DOPO
IL MARE LA MONTAGNA
Per tutelare la mia
salute, il dottor Pasargiklian aveva consigliato i miei genitori, dopo
l’iodio del mare, di ossigenare i miei polmoni con l’aria di
montagna.
Di conseguenza, terminati i soggiorni liguri, ci si trasferiva, in
località di mezza montagna, in alta Brianza. Si affittavano camere
nelle cascine dei contadini, e si occupavano le ampie cucine, con grandi
camini e tavoloni di legno massiccio. Allora la villeggiatura la si
intendeva così, ed era facile che, per l’estrema vicinanza tra nuclei
famigliari di cittadini in vacanza, si formassero compagnie numerose,
che organizzavano gite, con colazioni al sacco.
Le mete di questi diporti erano modeste cime montagnose, come i Corni di
Canzo, o il Piano del Tivano, o, al massimo, il Monte Palanzone (m. 1480
s.m.), il quale costituiva già una vera conquista, per le esili membra
dei gitanti. Questi, strada facendo, si selezionavano spontaneamente in
gruppi: quello degli uomini in avanguardia, a cui seguiva, a breve
distanza, un altro delle mogli e infine, in coda, seguivano i giovani e
gli infanti. I padri di famiglia; in genere ex combattenti;
nell’arrancare per mulattiere e sentieri, si crogiolavano nei ricordi
e sacrifici personali, sofferti nelle trincee della recente guerra
1915/18; le signore chiacchieravano di bambini, di ricami e di problemi
famigliari: i giovani adolescenti, scherzando e ridendo gaiamente,
prendevano pratica nei rapporti tra i due sessi, sognando principesse e
principi azzurri. Noi bambini davamo caccia alle lucertole e
incoscentemente, di nascosto, gettavamo dall’alto della montagna
qualche sasso per il piacere di vederlo rotolare e saltare sulle falde
scoscese verso valle.
Conquistate le ambite vette, si chiedevano ai montanari dei rifugi:
polenta; formaggi e salumi caserecci; e latte appena munto, da
accompagnare alle vivande estratte dai nostri zaini.
L’estate precedente, 1929, eravamo andati a Caglio, un paese più a
Nord di Canzo e più alto sul livello del mare (850 m.); ospiti nella
cascina di due simpatici contadini: il Pepp (Giuseppe) e la Cecca
(Francesca), entrambi sull’orlo della vecchiaia, e dai visi color
ambra, solcati da profonde rughe. Pepp portava due baffoni alla
Francesco Giuseppe d’Austria e con la moglie, nonostante il loro basso
livello culturale, condivideva la saggezza e la filosofia, che la natura
insegna a chi, a lungo, l’affronta nei campi. I loro figli avevano
lasciato la casa paterna, creandosi una famiglia e acquistando poderi
nei dintorni, per cui i vecchi, nella stagione estiva, affittavano i
locali rimasti vuoti.
La cascina, stava ad un passo dalla piazza della chiesa, ed aveva un
ampio cortile da cui, attraversato un sottoportico, si giungeva ad uno
slargo, dov’era la stalla con alcune mucche e capre. Al mattino presto
questi animali; appena svuotati di latte dal mungitore, venivano muniti
di collare con campanaccio o campanella e, lasciati liberi, uscivano
spontaneamente dalla cascina; attraverso il grande cortile; per unirsi
ad altro bestiame, badato da pastori incaricati e da cani, per compiere
la transumanza quotidiana verso i pascoli di montagna, .
A noi, arrivati dalla città; quello scampanellare alle sei del mattino,
che si aggiungeva ai diuturni rintocchi del vicino campanile; il quale
segnava le ore, non perdonando nemmeno i quarti; scardinava i sonni;
specialmente nei primi giorni. Tuttavia ci si consolava pensando:
"Già, ma siamo in vacanza".
Prima del tramonto, la mandria ritornava, preannunciata dal suo
multiforme scampanare, ed ogni animale riconosceva da solo la strada
della propria stalla. Per me ragazzino, questa emancipazione bovina,
aveva del prodigioso e mi veniva da esclamare meravigliato: "Ma
allora le bestie, non sono proprio bestie.".
Una sera, con gli animali della nostra cascina entrò anche una capra
estranea, che si fermò smarrita nel cortile. Io, approfittai di questo
incontro per andarle vicino ed accarezzarla, qualcuno vedendo il mio
interesse mi consigliò: "Prova a darle un po’ di sale.".
Non me lo feci ripetere: andai verso la cucina, che era al piano
terreno, e da un pacchetto presi una manciata di sale grosso. La capra,
quasi avesse capito (o aveva capito?), mi seguì, arrestandosi però
educatamente sulla soglia del locale, e quando le porsi nel cavo della
mano il contenuto, cominciò con la sua ruvida lingua a leccare con
delicatezza e avidamente, sino a lasciarmi il palmo vuoto e umido. Poi
restò lì ferma, quasi ad attendere la replica. La dovetti dissuadere
bacchettandola sul groppone con una verga. Allora fuggì dal cortile per
riunirsi alla fiumana degli altri quadrupedi sulla strada del ritorno.
La sera seguente, la bestia entrò ancora nel nostro cortile, questa
volta scientemente, per chiedermi altro sale. L’accontentai, e poi fui
costretto ancora ad usare il bastoncino per incamminarla sulla retta
via. Il rito si ripetè per altre sere, sinché la Cecca m’informò
che troppo sale avrebbe potuto nuocere all’animale e da allora, per
qualche sera, dovetti dare solo vergate alla capra, per convincerla a
cessare le sue visite, perché la baldoria era finita. L’animale non
si vendicò, come avrebbe probabilmente fatto qualche ingrato essere
umano al suo posto.
Con frequenza, e assenso materno, andavo nei campi con uno o l’altra
dei nostri locatori a, "voltà el fen", come dicevano loro,
cioè a rivoltare, con una forca di legno, l’erba stesa al sole nei
prati, per affrettarne l’essiccazione. Non era un lavoro
entusiasmante, ma siccome doveva essere svolto nel primo pomeriggio, mi
affrancava dall’obbligo del riposino che, "per il mio bene",
Mamma mi imponeva dopo il pranzo. Veramente non capivo perché,
"per il mio bene", il dormire nella fresca stanza da letto,
fosse equivalente al lavoro sotto il sole meridiano; e mi venne il
sospetto che la mia genitrice mi volesse al sicuro, ma fuori dai piedi
per quel tempo, soltanto a salvaguardia della sua sacrosanta digestione.
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UN
RODEO CON L’ASINO
A "voltà el fen"
andava, qualche volta, il Pepp con l’asino, giacché, se il fieno era
pronto, ne affardellava due grossi involti, che caricava, al ritorno,
sul basto dell’animale. Nel viaggio di andata, quando glielo chiedevo,
Pepp montava me sul ciuco, tenendone prudentemente la cavezza per tutto
il percorso. In quei momenti, dall’alto dell’equino, mi ergevo
compiaciuto come il generale di un monumento equestre, salvo
l’avvertire un brivido serpeggiare lungo la schiena, quando il somaro
subiva qualche scarto durante la marcia.
Un giorno, giunti al campo dove la Cecca già si trovava a lavorare,
Pepp si fermò a parlare con la moglie, abbandonando un attimo la
briglia. L’asino non attendeva altro: sorprendendo tutti, me compreso
che lo cavalcavo, partì al galoppo per destinazione ignota. Sobbalzando
come un cowboy al rodeo, mi abbrancai con tutte le forze al bordo del
basto, scivolando or qua or là sui fianchi del somaro. Furono gli
interminabili secondi di un breve tragitto. L’animale si fermò
davanti al covone di fieno, che da lontano aveva visto, e tranquillo
incominciò a brucare, non curandosi del sottoscritto che, ancora
sbiancato, aveva in groppa. Pepp e Cecca accorsero e ridendo mi
chiesero: "Te ghet avu la tremarella eh?". Replicai in
milanese: "Chi... mi?.. Nooo!".
Con la Cecca, andavo spesso nell’orto, che si trovava di là dalla
stalla, dopo il letamaio. C’era qualche albero da frutto, molta
verdura e fiori. Io mentre aiutavo la contadina a innaffiare il coltivo
rubacchiavo, sotto il suo occhio benevolo, fragole, ribes e lamponi.
Immancabilmente, la buona donna, a fine lavoro, recideva un mazzo di
fiori e me li dava per mia madre.
Una volta, vedendo la Cecca in cortile avviata al sottoportico, e
pensando che andasse nell’orto, gridai a mia madre che si trovava in
cucina: "Mamma, vado con la Cecca!" e mi affiancai alla donna
la quale mi prese per mano, assentendo beffarda: "Si, si: ven con
mi!". Arrivati allo slargo della stalla, la contadina si collocò
nel bel mezzo, presso il tombino; si slacciò all’altezza della
cintura una spilla da balia, allargò le gambe, e al di sotto del
grembiule nero che scendeva fino alle sue caviglie, io vidi serpeggiare
verso i buchi dello scarico un rigagnolo d’urina. Riallacciata la
spilla, la donna mi riprese per mano e affatto seriosa mi annunciò
tranquilla: "Adess tornemm indrée.". Deluso ed offeso, mi
consolai pensando che le mucche erano più scostumate.
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LA
FAMIGLIA FOA’
Nella nostra cascina era
alloggiata anche la famiglia Foà, di origine ebrea, composta dalla
mamma, vedova; dalle due figlie Elisa e Bruna, di 24 e 22 anni; e dal
loro fratello quattordicenne, Aldo.
Mia madre, essendo di tendenza medio-borghese, fece presto amicizia con
la signora Foà e mia sorella Renata, legò con le due ragazze, alle
quali anch’io mi affezionai molto, per la dolcezza dei loro caratteri.
Ho due foto ricordo di quei rapporti, una che mi ritrae molto tranquillo
accanto a Elisa. Questa signorina, rotondetta e modesta, aveva un
particolare ascendente su di me. Con la sua serenità e la grande
simpatia che mi sapeva dimostrare, sedava la vivacità della mia indole.
Inoltre, essendo maestra elementare, presto aveva scoperto il mio
tallone d’Achille, ovvero la grande sete di sapere: le era facile
quindi, tenermi attento e serio con le sue spiegazioni ed i suoi
racconti.
Il mio atteggiamento era affatto diverso con Bruna: una ragazza
serafica, con una pazienza da Tobia, che le faceva tollerare ogni mia
affettuosa provocazione. Con lei, sono immortalato nella seconda
fotografia: lo scatto mi ha ripreso con un braccio appoggiato
pesantemente sulla sua testa e una smorfia rivolta all’obbiettivo.
L’amicizia di Renata con Bruna continuò da allora per molti anni,
anche dopo la guerra, nel corso della quale la famiglia Foà, visse a
Milano sfuggendo avventurosamente alle disposizioni razziali in atto.
giomarkin@virgilio.it
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