coloni del luogo, i quali, non avendo ragioni di astio, come quelli nelle vicinanze dell'Aeroporto di Rieti, rispondevano in genere cortesemente.


Verso le tre del pomeriggio, alla fame pregressa, si aggiunse una sete feroce. Sconfinammo allora in un campo, recintato da vitigni, che mostravano invitanti grappoli, maturi e dorati. Ci inoltrammo in fondo a quel terreno, per occultarci da occhi indiscreti, staccammo un paio di grappoli a testa e incominciammo avidamente a piluccare. Manco a dirlo, dopo aver ingoiato tre soli acini, ecco apparire il padrone.


Noi eravamo in tre armati. Lui: solo, e ignorava che i fucili fossero scarichi. Il dialogo fu quindi forzatamente gentile. "Buongiorno!... Scusi: è lei il proprietario di questo vigneto?". Egli rispose: "Sì!". Incalzammo: "Ci deve perdonare: sono cinque ore che camminiamo sotto il sole, e avevamo una sete boia...". Il contadino, laconico, annuì; e che altro poteva fare? Noi avevamo, sinceramente, un po' di vergogna, come il bimbo colto a rubare marmellata; e non vedevamo l'ora d'andarcene. Quindi, tagliammo corto: "Allora grazie! A buon rendere! Molto grati per la sua offerta e auguri!". Parole insulse, ovviamente dettate dall'imbarazzo. Riprendemmo il nostro cammino continuando a trangugiare l'uva, che ora ritenevamo ormai sacrosantamente guadagnata... o quasi.


Il campagnolo rimase lì, con un'espressione attonita, ebete, che mutamente diceva, a modo suo: "Guarda un po'! Mi hanno derubato e ancora mi prendono per il c...".


Un paio di chilometri più avanti incontrammo un vecchio, su un carro di fieno tirato da un ciuco: "Signore! Per favore, può dirci dove è la stazione più vicina?". Fu cordiale. Nel suo simpatico dialetto ciociaro, ci disse che la stazione era quella di Terria, a qualche chilometro più in là. Aggiunse che era meglio che ci sbarazzassimo dei fucili; perché i tedeschi sorvegliavano tutte le stazioni.


Non ci avevamo pensato. Renzo ed io, lanciammo i nostri fucili, in mezzo a un campo di mais. Paolo invece, caparbio, esclamò: "Questo non lo mollo": lo incapsulò con una coperta che si era portato appresso, e lo infilò nello zaino, da cui da allora spuntò come un obelisco.


Io invece non mollai le mie tre bombe a mano. Pensavo che,in extremis, avrei potuto usarle. Fu un atto d'incoscienza, e per poco non ebbi poi a pentirmene.


Nel tardo pomeriggio, arrivammo alla stazione di Terria, una costruzione di poco conto, evitata dai diretti. Nessuno dei pochi presenti seppe dirci, se e quando si sarebbe fermato un treno. Un ferroviere c'informò che gli orari erano saltati e che non c'erano più regole sui passaggi. I transiti erano annunciati da una stazione all'altra, perché quando il Capostazione dava via libera a un convoglio, per telefono ne comunicava la partenza alla stazione successiva.


Sicuramente trovammo lì qualcosa da mangiare, infatti non mi rammento di aver accusato appetito durante quel viaggio. Però non è da escludersi che, alla fame, abbia sopperito il mio sistema nervoso.


All'imbrunire, ci dissero che da Contigliano aveva avuto il "via libera" un merci, e che in capo ad un quarto d'ora, sarebbe arrivato. Ci preparammo. Come noi aspettavano anche altre persone. Quando il treno arrivò, saltammo su un carro scoperto con le sponde basse, già popolato da una variopinta umanità in fuga. Quasi tutti militari, come noi, allo sbando. Alcuni in divisa, altri in abito civile, altri con capi misti, o con indumenti che, era evidente, non fossero su loro misura.



  IL VIAGGIATORE IN ABITO CIVILE


Renzo ed io ci sedemmo sui nostri zaini, mentre Paolo, coerente con sé stesso, si era accomodato cinque metri più in là, sul medesimo carro. Vicino a me, era seduto sulla propria valigia un ragazzo della nostra età, col quale attaccammo discorso, e presto finimmo per simpatizzare e darci del tu.


Il merci era più lento di una tradotta, e l'aria calda della notte settembrina ci investiva stancamente, salvandoci fortunatamente da guai alla salute.


In quell'occasione parlai a Renzo delle tre bombe "Balilla", che avevo con me nella custodia e dalla quale ne estrassi una per fargliela vedere. Il nostro nuovo amico, mi propose: "Se vuoi te la smonto e le tolgo la carica, così la potrai tenere come ricordo.". Non gliela diedi, perché non volevo correre rischi, ma gli chiesi ragione di tanta competenza in fatto d'esplosivi. "Sono un tenente del genio artificieri, e di questa roba, modestamente, me ne intendo", rispose tranquillo. Rimasi male e sentii il dovere di scusarmi: "Lei era in borghese, signor Tenente, altrimenti non mi sarei permesso di darle del tu!". Mi tolse dall'imbarazzo: "Continua pure a darmi del tu: le gerarchie in questo momento non hanno più importanza, per noi italiani.".


Dopo un paio d'ore di cordiale conversazione, il nostro nuovo amico, non ricordo a quale stazione, scese dal treno. Ci accomiatammo con un caloroso "Buona fortuna!". Con Renzo continuammo poi a parlare di lui, chiedendoci come mai fosse in abiti civili. In quell'istante, ci guardammo negli occhi, fulminati dal medesimo sospetto: "Quel figlio di cane, non sarà per caso, uno di quei tanti ufficiali che si sono squagliati dai Comandi, piantando in asso la truppa?".


Giunti in piena notte ad Arezzo; scendemmo dal merci; che proseguiva per altra destinazione; per aspettare un convoglio della Roma-Milano, il quale sarebbe transitato, prima o poi, per Modena. Arrivò infatti un diretto viaggiatori per Milano e lo prendemmo, sempre seguiti dal nostro Paolo. Non ci preoccupammo per il biglietto: in quei giorni di confusione, i controllori delle FS non si vedevano.


Sul treno, non essendoci posto negli scompartimenti, ci sedemmo, al solito, sui nostri rispettivi zaini nel corridoio della carrozza. Parlando con i viaggiatori vicini, avemmo conferma che nelle stazioni più importanti, i controlli dei tedeschi erano molto stretti. Renzo, pratico della zona, mi propose, per evitare rischi, di scendere dopo Bologna, a qualche fermata d'importanza minore, e poi di proseguire a piedi, per viottoli di campagna, sino a raggiungere una linea ferroviaria locale, che ci avrebbe portato a Mirandola. Mi sembrò un'idea ragionevole, e fui d'accordo. Paolo che, per caso, era vicino a noi, e aveva quindi udito il programma di Renzo, dichiarò subito che lui avrebbe proseguito in treno, fino alla stazione di Modena, e poi avrebbe deciso sul da farsi. Nessun problema. Giunto il momento di scendere, Renzo ed io lo salutammo un po' commossi. Egli non tradì alcun turbamento, e rimase nel corridoio del vagone seduto sul suo zaino, da cui il fucile si ergeva alto, sempre avvolto nella coperta.


Non ricordo quale fosse la stazione nella quale scendemmo. Il sole era ormai spuntato. Noi ci infilammo lestamente in una carraia, tra i campi di mais. Camminammo parecchio tra i coltivi rigogliosi del settembre emiliano; rispettandone la geometria, e frequentemente sfociando nell'aia di qualche fattoria, dove le donne, indovinando, per altre simili esperienze, che eravamo dei soldati allo sbando, ci offrivano con grande amicizia pane, formaggio e vino. Questa accoglienza si ripeteva, ad ogni masseria che incontravamo sul nostro cammino.


 


UN PERICOLOSO INCONTRO


Renzo, era naturalmente la mia guida, e procedeva tre passi avanti a me. Dopo aver percorso un lungo sentiero, insinuato tra due campi di granoturco maturo, sbucammo in una malconcia carraia, segnata dai solchi dei trattori, e proprio lì ci attendeva una moto tedesca con sidecar. Alla guida era un soldato della Wehrmacht, e sul carrozzino era seduto un milite fascista.


Pensai: "E'finita!", e mi lasciai cadere su un cumulo di sterpi, abbandonando zaino e custodia della maschera antigas, con dentro le bombe. Renzo, impassibile, si avvicinò ai due militari e parlando in modenese col fascista, non so cosa gli abbia raccontato; dopo non glielo chiesi nemmeno. Fatto fu che i due avviarono la moto e, mentre se ne andavano, il soldato tedesco rivolto a me, che ero stato escluso dal parlottamento, mi aggiornò gridando: " Antare a cassa! Antare a cassa!". E chi ha detto che i tedeschi sono tutti cattivi?


Quando il Cielo lo volle, arrivammo all'agognata ferrovia, la quale sarebbe transitata per Mirandola. Renzo mi informò, che essendo quella, una linea gestita da privati, il biglietto lo dovevamo pagare; vidi però ch'egli trasse da una tasca; chissà da quale provenienza; dei tagliandi di sconto ferroviario ad uso ufficiali delle Forze Armate. Egli ne presentò due al bigliettaio, dandogli ad intendere che eravamo degli ufficiali con uniformi "improprie". E viaggiammo col 20% di sconto.


A sera, scendemmo nella piccola stazione a un paio di chilometri dal centro di Mirandola, e giungemmo nella cittadina, giusto in tempo per cenare con quelle due care persone, che erano i genitori di Renzo. Nel morbido letto, che in una stanza riservata, mi fu offerto, non tardai a prendere un profondo sonno ristoratore.


Renzo; il giorno dopo, a colazione e in presenza dei suoi genitori, mi offrì ospitalità in casa sua sino alla fine della guerra. Risposi: "Molto generoso da parte vostra, Renzo, ma non sappiamo quando la guerra finirà, e il mio orgoglio, rifiuta di esservi di tanto peso.". Renzo osservò: "Conosco il tuo orgoglio, e per questo non insisto."


Il problema di tutti i militari che, come me, dovettero abbandonare, per causa di forza maggiore, le proprie caserme e mettersi in fuga; era quello di trovare abiti civili con cui sostituire le divise. Nel viaggio verso Mirandola; con Renzo, non riuscimmo in alcun modo a sostituire le nostre uniformi, perché la stessa gente che tanto generosamente ci rifocillava, diceva che tutti gli indumenti, sia pure usati, di cui disponeva, li aveva già dati ad altri militari, che ci avevano preceduti nel viaggio verso casa.


In quei giorni indossare un abito civile, consentiva di passare più facilmente inosservati alle ronde della Wehrmacht, le quali, per dovere d'istituto e deformazione professionale, tendevano ad ignorare, chi non portava capi di vestiario militare.


Il padre di Renzo, preso atto che avevo deciso di riprendere il mio viaggio verso Milano, trovò modo di procurarmi un abito borghese, una piccola valigia di fibra, e un berretto di tela bianca, con visiera, per nascondere i capelli... che ancora non mi erano ricresciuti dopo la recente rapata alla Scuola Sottufficiali.


Stipai le poche cose personali nella valigia, comprese le tre bombe, e lasciai a casa di Renzo: zaino e indumenti militari. All'imbrunire, dopo aver ringraziato e salutato calorosamente i miei ospiti; mi diressi, a piedi, verso la stazioncina; che già conoscevo per esservi arrivato; con l'intento di salire su un treno merci.


Il mio itinerario, escludeva l'arrivo alla Stazione Centrale di Milano: troppo sorvegliata. L'alternativa consisteva nel recarmi in treno a Verona, e da quella città, prendere un convoglio verso Milano; ma limitando il viaggio alla fermata di Cassano d'Adda. Indi, a piedi, avrei presto raggiunto Gessate, dove mia sorella abitava. In seguito, arrivare a Milano, senza rischi, con una tranvia locale, sarebbe stato facile.


Il primo treno che arrivò, era proprio un merci, la linea quella per Verona. Ottimo. Montai su un carro coperto, la cui porta scorrevole era aperta, e mi occultai verso il fondo del vagone. Il convoglio ripartì subito.



                                          

  LA SOLIDARIETA’ DEI FERROVIERI


Quando il treno si fermò allo smistamento di Poggio Rusco. Sentii manovre di sganciamento e agganciamento di vagoni e mi chiesi, dove il mio carro sarebbe finito. Mi sporsi dall’apertura e, nel buio dopo un po’, vidi passare un uomo di manovra. Lo chiamai: "Capo, sono un militare, dove va questo carro?". Quello allarmato, mi sussurrò, con accento veneto: "Stai lì, nasconditi dentro. Qui semo pieni de cruchi, de tedeschi, che se portan via i soldai italiani! Stai lì, non ti far vedere. Torno fra poco!".


Confortato dalla manifesta solidarietà di quell’uomo, attesi fiducioso. In capo a cinque minuti, era di ritorno: "Presto, scendi, stai attento, vieni con me!". Lo seguii, nel buio, a saltoni fra le rotaie del piano del ferro, fino a raggiungere pochi metri più in là, una cabina di smistamento.


La occupava un Capostazione, alto, col cappello rosso e non so quante lasagne d’oro. Muoveva lui le leve degli scambi. Mi guardò, e mostrò di aver capito subito che, vestito com’ero, non potevo essere altro che un militare in fuga. In un momento di pausa, tra una manovra e l’altra mi chiese: "Dove è diretto?". Risposi: "A Verona, e poi a Milano.". Egli replicò: "Aspetti un momento, ho alcune manovre urgenti, poi le chiarisco.". Mentre lavorava, spiegò in dialetto al ferroviere, che non s’era allontanato: "Se el va a Verona col merci, i cruchi y lo ciapa subito. Adesso, deve arrivar el XXX e vedemo.". (tr.: Se va a Verona col merci, i tedeschi lo predono subito. Adesso arriva il XXX e vediamo). Intanto, aveva terminato con gli scambi, e, rivolto a me: "Non so se ha capito quello che ho detto al mio uomo. Verona è piena di tedeschi, che arrestano militari italiani e anche civili, per mandarli, via Brennero, in Germania, a lavorare nella "Todt"; l’organizzazione, che costruisce fortificazioni militari. Il merci è pericoloso per lei, perché è destinato allo scalo smistamento di Verona, dove formano i treni per la Germania. Adesso qui, tra poco, transiterà una locomotiva: io gliela fermo, e lei sale. E’ diretta al deposito motrici di Verona. Troverà lì, qualcun altro che l’aiuterà a raggiungere Milano.".


Lo avrei baciato. Come ci si sentiva "Fratelli d’Italia", in quel periodo! Lo ringraziai, ma egli era già tornato alle leve, per bloccare la vaporiera.


Dalla sua cabina il macchinista gridò: "Cossa ghe xe? Perché me gavé fermà?". (tr.: Che cosa è successo? Perché mi avete fermato?). Il Capostazione mi fece cenno di salire e, rivolto al conducente: "Portalo con ti, al deposito. Ti ga capìo?". E l’altro: "Go capìo, go capìo, ciò!... Andemo!". (tr.: Portalo al deposito. Hai capito? L'altro: Ho capito, caspita!).


Così, dall’alto della locomotiva, ebbi una nuova esperienza. Naturalmente raccontai al conducente la mia odissea, e quello ogni tanto esclamava: "Fioi de cani! Fioi de cani!". (tr.:Figli di cani!). Non capii se l’epiteto era rivolto ai tedeschi, o agli ufficiali del mio Comando, che se l’erano squagliata.


Giunti al deposito, il macchinista m’indicò, poco distante un suo collega, il quale stava armeggiando presso una vecchia, sbuffante caffettiera: "Prova a sentire quello là, se ti porta a Milano.". Una riconoscente stretta di mano; e mi recai verso il nuovo ferroviere. Poche parole, e ccompresi che quello non aveva nessuna voglia di correre rischi. La sua locomotiva era di un vecchio modello, che portava, affiancati alla parte cilindrica, due lunghi cassoni, uno per lato, di forma parallelepipeda, per l’acqua di riserva. L’uomo si disse disposto a trasportarmi, a condizione che mi fossi adattato ad immergermi nell’acqua di uno di quei cassoni. Mi informai se avesse trasportati altri fuggitivi in quella maniera. Alla risposta affermativa, nonostante il momento per me un po’ drammatico, avrei voluto chiedergli: "Com’erano i suoi trasportati alla fine del viaggio: crudi o bazzotti?".


Invece lo ringraziai, inventando che soffrivo di ischialgia, per aver viaggiato troppo sul duro dei carri ferroviari, e che non sarei certo guarito, mettendomi adesso a mollo nel freddo della sua vasca da bagno. A mia richiesta, mi indicò il binario che portava a Milano; allora gli comunicai che avrei iniziato il mio viaggio a piedi. Il ferroviere non fece una piega, anzi, mi assicurò che non avrei avute alternative, perché per le prossime quarantotto ore, non era prevista alcuna partenza di treni per Milano.


" KOMMEN AUF! SCHNELL! ".


M’incamminai serafico e rassegnato, sulla massicciata della ferrovia, puntando su Milano; ben sapendo, che centocinquanta chilometri a piedi, comunque non li avrei fatti.


Senza togliere alcun merito al signor Vanzini, che mi aveva fornito quanto di meglio aveva potuto trovare, il mio aspetto doveva essere abbastanza ridicolo: la giacca, più stretta di due taglie si abbottonava a mala pena; i pantaloni mi arrivavano quattro dita al di sopra del malleolo; il berretto di tela bianca e la valigetta, completavano una mise de clown che, per la serietà del momento, era più patetica che comica.


Cammina e cammina, ad un certo punto la strada ferrata s’incuneò in una trincea, affiancata da scarpate, alte una quindicina di metri. Andavo spedito, guardando avanti; e chi mi avesse visto non poteva aver dubbi che il mio intendimento, non poteva essere altro che quello di arrivare presto dov’ero diretto.


Ad un tratto sentii sibilare: "Sssst!... Sssst!". Guardai su, in cima alla scarpata donde veniva il richiamo, e vidi un soldato tedesco della Wehrmacht: elmetto in testa e una strana pistola inguainata al fianco, la cui lunga canna nuda sporgeva fino al suo ginocchio. Aveva una grinta proprio da cattivo. Il mio primo pensiero furono le tre bombe "Balilla", che avevo nella valigia e, sinceramente, mi sentii morire. Ma non ebbi tempo nemmeno per quello, perché il tedesco mi gridò: "Kommen, kommen auf! ". Piantai in terra la valigia e incominciai a inerpicarmi lestamente sulla scarpata, trattenendo a stento un certo bisognino, che mi si fa vivo proprio nei momenti difficili. Ma la mia sollecitudine non era di completa soddisfazione del tedesco, che incalzò nervosamente, con la sua voce gutturale, che ti mette i brividi anche se non capisci quello che dice: " Kommen auf! Schnell, schnell! ".


Arrivati muso a muso, ci guardammo: lui con aria da procuratore della repubblica, ed io da confessando. Aveva occhi chiarissimi e freddi. Mi squadrò, e capii di non destare in lui alcun sospetto. Quando finì di inquisirmi, col suo tagliente sguardo da rapace; unì le mani aperte a mo’ di libro e mi ordinò: "Karte, karte!". Non ci voleva molto a capire che voleva un documento d’identità. Mi sovvenni allora che qualcuna delle tante persone con cui avevo parlato nel corso del mio viaggio, mi aveva consigliato; se fosse stato il caso di presentare la carta d’identità ai tedeschi; di porgerla dalla parte della quarta facciata, su cui erano stampati tre Fasci del Littorio. Così presentata, veniva spesso confusa dai soldati del Reich, per una tessera fascista, con i vantaggi relativi.


Porsi quindi la mia carta d’identità, coi tre fasci ben in vista: il tedesco l’aprì, la guardò rapidamente e mi ordinò: "Raus, raus!", o qualcosa di simile. Capii che mi rilasciava e, questa volta non ebbe bisogno di aggiungere "Schnell!".


Mentre riprendevo il mio cammino sulla strada ferrata, pensai di liberarmi delle bombe. Ma anche questo era un problema: qualcuno avrebbe potuto vedermi e sarebbero stati guai.


Quando la stanchezza alle gambe incominciò a farsi sentire, rallentai il passo e, ad occhio e croce, calcolai di aver percorso fino a quel momento, una quindicina di chilometri. Mi resi conto che se mi fossi fermato; dopo una notte insonne, la strada a piedi e l’avventura col soldato tedesco; non mi sarei più mosso.


Il sole era a picco e intorno tutta campagna coltivata, non una zona d’ombra. Sconsigliabile anche svenire. Scesi ad un compromesso con me stesso: avrei continuato a camminare, sino a vedere una cascina, un casolare, a cui chiedere dell’acqua e un pagliaio, dove adagiarmi per un paio d’ore, prima di riprendere il cammino. Al limite, mi sarei fermato al primo albero frondoso, che desse un minimo d’ombra. Avrei potuto accontentarmi di meno?


Nel formularmi questa domanda, udii in lontananza un ritmico: "Ciuff... ciuff... ciuff...". Guardai indietro lungo i binari, e vidi, con sorpresa, lontano, quasi all’orizzonte; un punto nero con due nuvolette ai lati. Quella che avvistavo era indubbiamente una vaporiera e mi sentii subito molto euforico, come al cinema, quando, in extremis, arrivano i nostri. Ma presto mi calmai: non arrivava la Cavalleria nordista, bensì un treno che certamente si sarebbe arrestato, ma alla prossima stazione. Rassegnato, mi fermai, allontanandomi dai binari quel poco, che mi mettesse al riparo dai pericolosi risucchi del convoglio in transito.


La locomotiva intanto si era molto avvicinata, e notai che non trainava vagoni. Mentre venivo superato, alzai istintivamente il braccio, agitandolo col pugno chiuso e il pollice teso: quasi chiedessi un passaggio. Quel gesto lo avrei compiuto anche se in cielo fosse transitato un aereo: era in verità, un atto di stizza contro la iella. Invece, la vaporiera, un centinaio di metri più in là, si arrestò, e un attimo dopo incominciò lentamente ad arretrare, sino a fermarsi innanzi a me: "Dove ti va?", mi interrogò il macchinista e, quando seppe che ero diretto a Milano: "Monta! Mi me fermo a Desenzan, e ti là, ti ciapi quelo per Milan.". (tr.: Sali! Io mi fermo a Desenzano, e tu là puoi prendere il teno per Milano.). Pensai pieno di riconoscenza: "Benedeto da Dio! ", ma mi limitai a ringraziarlo calorosamente. Quattro ciaccole, e scesi a Desenzano, dove un treno locale diretto a Milano arrivò, inaspettatamente, poco dopo. Scesi a Cassano d’Adda e infine, con un po’ di strada a piedi, potei, a Gessate, abbracciare mia sorella Renata.


A casa sua, passai la notte. La mattina dopo mi recai al vicino canale Villoresi dove, in un luogo fuori vista, feci scivolare le tre bombe "Balilla" nell’acqua. Data l’esilità dei componenti si sarebbero certamente neutralizzate in breve tempo. Salutai mia sorella e, in tranvia, partii per Milano.

 

 


MILANO OCCUPATA.


Provai una stretta al cuore, vedendo la mia Città natale, senza una divisa delle nostre Forze Armate. Nessuno meglio di me avrebbe dovuto aspettarselo; ma in quel momento, devo dire, stavo toccando con mano la realtà. La moltitudine di soldati, automezzi e cingolati della Vehrmacht, che avevano invaso Milano, mi convinse che i tedeschi; si volessero considerare alleati o nemici; ormai in Italia, la facevano da padroni. E questo, era duro da accettare.


Arrivato a casa, potei baciare e stringere a me Mamma, la quale non aveva voluto seguire Renata a Gessate; preferendo i rischi delle incursioni aeree su Milano, alla noia delle giornate di provincia.


Quando raccontai addietro, della mia degenza al "Forlanini", per ittero catarrale, trascurai volutamente di riferire, che fui dimesso anzitempo dall’ infermeria, per la morte di mio padre. Non so se mai mi sentirò di scriverne. Ora no; ne accenno adesso solo perché i miei "venti lettori venti"; se mi hanno usata la cortesia di seguirmi attentamente sino a questo punto; ora potrebbero chiedersi, come mai a casa ci fosse solo mia madre.


Con grande sollievo, potei finalmente, tra le mura domestiche, togliermi l’abito da settimino messo a Mirandola, e sentirmi comodo, nell’indossare un paio di pantaloni e un camiciotto, del modestissimo mio personale guardaroba.


La vicenda militare non poteva considerarsi finita, col mio rientro in famiglia. I fatti incombenti, m’imponevano di prendere una decisione o, meglio, scegliere su tre possibilità. Prima: presentarmi al Distretto militare di Milano: ciò equivaleva a mettermi nelle mani del Comando tedesco. Seconda: darmi alla clandestinità che, in soldoni, significava dovermi nascondere in solai o cantine, col rischio, prima o poi, di essere scovato dalle retate della polizia militare. Terza: rimettermi in viaggio verso il Sud, e tentare di attraversare il fronte delle operazioni, con i rischi relativi, per consegnarmi al Comando italiano, che operava con le forze angloamericane.


Dopo i cinque lunghi giorni dell’avventurosa fuga da Rieti; mi ritrovai, il 13 Settembre, a zonzo per Milano, col pensiero del nuovo problema. La Città era letteralmente tappezzata di manifesti, a firma del Maresciallo tedesco Kesselring, nei quali; definendo traditore il Maresciallo Badoglio, che aveva concordato l’armistizio con le forze angloamericane; ordinava a tutti i militari italiani, che si trovassero allo sbando, di presentarsi entro ventiquattrore, al Comando tedesco, la cui sede era a Porta Venezia, presso il Cinema Diana. Per i trasgressori era prevista la fucilazione.


Per caso, passando in via Vitruvio, vidi, alla finestra del primo piano di una locanda, un uomo in cui riconobbi uno dei tanti ufficiali piloti del "Forlanini". Al portiere, che poi era una portiera, chiesi la cortesia di chiamarmi il suo ospite: "Anche lei è dell’Aeronautica?". Al "Sì", fui accontentato. L’ufficiale scese, era in abiti civili. Mi presentai: "Signor Maggiore, lei forse non mi riconosce, perché non sono mai stato ai suoi ordini. Ero un trombettiere dell’Aeroporto di "Linate", e scusi se mi sono permesso di disturbarla...". Egli non mi aveva affatto riconosciuto, ma cortesia volle che dicesse: "Si, mi pare... In che cosa posso esserti utile?". Raccontai brevemente la mia forzata fuga dall’Aeroporto di Rieti, e conclusi: "... Chiedo a Lei, quale decisione ora debbo prendere.". Egli pensò qualche secondo poi si pronunciò: "Non posso suggerirti alcunché, in questo grave frangente: sarebbe come disporre della tua vita. Ti posso informare soltanto sulla mia determinazione. Non mi sento di darmi alla macchia. Qui, siamo in territorio italiano e, ci piaccia o no, ci sono Autorità governative in luogo, e delle leggi da rispettare. Io andrò a presentarmi. Tu non seguire il mio esempio, interroga prima la tua coscienza.". Lo ringraziai e ci scambiammo gli auguri.


A casa, parlando con qualche coinquilino, fui informato che in un certo appartamento di Corso XXII Marzo, si stava organizzando un’associazione, per dare assistenza ai militari italiani sbandati, che non intendevano aderire all’ordine di presentazione delle autorità tedesche. Mi recai all’indirizzo avuto, e trovai un tale in borghese, con due collaboratori, indaffarati a trafficare in un mare di carte. Il tale, che doveva essere il capo, mi comunicò che non erano ancora in grado di accettare adesioni e mi suggerì di ripassare trenta giorni dopo. Pensai di avere poche speranze di campare ancora trenta giorni, poiché Kesselring minacciava di fucilarmi dopo ventiquattrore.


Al ritorno, ponderai su tutti gli elementi raccolti, e conclusi che la meno inaccettabile delle decisioni, sarebbe stata quella di rimettermi in viaggio verso il Sud. Quando lo seppe, mia Mamma fu pienamente d’accordo, nel senso che qualunque soluzione poteva andar bene per lei, salvo quella che mi presentassi al Comando tedesco. Le sofferenze del precedente conflitto mondiale 1915/18 erano ancora troppo vive, negli italiani che le avevano vissute, per aver scordata totalmente l’avversione per l’ex nemico. Se fosse stato ancora in vita, anche mio Padre avrebbe approvata la mia risoluzione.


Presa la decisione, mi accorsi che non era possibile, per le troppe incognite, tracciare un itinerario completo di viaggio. Avrei dovuto andare all’avventura e stabilire, di volta in volta, come superare le difficoltà che si sarebbero presentate. Decisi la prima tappa: sarebbe stata Gessate, per informare e salutare mia sorella; poi sarei andato a piedi alla stazione di Cassano d’Adda, dove avrei atteso un merci diretto a Verona. In viaggio avrei studiato come proseguire.


Il 16 Settembre, già dal mattino si presentava come una giornata molto calda. Indossai un giubbetto a scacchi bianchi e neri, e, provvisto di un sacco di tela col necessario per la pulizia personale, diedi la stura ai miei nuovi triboli.


Salutare Mamma non fu drammatico, la sua vita era stata un susseguirsi di continue avversità, e il suo carattere assomigliava ormai a quello di Penelope. Un abbraccio, un bacio e una sua dichiarazione: "Sono sicura che te la caverai". Abbarbicarsi ad una certezza, è un modo per soffrire meno. Alcuni giorni prima; al mio arrivo; mi aveva accolto con queste parole: " Ero sicura che saresti ritornato".


Giunto a Gessate; Renata volle accompagnarmi a Cassano d’Adda per un ultimo saluto. Arrivati, ci accomodammo nella sala d’aspetto, deserta, della stazione. Ma quando sarebbe passato un merci?

 


  LA FATA TURCHINA.


Aspettavamo da una mezz’ora, quando arrivarono due persone, che si sedettero poco distanti da noi. Erano un uomo e una donna, di mezz’età, di più non saprei dire. Ci guardammo, come si guarda la gente in ascensore: occhiate di sfuggita. Poco dopo, la donna mi rivolse la parola: "Militare?"; anuii. Lei incalzò: "Dov’è diretto?". Intuii che la sua curiosità avesse un motivo, e a mia volta volli capire: "Vado al Sud: spero di riuscire a varcare la linea del fronte.". La donna avanzò una terza domanda: "Perché non se ne va in Svizzera?". Caddi dalle nuvole: "Svizzera? Sinceramente non saprei come fare... Troppo complicato: non ho nemmeno il passaporto.". La donna sorrise soddisfatta: era arrivata dove voleva arrivare: "Non si preoccupi, ci può andare senza alcuna formalità. Guardi, noi poco fa abbiamo accompagnato un nostro nipote. E’ facilissimo: a Milano, lei va alle ferrovie Nord, in piazza Cadorna; prende un treno per Como e scende alla Stazione di Grandate. Lì, vedrà una fila di persone che, a piedi, si dirige verso la boscaglia: la segua. Nessuno le rivolgerà parola e lei, questa sera stessa, si troverà in Svizzera."


Con Renata ebbi uno sguardo d’intesa, senza perplessità. Potevo tentare. Ci alzammo e ringraziai calorosamente quella signora per il consiglio. Lei mi sembrò commossa e contenta di essere riuscita a compiere una buona azione. Forse era la "Fata Turchina".


Salutai mia sorella a Gessate e ritornai a Milano, per informare Mamma del cambiamento di programma. La voce corse per il fabbricato, e una coinquilina mi chiese di accollarmi la compagnia di suo figlio, mio coetaneo, da lei medesima dichiarato un po’ imbranato; per portarlo "in salvo".


Andai alle "Ferrovie Nord", con l’imbranato, che si chiamava Antonio. In treno, viaggiavamo un poco stretti. Era tardo pomeriggio, e pensai che il convoglio fosse affollato per la presenza di lavoratori pendolari. Quando scesi a Grandate, con Antonio e altri viaggiatori; vedemmo subito una fiumana di persone isolate o a piccoli gruppi, camminare senza fretta. L’inizio della fila era lontano e non si poteva scorgere. Ci unimmo a quella silenziosa processione, mentre il treno ripartiva per Como, quasi totalmente vuoto. Altro che pendolari!


Eravamo all’imbrunire; la marcia continuava; la strada, che aveva incominciato a salire, cambiò in mulattiera, poi in sentiero, che presto entrò in un bosco di robinie e di altri alberi di basso fusto. La salita si fece più ripida, il buio divenne completo e ormai appoggiavamo i piedi dove capitava, tra erbacce, sterpi e sassi. Si sentivano i richiami di chi temeva di perdere i contatti con gli amici. Anche con Antonio ci chiamammo più volte. Finì che nel buio, qualsiasi voce fu ritenuta amica.


Camminammo così per qualche chilometro sull’erta. Eravamo tutti uomini; uomini in fuga. Ogni tanto si sentiva una voce femminile gridare: "Di qua! Di qua!". Erano le guide. Ne sentii una esclamare nel buio: "E’ da stamattina, che vado avanti e indietro a portare su gente! ". Pensai che si trattasse di una disinteressata patriota. Lungi da me l’idea che fosse quello che era realmente: una contrabbandiera che approfittava del momento.


A notte alta arrivammo, stremati, al confine con la Svizzera. La zona era debolmente illuminata dai bagliori della vicina Chiasso. Le guide, tre o quattro, si erano riunite a due passi da un varco praticato nella rete; avevano steso a terra un telo quadrato di circa un metro di lato e ripetevano a turno un discorsetto: "Sentite, in Svizzera le lire italiane non valgono proprio niente. Se credete di offrirci un piccolo compenso per le nostre fatiche vi diciamo: grazie! ".


Contrabbandieri o no, quella gente un riconoscimento lo meritava.


Varcammo la rete. Il terreno incominciò subito a scendere; senza volere ci si sparpagliava in ogni direzione. Nella semioscurità sentivamo voci da tutte le parti. Scendemmo di un centinaio di metri. Ad un certo punto, fummo illuminati dalla luce di una torcia elettrica: era un soldato svizzero: mi colpì il suo elmetto: assomigliava a un catino deforme rovesciato. Con parlata ticinese, puntando la torcia in una certa direzione, ci suggerì: "Andate giù, di là!". Seguimmo il suo consiglio. Egli intanto, già lontano, lo andava ripetendo a chi stava per sopraggiungere. Poco dopo vedemmo le finestre illuminate di uno chalet: entrammo: dame premurose ci offrirono del tè.


Anch’io avevo fatto la mia buona azione, portando "in salvo" l’imbranato Antonio.


Da quell’istante fummo considerati, dalla Confederazione Elvetica: "Rifugiati militari".


Era l’alba del 17 Settembre 1943.

giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO

 

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