Vecchio Giorgio 11

Le sue poesie 1 - 2 - Poesie per i bambini - Racconti di vita 1 -2-3-4-5-6-7-8-9-10-11-12-13-14-15    

 

...Continua:   Racconti della serie:  "Servizio militare"

 

COLONNELLO: NON AVRAI IL MIO SCALPO!. LE GAFFES DEI TROMBETTIERI MEA CULPA  UNA LICENZA NEGATA  IL DIAVOLO FA LE PENTOLE... 
DRITTO IL CAPITANO, MA ANCHE L’AVIERE... A.A.A. - CERCASI VOLONTARI L’ ESAME DI AMMISSIONE  CIAO FORLANINI ! CIAO MILANO !  
SCUOLA SOTTUFFICIALI: UNA DELUSIONE! IL SERVIZIO DI RONDA. GLI ALLARMI AEREI.  IL PRINCIPIO DELLA FINE.  UNA FUCILATA ALLA VECCHIA SORDA. 

 

COLONNELLO: NON AVRAI IL MIO SCALPO!.

Non è proprio il caso di dire che il nostro Comandante in
carica, si facesse benvolere dai suoi subordinati, di ogni ordine e grado. "Arresti di rigore" ad Ufficiali e Sottufficiali; e "Camera di punizione di rigore", aggravata dal taglio a zero dei capelli agli avieri; erano all’ ordine del giorno, per le più piccole infrazioni al regolamento militare, e ad altre regole, inventate dal nostro esimio superiore.


Ne sapevano qualcosa gli autieri della rimessa. Ne cambiava uno alla settimana, perché quello della settimana precedente era in prigione, in quanto punito per qualche mancanza. L’auto non partiva? Autiere in prigione. Grattava col cambio? Autiere "in Consegna". L’autovettura non era pulita? Agli "Arresti" il maresciallo dell’autoparco.


Ciò che più ci imbestialiva, era il fatto che il nostro caro Colonnello, predicava bene, ma razzolava male. Ogni anno a maggio; per esempio; giungeva dal Comando della 1^ Z.A.T., una circolare, la quale disponeva che, per servizi interni, i militari di truppa, smettessero di portare la divisa di ordinanza grigio-azzurra e indossassero invece quella da fatica bianca, di tela olona. La motivazione era più che giustificata, perché l’uniforme grigio-azzurra, di lana pesante; aggravata dalle fasce mollettiere, e dalla camicia con cravatta; faceva grondare di sudore fino allo spasimo; la povera sentinella, ferma per ore sotto il sol leone d’estate; mentre la tuta di tela olona, più leggera e con pantaloni lunghi, rendeva molto più sopportabili, le ore di guardia e quelle di ogni altro servizio di fatica.


Ebbene no! Il nostro signor Colonnello disattese consciamente, l’ordine pervenuto dall’Alto Comando, asserendo che la divisa grigio-azzurra era esteticamente più decorosa, e che se i militari sudavano a portarla, il fatto era positivo, perché ciò aiutava ad abituarli alla sofferenza.


Intanto il nostro Comandante, indossava una freschissima assisa di seta, di un bel grigio-azzurro cangiante, che gli consentiva di pavoneggiarsi con le belle amazzoni, quando, a cavallo, nelle sue ore libere, partecipava a battute di caccia, nelle riserve dei suoi altolocati amici. Mannaggia!


Un giorno, cosa insolita, atterrò nel nostro aeroporto un bimotore militare. Dal Corpo di guardia, vedemmo un febbrile trambusto, là, lontano sul campo e, fulminea, "Radio Scarpa" ci informò che si trattava di un Generale in ispezione. Come mai l’arrivo in aereo? Semplice: una sorpresina.


Udimmo ordini concitati e urla. Dalla Palazzina Comando, un sergente arrivò di corsa al Corpo di guardia. Ordine: "A turno, tutte le guardie devono andare velocemente in camerata, a togliersi l’uniforme di panno e a mettere quella di tela.".


Il Generale, non aveva gradito, che la disposizione sul cambio delle divise, fosse stata volutamente ignorata dal nostro Colonnello. Ciò costituiva un atto di insubordinazione grave. E chissà quant’altro l’Alto Ufficiale aveva trovato fuori posto, perché a tutti sembrò ancora alterato e nervoso, quando si avviò a riprendere il suo aereo. Non si acquietò nemmeno nel vedere la "Guardia", tributargli gli "Onori" di commiato, in divisa di tela. Contrariamente alle speranze di tutti, il nostro Colonnello, non fu comunque rimosso dal Comando del "Forlanini", dove continuò con le sue angherie.



 

LE GAFFES DEI TROMBETTIERI


Non poteva non accadere! Un giorno, con la Guardia schierata all’entrata dell’ Aeroporto, per attribuire gli onori al nostro Colonnello; Gattico, anziché un impeccabile trio di "Attenti", gli regalò una strombazzata così oscena, che assomigliava ad una chiara triplice pernacchia. Capita!


Un quarto d’ora dopo, i tre trombettieri, furono convocati, dal Colonnello. Mi ritrovai con Gattico e Collazzo e, insieme, ci recammo al Comando. Nessuna reprimenda tra noi: anzi solidarietà e comprensione. Un segnale mal riuscito, è già una terribile punizione per il trombettiere che lo lancia, perché suscita in lui un senso di vergogna, e riscuote la tacita riprovazione di quanti lo ascoltano. Questo il motivo per cui non è prevista, dal Regolamento, alcuna punizione per il trombettiere che sbaglia un segnale. Succede anche ai migliori.


Entrammo nell’Ufficio. Il Colonnello era seduto alla scrivania. Mi aspettavo, che volesse sapere chi di noi lo aveva pernacchiato così malamente poco prima. Invece, no. Né ebbi l’impressione, che ne fosse già informato. E nemmeno che avesse riconosciuto il colpevole


Si alzò e, calmo, col suo abituale viso inespressivo e ceruleo da magistrato inquirente, ci guardò qualche secondo, tutti insieme, come fosse stato davanti a un ritratto di famiglia. Poi, senza alterare la voce, chiese: "Chi di voi è più preparato professionalmente?". Collazzo e Gattico, coll’indice, indicarono me; ed io annuii.


Il Comandante mi si avvicinò e, guardandomi dritto negli occhi, pronunciò senza cambiare tono la sua sentenza: "Tu hai trenta giorni di tempo, per insegnare a questi tuoi colleghi, a suonare la tromba con la tua medesima capacità. Trenta giorni, in capo ai quali, se i risultati non saranno più che soddisfacenti; tu e loro, avrete un mese di prigione rigore e i capelli a zero."


Tentai una spiegazione: "Signor Colonnello, ciascuno di noi ha un limite attitudinale nella capacità di suonare, oltre al quale con tutta la buona volontà non può andare. Farò del mio meglio, ma non posso assicurare...". Lui, mi interruppe: "Un mese di rigore e i capelli a zero! E adesso potete andare!"


Uscimmo dal Comando, abbacchiati tutti e tre, come gli agnelli nella settimana di Pasqua; ma anche inviperiti e invasati di avversione, per un Comandante che ci comminava punizioni, per infrazioni non contemplate dalle norme militari.


Io, poi, ero furibondo. Mi si attorcigliavano budella e stomaco: non riuscivo ad accettare la logica del mio superiore; e nei miei pensieri, dandogli del tu dicevo: "Ma come? Ammetti che io sia migliore degli altri e in compenso mi minacci? Peste ti colga! Ti maledico! Ti odio! Possa tu crepare prima che scada il mese!".


Bisognava tuttavia ingoiare e dare un’indicazione di buona volontà a quell’anima malnata. D’accordo con i miei due compagni decidemmo di fare, compatibilmente con i nostri turni di servizio, degli esercizi con la tromba.


Una mattina alle nove, infatti, mi recai con Gattico, dietro la palazzina ufficiali e cominciammo i nostri ripassi musicali: Do, do, do, doooo...! Re, re, re, reeee...! Mi, mi, mi, miiiii...! Non potemmo andare avanti: si aprì una finestra, al primo piano, e un tenente si affacciò strillando: "Ma siete matti? Smettetela di dar fastidio!". Risposi ipocritamente: "Mi dispiace, signor Tenente, ma abbiamo avuto ordine dal signor Colonnello, di fare questi esercizi.". Quello, si calmò, ma non troppo: "Se è così, andate allora dietro la palazzina sottufficiali.".


Dopo il dovuto "Signorsì!", scambiai con Gattico, un sorrisetto d’intesa, e ci spostammo cento metri più in là, secondo l’ordine ricevuto, per riprendere la nostra solfa. Questa volta fu un Sergente che, infuriato, venne fino a noi urlando: "Aho! Cos’è questo rompimento di tromba? E’ già finita la guerra per caso?". Avute le debite spiegazioni, se ne andò, dichiarando che presto l’avremmo rivisto; ma siccome non ci aveva proibito di suonare, noi continuammo imperterriti i nostri allenamenti. Mezz’ora dopo venne il Maresciallo di Fureria il quale, per la storia dei "treni diretti", già mi conosceva, e spifferò: "Amico mio,, le tue lezioni di tromba, devi andarle a fare, per ordine del Capitano Ostali, là, sulla banchina della darsena, dietro le baracche, degli avieri.". Risposi: "Ricevuto Maresciallo... la disciplina sorvola gli ufficiali e sfiora i sottufficiali, eh!..", e qui mi interruppi mentre il il buon uomo, perdonandomi l’acido commento, si allontanava sogghignando. I marescialli, non hanno mai fatto male a nessuno!


Le lezioni continuarono quindi, sulla banchina della darsena, senza altri intoppi per un paio di settimane ma, in fatto di miglioramenti nel rendimento dei miei allievi: risultato zero. Era prevedibile: la botte può dare, solo il vino che contiene. Io vivevo nell’angoscia, temendo, sempre più, per i miei capelli. E naturalmente più la scadenza del mese si avvicinava, più ero nervoso; e più maledicevo e inviavo accidenti al mio tracotante superiore.


Un lunedì mattina, il Comandante, contrariamente al solito, non venne in Aeroporto, e il giorno dopo, "Radio Scarpa", informò, che il nostro amato superiore era stato ricoverato all’Ospedale Militare di Baggio.


La decenza m’impedisce di riferire, quali furono i commenti, le speranze, e le preghiere di tutto l’Aeroporto, al diffondersi della notizia. A maggior ragione non accennerò a quanto si dissero i tre trombettieri.


Dal Comando, nessuna informazione fu data, sulle cause del ricovero e sullo stato di salute dell’Alto Ufficiale. In compenso, "Radio Scarpa" spettegolò senza inibizioni.


Fummo così informati, che la domenica precedente, il nostro Colonnello, aveva partecipato ad una battuta in riserva e, per sua sfortuna, dalla cartuccia sparata da un suo compagno di caccia; un solo pallino, evidentemente anomalo o deformato o... intelligente; sfuggì alla traiettoria e, ritornando con un angolo di 180 gradi, andò a centrare una pupilla del nostro povero Comandante, penetrando sino alla massa cerebrale, con la conseguenza di generare uno stato di coma.


Io, che sino a quel momento ritenevo di essere scettico in argomenti di fattucchiere e fatture, ebbi delle perplessità, e mi chiesi se per caso, i miei reiterati anatemi contro il mio superiore, non avessero commosso qualche arcana entità, al punto di stimolarne l’intervento. Pensai anche, per un solo istante, di tramutare le mie maledizioni in benedizioni esorcizzanti. Ma, riflettendo bene, mi venne poi in mente che se quello fosse guarito, i miei capelli sarebbero stati in pericolo. E tornai immediatamente ad essere scettico.


Con Gattico e Collazzo, fui d’accordo di sospendere le lezioni di tromba... per non turbare la mesta atmosfera che aleggiava sull’Aeroporto. Ipocriti!


Pochi giorni dopo, giunse, nella forma più discreta possibile, la notizia del decesso, del Comandante.


In tempi di esaltazione dell’eroismo dei nostri giovani aviatori, per lo più ufficiali piloti che, a decine, cadevano colpiti dall’antiaerea inglese nel cielo di Malta; era prudentemente consigliabile ovattare la morte di un Colonnello in servizio permanente effettivo, avvenuta per incidente di caccia in riserva. Così i funerali ebbero luogo in forma del tutto privata. Unico intervento della Regia, fu l’invio dal nostro parco macchine di un’autolettiga, con quattro avieri d’autorimessa a bordo, che si recò all’Ospedale Militare di Baggio, con l’incarico di trasportare la salma, dal nosocomio all’abitazione privata dell’Alto Ufficiale.


Di quella operazione, un testimone oculare, raccontò, pissi pissi, bao bao che, mentre la barella col defunto, scendeva le scale dell’ospedale, uno dei portantini, ripetutamente punito dal Colonnello quand’era in vita; dava al cadavere degli schiaffi sul viso, in modo da fargli voltare ripetutamente la testa e dicendo: "Guarda de qua..., guarda de là: adesso, so’ mi che te dago ordini!".


Il Capitano Ostali prese il Comando dell’Aeroporto ad interim.

Renzo, che lavorava negli uffici del Comando, mi informò che era arrivata la comunicazione di un bando di concorso per posti di "Sergente di governo", e che aveva deciso di parteciparvi; poi mi stimolò con un: "Perché non lo fai anche tu?". Al che risposi: "Mah! Devo pensarci.".

Eravamo nel febbraio, del 1942, e, in teoria, nell’Agosto di quell’anno; se tutto fosse andato bene; avrei dovuto essere congedato. Invece tutto mi faceva ritenere, che la guerra sarebbe durata ancora a lungo e allora, come Cesare al Rubicone, esclamai: "Il dado è tratto!". Mi sorrideva l’idea che, da sergente, la disciplina... mi avrebbe soltanto sfiorato, e che la mia vita sarebbe stata un po’ meno scomoda.

In un mese, con Renzo, preparammo i documenti e li, presentammo al nostro Comando.

Intanto, all’Aeroporto arrivò un altro Comandante, Colonnello anche lui, pilota, di circa cinquant’anni, ma scattante e con un’aria d’esubero giovanile. Portava il berretto sulle ventitré, e, sulla manica sinistra, il fregio di una ferita di guerra. Che di coraggio ne avesse da vendere lo si notava d’acchito. Il mio timore, ch’egli pure fosse un maniaco della "disciplina estrema" presto dileguò: l’applicazione del regolamento preferiva lasciarla in mano ai suoi ufficiali subalterni; lui, idealmente, continuava a volare alto, nel cielo azzurro.

Il primo dei trombettieri a collaudarlo, fu Collazzo, che distorse un segnale di "Attenti!", al suo passaggio. Il Colonnello non fece una piega, né sul momento, né dopo.

 

 

MEA CULPA


Non vorrei che si pensasse, visto che sinora ho raccontato topiche di Gattico e di Collazzo, che io tenda a nascondere le mie. No! Ed è venuto il momento della gogna anche per me.


La prima volta fu il solito "Attenti!", tributato, ad un Generale. La quarta nota, la più alta, non voleva uscire e si fece sostituire da una più modesta. Ma il segnale doveva essere ripetuto tre volte e, l’emozione per il primo svarione, mi impose di sbagliare ancora, e sempre peggio. Il Generale virò il suo naso di soli quindici gradi, sufficienti a fargli intravedere il suo iconoclasta al quale, con faccia patibolare, manifestò tutto il suo dissenso. E il caso, così, fu chiuso.


La seconda volta, in un giorno di Pasqua, il fatto fu molto più clamoroso. Alla Messa al campo, partecipava, per l’omelia, il Cardinale Colombo di Milano, con uno stuolo di preti e pretini di contorno, e immancabili beghine. Erano presenti anche autorità militari; crocerossine e il nostro Comandante, con i suoi ufficiali, sottufficiali e avieri al completo.


A messa cominciata, l’Alto prelato iniziò una interminabile omelia. Io, ero sulle spine: mi era stato insegnato che al Sanctus, si dovevano tributare tre segnali di "Attenti". Il Cardinale, non finiva mai il suo sermone, e intanto l’officiante, arrivato al Sanctus, era immobile, a mormorare preghiere, con le mani distese sul calice. Poiché io stavo nei pressi dell’altare da campo, e intorno avevo alcuni di quei pretini; pensai di chiedere, a quello a me più vicino: "Reverendo, siamo al Sanctus, devo interrompere l’oratore?" E quello: "Sì, sì, senz’altro!". Così, mentre il Cardinale, col dito indice puntato al cielo, diceva che Dio vede tutto, io lanciai tre squilli d’attenti, che di più belli non ne avevo mai creati. Poi, nel profondo silenzio che seguì, resomi conto della situazione d’imbarazzo che sovrastava tanta gente, subii un leggero stato di shock. L’officiante intanto aveva ripreso il suo rito con l’ostia e il calice, riuscendo lodevolmente ad abbreviare i tempi.


Il Cardinale invece, per farmela pagare, rimase molti secondi teatralmente immobile, col suo indice in direzione dell’Eterno, e soltanto quando fu certo, che tutti avevano notata la sua posizione marmorea, abbassò il braccio e riprese la parola incominciando così: "Il trombettiere mi ha interrotto, mentre dicevo...".


Al termine della funzione, mi avvicinai all’alto porporato per scusarmi: "Mi duole, Eminenza, per quello che è successo. Io non sapevo che...". Lui, senza fermarsi e senza guardarmi, troncò subito con un: "Niente di male, figliolo, niente di male...". E tirò via a muso duro. Cercai, e non vidi più, il pretino, che mi aveva dato quel bel consiglio: sfumato come un ectoplasma.


Il Comandante, né quel giorno, né poi, si occupò della mia gaffe; e quando fui certo dell’impunità, mi venne anche da ridere, pensando a che cosa, oltre ai capelli, mi avrebbe fatto tagliare, per un errore tanto grave, il precedente Comandante buonanima.



UNA LICENZA NEGATA


Secondo il mio punto di vista, il fatto che io fossi in servizio nei pressi di casa mia, nulla aveva a che vedere, con la possibilità in genere concessa ai militari, di fruire periodicamente di alcuni giorni di licenza. Anzi, ad essere obiettivi, io, venendo a Milano, non avevo fatto altro che obbedire, senza eccepire, ad un ordine dei miei superiori. Mi sembrava allora logico (o quasi), dopo oltre un anno ininterrotto di asservimento alla "Regia", di chiedere una licenza. A questo fine, mi misi a rapporto, confidando nella benevolenza del mio diretto superiore: quel pezzo di pane di Capitano Ostali.


Invece, quel giorno, il Vicecomandante era assente: lo sostituiva il Comandante in persona, il quale iniziò, bonario: "Leggo qui, che ti sei messo a rapporto per avere una licenza. E’ così?". Appariva ben disposto, e presi coraggio. "Sì. signor Colonnello. Lo scorso mese, ho completata le mia ferma di leva, e sono stato trattenuto per esigenze di guerra. In diciotto mesi di servizio, non ho mai fruito di una licenza. Per questo, signor Colonnello, mi sono permesso di mettermi a rapporto per chiederla.


E lui: "Comprendo la tua situazione e il desiderio di vedere la tua famiglia; ma purtroppo, ho qui una circolare del Ministero della Guerra, che, per evitare il sovraffollamento dei treni, limita la concessione di licenza a quei militari, che possono raggiungere la propria destinazione con altri mezzi. Hai capito? Hai tu un mezzo, che non sia il treno, che ti porti a casa?".

Risposi: "Signor Colonnello, non c’è problema, perché io abito a Milano, e posso raggiungere casa mia con l’autobus di città.". Il Comandante zompò sulla sedia, e perdendo tutta la sua finta cordialità, mi apostrofò: "E tu, che abiti a Milano, hai il coraggio di chiedermi una licenza?". Inspiegabilmente attese anche la mia risposta: "Dalla mia chiamata alle armi, signor Colonnello, non ho più dormito nel mio letto di casa e, tenuto conto del tempo disponibile, posso vedere la mia famiglia soltanto un paio di ore la domenica; e per altro quando non sono di servizio." Pensavo di esser stato convincente; invece il mio superiore. non mi credette: "A me non la racconti: sono sicuro che tu dorma a casa tutte le notti. Licenza negata!". "Signorsì!".

Uscii dal suo ufficio, dapprima molto offeso, per non esser stato creduto. Poi però, arzigogolando sull’ultima frase pronunciata dal Comandante, conclusi che se lui aveva la convinzione, che tutte le notti le passassi a casa mia; implicitamente mi autorizzava a farlo.


Con un po’ di buona volontà, mi convinsi di ciò, e studiai per conseguenza un piano. Sapevo che la sera, dopo il segnale del "Silenzio", il Sergente di giornata passava in rassegna tutte le brande, e quando ne trovava una non occupata, annotava, dal cartellino di contrassegno, il nome dell’ aviere che non risultava presente. Pensai allora di asportare dalla camerata, branda, materasso e coperte; e di depositare questo materiale, nel Magazzino vestiario del Maresciallo Quarelli, presso il quale lavoravo. Con questo accorgimento, la mia assenza notturna non poteva essere rilevata.


Sapevo pure che, al mattino, l’entrata dell’Aeroporto era particolarmente sorvegliata, quando da Milano arrivavano, e vi facevano capolinea, ad ogni ora, gli autobus targati con la con la lettera " I ". Però, da segrete informazioni a livello di truppa, ero al corrente, che un’altra linea d’autobus, la "L", correva parallelamente al viale Forlanini, e che da una certa fermata di questa linea; con un percorso trasversale di cinquecento metri tra i campi; si poteva accedere, praticamente senza ostacoli, alla zona militare dell’Aeroporto. Mi resi conto, che questo itinerario, era l’unico che potesse assicurarmi un rientro indenne. Ultimo tocco: mi accordai con i colleghi trombettieri, per spostare il nostro avvicendamento di servizio, ad un’ora dopo, l’ "Alzabandiera".


Al collaudo, il mio piano si dimostrò perfetto. Presi quindi, compatibilmente con i miei turni di tromba, a passare abitualmente le mie notti a casa; col solo inconveniente, per il rientro in Aeroporto, di una levataccia ad ore antelucane, e un finale "percorso di guerra", tra i campi fangosi, folti di erbacce grondanti di rugiada.


 

 

IL DIAVOLO FA LE PENTOLE...


Avevo presa la saggia abitudine, al mio rientro dalla scappatella notturna, di andare a sentire, dal collega in servizio di tromba, se tutto per me fosse andato bene. Per un paio di mesi, la risposta fu: "Niente di nuovo.".


Ma una brutta mattina, Collazzo, vedendomi arrivare da lontano, si sbracciò, per farmi capire di correre, perché c’erano novità. E che novità. L’Ufficiale di Picchetto, mi cercava; perché la sera precedente, aveva voluto controllare personalmente le presenze in campo; ma, anziché occuparsi delle brande vuote, aveva preferito spuntare sull’elenco della forza, i cartellini fissati sulle brande stesse: "Ma come? Marchini è nell’elenco, e qui non c’è traccia della la sua branda? Perché mai?".


La grana era grossa, e mentre andavo alla ricerca dell’Ufficiale di Picchetto, mi chiedevo cosa mai gli avrei poi raccontato. Lo trovai: si trattava di un anziano ufficiale di complemento, richiamato, dai modi molto affabili; con cui già avevo avuto modo di parlare, in altra occasione. Da civile era attore teatrale.


"Signor Tenente, aveva chiesto di me?". Era molto piccolo, e dovette guardarmi dal basso: "Già, tu, a proposito: vuoi dirmi dove è finita la tua branda?". La domanda mi suggerì all’istante una scappatoia: "Nel Magazzino vestiario, dove lavoro col Maresciallo Quarelli, signor Tenente.". Ebbi l’impressione che sapesse molto più, di quanto non desse ad intendere, perché insistette: "Fammi un po’ vedere dove.". Lo dovetti accompagnare al magazzino, e ben sapendo che la mia branda là non c’era; gli mostrai, quando entrammo, la catasta dei letti; le pile dei materassi, e gli scaffali con lenzuola e coperte; tentando una spiegazione: "Alla sera, signor Tenente, vengo qua, prendo una di queste brande; poi un materasso là, e le coperte laggiù; e mi faccio il letto. Al mattino, rimetto tutto a posto."


Mentre parlavo; dicevo a me stesso di avere una bella faccia tosta; ma ero in errore; perché, le bugie; una persona di norma sincera come me; non le sa raccontare e oltre tutto, non le sa sostenere. Infatti, quando tornammo sui nostri passi, il Tenente, che per cinque minuti, non aveva eccepito alla mia giustificazione, mi diede una legnata con tre sole parole: "Ho un dubbio...". Al che io, cretinamente, gli completai la frase, con la sola parola mancante: "... atroce...". E lui: "Ah! Sì? Ne convieni allora!"


Muovemmo ancora, pensosi, alcuni passi; poi l’Ufficiale sentenziò come un buon pastore anglicano: "Siamo seri! Adesso, vai in camerata e, alle altre, aggiungi la tua branda: d’accordo? E non ci riprovi! Intesi?" Felice di essermela cavata così a buon mercato gridai: "Senz’altro signor Tenente. Ci conti e grazie!". E ciascuno andò per la propria strada.


Ripensandoci però, un dubbio venne anche a me: "Possibile che al Comando non si sapesse nulla di questa mia storia?". Il dilemma si risolse il giorno seguente, quando un furiere, mi diede il foglio di liquidazione di una missione da me compiuta, da portare al Vicecomandante per la firma.


Bussai alla porta dell’Ufficio del Capitano Ostali: sentii gridare "Avanti!", ed entrai. In quel momento il telefono squillò: il mio superiore staccò la cornetta e iniziò una conversazione; ma durante una breve pausa del suo colloquio telefonico, mi puntò addosso un indice accusatore "Voi dormite a casa!"; ed io prontamente: "Signorsì!". Dopo aver finito di parlare al telefono, il Capitano continuò: "Avete il permesso per l’assenza notturna?". Avrei voluto dirgli: "Tu lo sai che non ce l’ho, e allora non arrostirmi: mandami in galera e falla finita!". Invece, ad alta voce, risposi soltanto: "Signornò!".


Senza arrabbiarsi, il Capitano mi fece notare: "Non vi è capitato di pensare che, nel caso voi foste stato seppellito, in un bombardamento aereo della vostra casa, il Comando, in assenza di vostre notizie, avrebbe dovuto denunciarvi per diserzione? Siamo in guerra: lo sapete?". Stetti zitto, impalato sull’attenti, perché non potevo rispondergli: "Sì, sì, sì: ci ho pensato, ma, calcolate le probabilità, avevo concluso che il gioco valesse la candela".


Lui riprese: "Adesso andate dal nostro Brigadiere dei Carabinieri, a chiedere il permesso per assentarvi di notte, e se non ve lo dà, riprendete a dormire in Aeroporto." Me ne andai con un "Signorsì!", non prima di avergli porto il foglio che avevo in mano per la firma. Poteva andarmi peggio, ma, non so perché, non mi aspettavo che mi punisse.


Andai dal Brigadiere dei Carabinieri: "Sei figlio di madre vedova?.. Sei unico sostegno di famiglia?.. Sei fratello di caduto in guerra?.. No?.. Allora il permesso non te lo posso dare.". Non ci avevo sperato: quando mai un carabiniere fa eccezione alle regole?


Rimuginando sulla mia disavventura, dovetti ammettere che il Capitano Ostali, avrebbe avute tutte le ragioni per punirmi: eppure nemmeno mi minacciò, né mi rimproverò. Si limitò a farmi riflettere. Così, a modo suo, aveva voluto implicitamente premiare la mia spontanea sincerità. Infatti se avesse voluto castigarmi, lo avrebbe potuto; ma con la sola prova della mia confessione; perché nessuno era riuscito a beccarmi in castagna. Dopo tanti anni, ricordo sempre quell’uomo con grande affetto.


 


DRITTO IL CAPITANO, MA ANCHE L’AVIERE...


La storia non è finita. Nei giorni seguenti, raccolsi sufficienti informazioni per stabilire che la sera in cui il Tenente rilevò la mia assenza; ne diede subito informazione al Capitano Ostali il quale, riferendosi a me, disse semplicemente: "Ma quello è di Milano, e sicuramente dorme a casa sua. Domani mattina, controllate l’ingresso dell’Aeroporto, e lo vedrete scendere dall’autobus."


Il fatto che all’indomani; eludendo la stretta sorveglianza, predisposta per cogliermi in flagrante reato militare; apparissi ad un tratto, come sorto dal nulla, a dire al Tenente: "Ha chiesto di me?"; fu evidentemente sentito dai miei superiori, come un fallimento della loro tattica.


Mi convinsi di ciò, perché qualche giorno dopo, il Tenente, incontratomi per caso; mi chiese; come se continuassimo il nostro vecchio dialogo: "Dimmi la verità: come facevi a eludere i controlli, quando al mattino rientravi in Aeroporto?". Pensai: "La verità a te? che sei stato all’origine del miei guai? Giammai!. E poi, tradirei i miei compagni, i quali ancora si servono di quel tragitto per rientrare clandestinamente in Aeroporto. Evviva l'omertà!"


Allora risposi con aria furbesca: "Semplice, signor Tenente. La nostra sorveglianza all’ entrata dell’Aeroporto, si limita a qualche minuto dopo l’arrivo dell’autobus; per il controllo dei documenti ai pochi militari che ne discendono. L’autobus, che qui fa capolinea, sosta mezz’ora prima di ripartire. Io, appena sceso, mi eclissavo dietro l’autoveicolo stesso, attendendo che i controlli finissero. Semplice."


La mia spiegazione soddisfece in pieno il Tenente; tanto è vero che lo stesso giorno, un ordine del Comando, dispose che il Sergente di giornata, ad ogni arrivo di autobus, facesse due giri d’ispezione intorno all’autoveicolo. Non so se quell’ordine sia tuttora operante...

 


A.A.A. - CERCASI VOLONTARI


Eravamo ai primi mesi del 1943. - "Radio Scarpa" diffuse in Aeroporto un annuncio: "Il Colonnello, Comandante, aveva cose importanti da comunicare". Poco dopo arrivò l’ordine di raggruppamento, in campo, di ufficiali, sottufficiali e avieri al completo. Fummo schierati a formare un quadrato aperto: un lato occupato dall’allineamento degli ufficiali, il lato mediano, da quello dei sottufficiali, e il terzo lato dallo schieramento degli avieri.


Dopo un quarto d’ora d’attesa, giunse il Comandante, accompagnato dal Vicecomandante, Ostali, e da due Maggiori piloti. Questo piccolo gruppo di ufficiali superiori, si dispose in corrispondenza del lato aperto del quadrato. Il forte mormorio degli astanti, si spense quando il Comandante, facendo un passo avanti, mostrò di voler prendere la parola.


"Ufficiali, sottufficiali, avieri! Ho un’importante notizia da comunicarvi: il Ministero della guerra, ha emanato a tutti i Comandi delle tre Forze Armate, una circolare, diretta ai militari di ogni ordine e grado, per la ricerca di volontari, utili alla formazione di un ‘Corpo di paracadutisti guastatori’.


Non alzate subito le mani (N.d.R. - Nessuno le aveva alzate), voglio prima chiarirvi la proposta... I volontari, subiranno una preliminare selezione, operata dalle autorità sanitarie centrali; atta a stabilire l’idoneità fisica e mentale, e le attitudini psicotecniche degli aspiranti. Quanti supereranno questo vaglio, saranno sottoposti a un severo addestramento, con specifiche lezioni, sui metodi di sopravvivenza; sui percorsi di guerra; sull’uso degli esplosivi; sui sistemi di sabotaggio; sulla tecnica del paracadutismo estremo; e altro.


Coloro che varcheranno brillantemente tutte queste prove, saranno impiegati in imprese belliche, oltre il fronte delle operazioni. Avranno una divisa mimetica, con un grande paracadute rosso, ricamato sopra il taschino; elmetti di cuoio ed armi automatiche di recentissimo modello.


Qui occorrono uomini coraggiosi, pronti a tutto e disposti a rischiare la vita. Ho tenuto ad essere esplicito e a non nascondervi nulla, perché intendo, che nessuno di coloro che saranno segnalati come volontari, sia rinviato qui, per aver manifestato paura nell’ affrontare una prova, o per pentimento.


Chiaro? Adesso vediamo un po’... Signori Ufficiali! Faccia un passo avanti, chi di voi si offre volontario... Come, nessuno?... Signori Sottufficiali?... Nessuno?... Avieri?...".


Ci fu un infinito istante di glaciale, assoluto silenzio. Poi il colonnello esplose: "Vigliacchi!.. Siete dei vigliacchi!.. Siete tutti dei vigliacchi!.. Siete dei raccomandati, dei copertoni!.. Nient’altro che dei copertoni!... Ma questa storia finisce, ve lo dico io che finisce!... Vi faccio trasferire tutti!... Fino all’ultimo. Ve lo dico io!..."


Così infuriato, il Comandante ci piantò in asso, e gesticolando, si avviò verso la Palazzina comando, seguito in fila indiana, dai due Maggiori; mentre il Capitano Ostali, col suo abituale autocontrollo, rimase in luogo e dopo qualche minuto, diede il: "Rompete le righe!".


Il tempo passò, e i "copertoni" continuarono a popolare l’Aeroporto. Evidentemente erano chiodati.


 

 

 

L’ ESAME DI AMMISSIONE


Quando ormai non pensavo più alla domanda che, a suo tempo avevo presentata, giunse a me ed anche a Renzo, la convocazione per gli esami d’ ammissione alla Scuola Sottufficiali. Ci recammo a Taliedo, una località a pochi chilometri dal nostro Aeroporto, in una caserma dell’Aeronautica militare. Fummo accolti, con una quarantina di altri candidati, alcuni da noi conosciuti perché di Linate; in un ampio locale, a piano terreno, dove erano disposti, come banchi di scuola, dei tavoli e delle sedie. In fondo, fungeva da cattedra un altro tavolo, isolato, a fianco del quale, era una lavagna ribaltabile.


Ci accomodammo: due per ogni tavolo. Alcuni avieri, ci distribuirono quattro fogli di carta protocollo e il necessario per scrivere. Infine, un Tenente, in piedi dietro la cattedra aprì bocca: "Attenzione un momento! Vi sono stati distribuiti dei fogli di carta. Userete un foglio per la minuta del tema, e un altro per la bella. Così pure, un foglio sarà usato per la minuta del problema di matematica, e un secondo, per la bella. Inizierete col tema. Quando ne avrete trascritto il testo definitivo, incomincerete a risolvere il problema. Ora sono le nove, avete otto ore di tempo, per finire i due lavori. Entro le diciassette dovrete consegnare gli elaborati alla cattedra. La traccia del tema e il problema, sono scritti qui. E’ tutto." Così dicendo, il Tenente aveva girato la lavagna, sul cui retro già erano stilati i quesiti; poi si sedette, esplorò con una panoramica la sala, e infine, si immerse nella lettura di un corposo libro, che aveva tutta l’aria di un tomo universitario.


Renzo ed io, ci eravamo seduti al medesimo tavolo. Il tema, non ci dette preoccupazioni perché, ricordo, non comportava citazioni di date o di avvenimenti storici. Il problema invece, era tosto: per la sua soluzione, dovetti richiamare alla mente nozioni algebriche ormai sopite nella memoria. Renzo, pure si trovò in difficoltà per lo stesso motivo, e finimmo per mettere assieme le nostre residue conoscenze di matematica, per risolvere una equazione di secondo grado.


Potemmo collaborare abbastanza tranquillamente: il Tenente, infatti era immerso nella lettura del suo volume e, anzi, mi sembrò affatto disinteressato a controllare, che nessuno copiasse da altri, o comunque commettesse irregolarità.


Finalmente, venimmo a capo di quella stramaledetta equazione, il che ci consentì di risolvere brillantemente il quesito.


Prima di vergognarmi di quel broglio, devo osservare che molti candidati, presentarono in bianco, avanti la scadenza del termine, il foglio del problema di matematica. E devo aggiungere che, in seguito, quando furono comunicati gli esiti del concorso, notai tra i promossi, anche il nome di parecchi di coloro, che avevano presentati i fogli in bianco. Evidentemente, la "Regia" aveva bisogno di sergenti.


Nel Luglio 1943, giunse il mio trasferimento a Roma, per l’assegnazione alla "Scuola Sottufficiali".


Renzo aveva ricevuto una uguale comunicazione e partimmo assieme, con tre giorni di tempo per presentarci a destinazione. L’amico mi propose una variazione del nostro viaggio, per una sosta a casa sua, a Mirandola. Il tempo a nostra disposizione lo consentiva. Conobbi così i suoi genitori, molto affabili e ospitali. Ci trattenemmo un giorno, sufficiente per apprezzare la tipica, prelibata cucina emiliana, di casa Vanzini.


Ripreso il nostro viaggio, giungemmo puntualmente a Roma, alla Caserma di transito. Ventiquattr’ore dopo, ci munirono di un foglio di via per Rieti: "Scuola Sottufficiali".

 

 

CIAO FORLANINI ! CIAO MILANO !


L’attività dell’Aeroporto "Forlanini" di Linate, si svolgeva a compartimenti stagni. L’edificio principale, era di tre piani, l’ultimo dei quali ospitava la Torre di controllo e una Stazione meteorologica, la quale giornalmente liberava tre palloni sonda, con strumenti per misurazioni atmosferiche. Aveva in dotazione anche un biplano, residuato della guerra 1915/18, per le rilevazioni di correnti d’aria in quota, che veniva pilotato, a turno, da due marescialli.


A questi due servizi, collaborava anche del personale civile.


Il secondo piano era occupato dalla "Scuola di volo senza visibilità", frequentata da piloti, che seguivano un corso teorico e pratico di quaranta giorni, per abilitazione al volo notturno.


Il primo piano era riservato agli uffici del Comando, e il piano terra, alla fureria.


Si comprende come, di giorno e di notte, l’andirivieni di militari e civili fosse pressoché incessante.


Questo era l’Aeroporto Militare di Linate.

Preso da nostalgia e curiosità, nel l992, (cinquant'anni dopo), mi recai al "Forlanini", per rivedere quell'edificio. Al suo posto trovai, di là dalle nuovissime costruzioni dell'Aeroporto Internazionale di Linate, del terreno incolto e qualche maceria. Il tempo ha demolito quella palazzina, ma la sua esistenza ed i relativi ricordi vivono, al momento, ancora in me.

 

 

SCUOLA SOTTUFFICIALI: UNA DELUSIONE!

L’aeroporto di Rieti, aveva la vaga forma di una pera rovesciata; voglio dire, col picciolo rivolto a Sud. Era attorniato da due strade comunali, che si fondevano, verso il basso, in una borgata, la quale prendeva nome da una chiesa denominata Madonna del Cuore, distante un paio di chilometri dalla città.

L’entrata era all’estremo di detto picciolo e, subito lì, si ergeva la Palazzina del Comando affiancata da qualche piccola costruzione: alloggiamenti ufficiali e sottufficiali; un’autorimessa; e un piccolo hangar; costeggiati, di là dal recinto, dalla strada comunale.

Di fronte all’entrata, a circa duecento metri di prato calpestato, vi era la caserma degli avieri di governo e di noi allievi sottufficiali; e qualche magazzino. Anche queste costruzioni erano delimitate da una cinta e, all’esterno, da un’altra arteria urbana.

Verso il Nord, dove il campo d’aviazione si allargava, le recinzioni avevano fine, e il terreno demaniale dell’aeroporto si confondeva con le terre dei contadini, coltivate in genere a barbabietola da zucchero. Più volte mi venne il sospetto, che queste aree, che ritenevo private, fossero invece demaniali e occupate abusivamente, col tacito consenso dello Stato, come spesso avviene qui da noi.


I duecento metri di terreno, che distanziavano il Comando dalla Caserma, facevano vivere le due comunità come separati in casa. Mai vidi arrivare nelle camerate degli allievi, un ufficiale; salvo quello addetto alle esercitazioni di marcia e maneggio delle armi, e quell’altro che ci dava lezioni di tattica; strategia; armamenti; e altre materie teoriche. Per tutta la mia permanenza all’Aeroporto, mai ebbi occasione di vedere il Colonnello Comandante.

Con Renzo ci sistemammo nella medesima camerata. Eravamo un po’ delusi. Pensavamo che una "Scuola Sottufficiali", avesse tutt’altra struttura e organizzazione; mentre dovemmo rilevare, che alloggiavamo in ambienti obsoleti e che si viveva all’insegna del provvisorio. L’atmosfera inoltre era satura di una strana tensione, quasi d’attesa. Un’aria di smobilitazione, che mai avevamo respirata, al quasi rimpianto "Forlanini".

A questo proposito, col senno di poi, mi viene in mente che il mio arrivo a Rieti coincise, il 10 Luglio 1943, con lo sbarco angloamericano in Sicilia, delle armate del generale Patton e del generale Montgomery che, per le nostre autorità militari, costituì un suono di campana a morto.


A Rieti; dopo l’immancabile rituale del taglio a zero delle nostre chiome; incominciammo subito l’addestramento. Contrariamente alle mie aspettative: niente di speciale: otto ore di marcia e di esercitazioni col fucile modello ‘91, che ci era stato assegnato al nostro arrivo; assieme a due filetti dorati, per bordare venti centimetri del risvolto della nostra giacca. Questo fregio distingueva l’allievo sottufficiale dal soldato comune; così, come gli allievi ufficiali invece, si potevano riconoscere, perché il filetto dorato orlava per intero il bavero della loro uniforme.


A comandarci, avevamo un piccolo caporale, mai contento, sempre urlante, molto offensivo e che, ad ogni piè sospinto, minacciava di farci rapporto e di proporci per l’espulsione dalla Scuola. Si capiva da lontano, ch’egli aveva l’ordine di romperci le scatole e di provocarci, compito che lui eseguiva con voluttuoso sadismo.


Un giorno questo insetto, ci esasperò al punto, che sentimmo qualcuno di noi sibilare non troppo tra i denti: "Rompi, rompi, ma quando sarò sergente, te la farò pagare, con tanto d’interessi!". Apriti Cielo! Il caporale ne fece una scena madre, e urlò tali e tante minacce, da farci comprendere l’ampiezza della sua impotenza.


A dargli il cambio, avevamo un Sottotenente appena uscito dall’Accademia, altro tappo isterico, che non aveva nemmeno l’attenuante di essere un caporale. Anche lui, sbraitava, recriminava, gesticolava e, quando intuiva che a forza di sollecitarci la marea montava, estraeva dal fodero la pistola e urlava: "Fate attenzione che, per disobbedienza, in tempo di guerra, posso spararvi!". Così dicendo, alzava l’arma sopra la testa e la roteava. Ma poi, come leggeva negli occhi dei meno pazienti tra noi, il messaggio: "Attento, che se viene il momento buono, sai dove te la metto quella pistola?", si affrettava a ripassare il comando al Caporale.


Una mattina, di turno era l’Ufficiale; un nostro compagno, presentandogli la punta di una scarpa aperta da cui sorridevano le cinque dita del piede, chiese: "Per favore, signor Tenente , potrei avere un altro paio di scarpe?". Ebbe questa risposta: "Il magazzino è vuoto di scarpe, di vestiario e di altro: cammina con quelle che hai!". La cadenza delle nostre marce, fu così accompagnata dal ciabattare compiaciuto di quella scarpa. L’ufficiale diceva il vero: il magazzino era vuoto, e nei giorni che seguirono, a forza di marciare ore e ore, alcuni di noi si trovarono con le suole bucate, e dovettero infilare pezzi di cartone nelle scarpe, onde evitare che entrassero sassolini.


Per le lezioni di teoria, non fummo ospitati in aule, con banchi, cattedra e lavagna, e non ci fu nemmeno dato materiale didattico come libri, quaderni e quanto necessita per scrivere. Rammento che l’ufficiale addetto, sedeva sulla soglia di un’aula piena di mobili accatastati, ed era rivolto verso il corridoio, dove noi; una decina per volta; in piedi, ascoltavamo la lezione. L’insegnante teneva in mano un volume, in brossura di cui leggeva il contenuto. Se era indispensabile che gli allievi prendessero visione di una illustrazione del libro, questo veniva fatto passare di mano in mano. Erano insomma lezioni peripatetiche.



 

 

IL SERVIZIO DI RONDA.

Pochi giorni dopo il nostro arrivo, ci assegnarono turni di ronda. La "Ronda", era costituita da due allievi, muniti di fucile, con l’ordine di sorveglianza perimetrica del campo d’aviazione. Si susseguivano quattro ore di servizio e altrettante di riposo per un complesso di ventiquattrore. Ad ogni turno, ci davano un caricatore con sei pallottole per il nostro modello ‘91; quando smontavamo, dovevamo restituirlo.

Naturalmente ci imbottirono di minacce, per cui sapevamo che, se il maresciallo addetto alle ispezioni, ci avesse trovati addormentati, durante il turno di ronda, saremmo finiti dritti, dritti, sotto processo al Tribunale Militare; il quale, nei casi più gravi, dato il tempo di guerra; poteva condannarci, anche alla fucilazione. Poi, se avvistavamo un’ombra sospetta, dovevamo gridare: "Alto là! Chi va là?", tre volte: se non ottenevamo risposta, dovevamo sparare, tre colpi in alto; e se infine l’intruso non si fosse fermato, potevamo finalmente, con la coscienza tranquilla, centrarlo con una fucilata.

Dopo queste istruzioni, eravamo molto preoccupati per le responsabilità che su di noi sarebbero gravate, durante tale nuova incombenza. Fortunatamente "Radio Scarpa" ci consolò affermando che: "Il Maresciallo delle ispezioni, nessuno l’ha mai visto; anzi, molto probabilmente è un frutto di fantasia, atto a stimolare l’impegno degli avieri di ronda. Secondo: quando vedi un’ombra, ormai sei in ritardo con la reazione, perché l’ombra ha già visto te. Devi quindi gettarti subito a terra; mirare; e dire a voce molto bassa: Chi va là?, una sola volta. Se non hai immediata risposta spara il primo colpo dritto sul bersaglio, e gli altri due in aria; sempre che il primo sia andato a segno. Poi al Comando racconterai che hai diligentemente osservate le prescrizioni; tanto il morto non parla. Ma in ogni caso ricorda: meglio un processo, che il tuo funerale".

Devo confessare: non c’è stata notte che, in servizio di ronda, non mi sia addormentato da qualche parte. La ferrea volontà di stare sveglio c’era; ma il buio assoluto e il silenzio di tomba, che avvolgevano me e il mio compagno di servizio, erano galeotti. Cercavamo qualche anfratto, nel percorso di sei chilometri di perimetro del campo di aviazione, e ci sedevamo a terra col proposito, di vegliare a turno. In capo a due minuti russavamo tutti e due, con buona pace delle ombre sospette..

Nel bel mezzo di una notte in cui, fuori servizio, dormivo nella mia branda, fui bruscamente svegliato con i commilitoni di camerata, da due spari. Ci ponemmo qualche domanda di circostanza, che rimase però senza risposta. Altri spari non ne erano seguiti; pensammo allora di riprendere sonno, col proposito di interessarci dell’accaduto la mattina successiva. La verità, quella vera, ce la raccontò; contando sull’omertà di noi allievi sottufficiali; il collega autore delle fucilate: "Ero in servizio di ronda con XXX , mi annoiavo e tendevo ad assopirmi, allora pensai di sparare due colpi in aria, così, tanto per allontanare il sonno e vedere che cosa sarebbe accaduto."


Il rapporto al Comando fu: "La notte del XXX, in servizio di ronda all’estremità Nord dell’Aeroporto, vidi, a cinquanta passi un’ombra sospetta. Urlai tre volte, come prescritto: ‘Alto là! Chi va là?’. Non avendo ricevuta risposta, e non essendosi allontanata la sagoma, sparai due colpi in aria; dopo di che, notai che l’intruso si era nel frattempo dileguato dalla zona militare. Il compagno di ronda può testimoniare". Il compagno confermò e l’incidente fu così ufficialmente chiuso.



 

GLI ALLARMI AEREI.

Stanchi morti, tra servizi di ronda, marce ed esercitazioni col fucile, riposavamo una notte nelle nostre camerate col sonno del giusto, quando urlarono funeree, le sirene dell’allarme aereo. Tra i tanti consigli, gli istruttori, avevano trascurato di dirci, quale avrebbe dovuto essere il nostro comportamento in tale frangente.

Tuttavia, non occorse molta fantasia, per prendere una decisione collettiva. Ci vestimmo rapidamente e scendemmo nel prato davanti alla caserma. Vedemmo gli avieri di governo, che non erano in forza alla Scuola Sottufficiali, sciamare diagonalmente nel campo d’aviazione, in direzione della campagna, che iniziava subito dopo l’hangar. Ci unimmo a loro. A metà campo, mentre correvamo come antilopi, sentimmo già, sulle nostre teste, il rombo sinistro dei B-29; i quadrimotori da bombardamento americani. Erano decine. Continuammo a correre disperatamente fino a giungere, trafelati, fuori della zona militare. Quando la folla dei fuggitivi giunta alla campagna si fermò; spontaneamente si dispose in tanti minuscoli assembramenti.

Poco dopo, dall’alto calarono, sostenuti da piccoli paracadute, alcuni bengala, dall’abbagliante luce bianca, che illuminò a giorno tutto l’Aeroporto e dintorni. Noi indossavamo le tute da fatica. Qualcuno nella notte gridò: "Non muovetevi! Il bianco delle vostre divise, si nota dagli aerei, come uno sventolare di bandiera!"

Restammo immobili a pensare, col fiato sospeso, quale sorte ci avrebbero riservata i prossimi minuti; mentre i bombardieri continuavano, minacciosi, a rombare sulle nostre teste.

Dopo un po’, il rumore dei B-29 andò gradatamente ad affievolirsi e, in lontananza, udimmo molte esplosioni e vedemmo incendiarsi l’orizzonte. Voci intorno a noi informarono: "Sono andati a Terni, a bombardare le acciaierie. Fra poco, saranno di ritorno.". E così fu. Risentimmo il rombo degli aerei, con un crescendo verso di noi, e poi un calando in direzione del punto da cui prima erano venuti. I bengala continuavano a scendere, ormai esausti, col bagliore rossastro di un fuoco fatuo.

A freddo, mi ricordai che mentre quella notte attraversavo velocemente il campo, avevo visto l’autopompa e gli autocarri dell’aeroporto prendere anch’essi il largo, strapieni di avieri, i quali così si risparmiavano la maratona. Mi organizzai e riuscii, ai successivi allarmi aerei che ormai si ripetevano tutte le notti, a saltare in tempo su uno degli autoveicoli in partenza.

Gli automezzi ci scaricavano al limite del campo d’aviazione, per cui, per allontanarci il più possibile, dovevamo ancora percorrere nella campagna un ultimo tratto, a piedi e di corsa. Una notte mi accorsi che così fuggendo, non calpestavo sassi e sterpi; ma un coltivo di barbabietole da zucchero, i cui frutti emergevano dal terreno.


Ebbi degli scrupoli, poi rapidamente mi consolai. Era indubitabile che il Comando sapesse degli sconfinamenti nei campi, durante gli allarmi notturni; ma era anche intuitivo, che si preoccupasse più dell’ incolumità dei propri soldati, che della salvaguardia del seminato.


Certo è che i coltivatori ci erano avversi. E lo capisco. Però trovai eccessivo che una contadina alla quale; nel corso di una ronda diurna; accaldato e col sole di luglio a picco sull’elmetto; chiesi un bicchiere d’acqua; mi rispondesse: "Non ne abbiamo".


A Rieti, il rancio era poco e scadente per cui; dopo alcuni giorni di quella dieta, con l’aggravio delle marce d’addestramento di giorno e delle corse per sfollamento notturno, era normale che la fame albergasse nel mio stomaco in servizio permanente effettivo. Fu quindi, nel corso di un allarme aereo che, attendendone in mezzo ai coltivi la fine; staccai da terra una barbabietola da zucchero; la mondai col mio coltellino tascabile, e ne mangiai qualche fetta. Era dolciastra e acre. Poco dopo avvertii la gola riarsa e un principio di raucedine. Non ebbi conseguenze alla salute, ma decisi che sicuramente in fatto di alimenti, era meno letale il menu che mi infliggeva la caserma.


Nei primi quindici giorni della nostra permanenza a Rieti, avremo marciato per un totale di circa 300 chilometri, e assistito soltanto a cinque o sei lezioni di teoria.

 

 

IL PRINCIPIO DELLA FINE.


Un avvenimento storico, come fu la seduta del Gran Consiglio del Fascismo, del 24 Luglio 1943, con l’approvazione dell’Ordine del Giorno di Dino Grandi; ebbe forti ripercussioni in tutta Italia, sia per l’arresto del Capo di Governo, Benito Mussolini, ordinato dal Re Vittorio Emanuele III; sia perché, il nuovo Capo del Governo, Generale Badoglio, con un proclama alla radio, il 26 Luglio dichiarò: "... La guerra continua, a fianco dell’alleato tedesco." E queste ultime parole, le sentii io, con le mie orecchie, anche se finora, non ebbi occasione di leggerle sui vari resoconti dei giornali dell’epoca e di pubblicazioni successive.


Il pericolo di sommosse era tangibile: gli italiani brindavano a quella che credevano fosse la fine della guerra; i fascisti meditavano un golpe per rimettere Mussolini a Palazzo Venezia; e le armate tedesche avevano già avuto ordine da Hitler, di occupare con la forza, il territorio italiano.


Come andarono poi le cose, adesso tutti lo sappiamo, o crediamo di saperlo. Comunque, il giorno dopo quell’avvenimento, gli ordini cambiarono per me e per i miei compagni. Diminuite le marce, e ridotte quasi a zero le lezioni di teoria. In compenso altri servizi: ronde e blocchi stradali, da svolgersi di fuori dell’ Aeroporto.


Uguale trattamento fu adottato per i Cadetti dell’Accademia Militare di Rieti, i quali, come noi, furono declassati a... battere le strade.


Il primo servizio esterno, fu un blocco stradale, presso un passaggio a livello. Il plotone di allievi, di cui facevo parte, era agli ordini di un Sottotenente. Dovevamo fermare persone e veicoli, per il controllo dei documenti d’identità. Ci fu ordinato di essere molto cortesi con la gente; ma la popolazione in genere era abbastanza tranquilla e anzi, la presenza dei soldati del Re, veniva accettata come garanzia di sicurezza. Salvo qualche intemperanza.


In quell’occasione mi capitò di fermare un’automobile, con a bordo un tizio, dal fare più incavolato che minaccioso. Al bavero della giacca portava il distintivo del Partito Nazionale Fascista. Salutai militarmente: "Buon giorno, signore...". Lui non mi lasciò continuare. Aggottò le sopracciglia e avanzò la mascella inferiore da mastino napoletano: "Cosa volete?". Risposi: "Per cortesia, un documento di riconoscimento.". Egli cercò lungamente in tutte le tasche, e infine mi presentò una tessera, guardandomi con aria provocatoria. Osservai quella tessera: era quella del PNF. Dovetti replicare: "Mi spiace signore, ma questa non è legalmente valida per il riconoscimento: occorre la carta d’identità, o il passaporto, o la patente o il porto d’armi.".

Senza proferire parola, l’uomo frugò ancora, istericamente e a lungo nei suoi indumenti e, quando volle, mi porse, con uno scatto nervoso la carta d’identità. Finsi di leggerla: in realtà guardai solo la fotografia: per gli ordini che avevo ricevuto, era l’unica cosa che potessi verificare. Restituii il documento: "Grazie signore. Può andare.". Una grattata col cambio e una sgommata. Ti pareva.


Quando non eravamo ai blocchi stradali, andavamo a due a due, di ronda nell’abitato vicino all’Aeroporto. Non avevamo itinerari prefissati; i turni di quattro ore, non ci consentivano di allontanarci troppo dalla nostra sede, per cui passavamo e ripassavamo per le medesime strade. La gente finì per simpatizzare e scambiare qualche parola con noi.


Dai i fumi dell’oblio, mi emerge, un casolare di quei borghi, sulla soglia del quale, vedo ancora seduta una donna, né bella né brutta, sui quaranta. Lavorava sempre a maglia. Tutte le volte

che, di ronda, passavo da quelle parti, sostavo presso di lei a chiacchierare, mentre il mio compagno bighellonava pazientemente nei dintorni.


Parlavamo dei fatti del giorno, e di quello che avrebbe potuto accadere, da un momento all’altro, nella situazione politico-militare che stavamo vivendo. Lei mi sembrava affatto tranquilla, come se pensasse che la sua vita di borgata, non sarebbe cambiata gran che, comunque le cose fossero andate. Un inconfessato: "Viva la Francia, viva la Spagna....". Non potevo essere con lei d’accordo, forse perché portavo le stellette, e il mio destino in quei giorni, non consentiva pronostici.


Prima di riprendere il mio cammino, ci salutavamo. Le dicevo: "Arrivederci al mio prossimo turno di servizio. Altrimenti: addio!".

 


UNA FUCILATA ALLA VECCHIA SORDA.


La notizia, in Aeroporto, fece clamore: un Cadetto dell’Accademia Militare di Rieti, in servizio di guardia, aveva ucciso una vecchia sorda.


Indiscutibilmente la nostra curiosità aveva una giustificazione di carattere professionale: ciò che era accaduto all’Allievo Ufficiale, avrebbe potuto accadere anche a noi.


Non si seppe più di tanto: il Cadetto, durante la guardia notturna ad una zona militare, aveva visto nel buio, avvicinarsi a passi lenti, il profilo di una persona. La sagoma scura non si fermò alle tre intimazioni di rito; e continuò lentamente ad avanzare, anche dopo i primi due spari.


Sprecammo illazioni. Possibile che una vecchia sorda, passeggiasse sola di notte? Ammissibile che fosse talmente sorda, da non sentire i due primi spari? Vuoi vedere che il Cadetto, ha messo in pratica i consigli di "Radio Scarpa", sparando il primo colpo sulla vecchia?


Il fatto di sangue, creò, tra la autorità cittadine e quelle militari, un "incidente diplomatico", che sfociò in un compromesso all’italiana; forse lapalissiano, ma sicuramente poco ortodosso. Fu disposto che i Cadetti dell’Accademia Militare e gli Allievi della Scuola Sottufficiali, avrebbero, in futuro, svolto i servizi di sentinella e quelli di ronda, con le armi prive di pallottole. Come fossimo stati Balilla da "Libro e Moschetto".


Nessuna notizia ci pervenne in seguito sulla sorte del povero Allievo Ufficiale. Noi, della Scuola Sottufficiali, lo assolvemmo e, in ogni caso, se fosse stato possibile gli avremmo mandato a dire: "Meglio un processo, che il tuo funerale.".

Il luttuoso incidente, appena narrato, mi portò alla mente, un episodio molto meno drammatico, che con esso però, ha delle affinità, e insieme portano ad una domanda conclusiva: agli ordini si deve obbedire o no?


Quand’ero in forza al "Forlanini", subimmo parecchi bombardamenti notturni, per le incursioni aeree inglesi. In Aeroporto, l’ "Allarmi!", era lanciato dal trombettiere, non appena dalla Metropoli ambrosiana, giungeva l’urlo delle sirene. Al segnale, tutti ci affrettavamo ad affollare i rifugi antiaerei.


Disseminati, qua e là, lontani dagli edifici, erano stati infatti costruiti dei bunker, in cemento armato. Avevano la forma di un tubo, lungo una ventina di metri e, internamente, largo due. Affioravano appena dal terreno: sembravano dei lunghi vermi, appena mimetizzati dall’erba. Vi si accedeva da scivoli alle estremità, e le entrate non avevano porte. Dentro, per tutta la lunghezza, era stato costruito un unico sedile di cemento. Sulla volta, a qualche distanza uno dall’altro, c’erano degli sfiati, per il ricambio dell’aria.


A difesa, nel perimetro del campo d’aviazione, erano piazzate alcune batterie antiaeree tedesche, i cui serventi; attempati riservisti dell’alleata Germania; avevano un loro accampamento, poco distante dalle palazzine dell’ Aeroporto.


Lo so, perché una sera il nostro Comando organizzò, per festeggiare il Natale, un rancio speciale per noi avieri e per i soldati tedeschi. Sia noi che loro sapevamo, per tacito ordine, che dovevamo affratellare, e recitammo bene le rispettive consegne, incominciando subito con dei brindisi. Noi dicevamo: "Salute!" e i tedeschi ci rispondevano: "Prosit!". All’ultimo brindisi, della serata, già eravamo fratelli, perché noi avevamo imparato a dire: "Prosit!" e loro a rispondere: "Salute!". Per il resto del convito, eravamo d’accordo su tutto, perché loro non sapevano una parola di italiano, e noi, non una di tedesco.


In alcuni punti strategici del campo, erano collocate delle garitte di legno, per le nostre sentinelle, le quali avevano l’imperativo, con le solite sacrosante minacce, di non abbandonare il posto per nessuna ragione, nemmeno in caso di allarme aereo, pena il deferimento al Tribunale Militare.

Una sera, al tramonto, con un bellissimo sole morente che arroventava il cielo; se
ben ricordo era il 28 Ottobre 1942, anniversario della Marcia su Roma; arrivarono dei bombardieri inglesi, che vollero festeggiare a loro modo l’importante ricorrenza fascista; con lo sganciamento, su Milano e dintorni, di migliaia di bombe, e di spezzoni incendiari, molti dei quali al fosforo con accensione ritardata di parecchie ore.


Le batterie antiaeree tedesche del nostro Aeroporto, e tutte le altre piazzate alla periferia della città, entrarono prontamente in azione, con un imponente sbarramento aereo che, alla fine, non lasciò un metro di terreno privo di schegge di proiettile.


Io, durante quel bombardamento, ero seduto a metà del mio bunker, e senza volerlo mi ero accomodato sotto uno sfiato, per cui, ogni volta che una bomba cadeva nelle vicinanze, una colonna d’aria sotto pressione si scaricava sulla mia testa, mentre altre due entravano dalle aperture del rifugio. Mi dicevo minaccioso; "Non vorrai mica lamentarti solo per questo!"; e, intimidito, mi rispondevo: "No! No!".


La mattina seguente, all’infermeria, fu portata una sentinella. Il motivo? Per tutto il bombardamento della notte precedente, ligia agli ordini ricevuti, era rimasta in piedi, irrigidita dentro la garitta, mentre schegge, bombe e spezzoni, cadevano più o meno vicini al suo fragile riparo. Fortunatamente rimase illesa, ma in stato di shock.


"Radio Scarpa", riferì che il malcapitato, quando si riprese, fu accompagnato al Comando, dove un ufficiale gli disse, sia pure in tono paternalistico: "Ma perchè non sei scappato al sicuro durante il bombardamento? E chi credevi ti venisse ad ispezionare durante una incursione aerea?

giomarkin@virgilio.it - VECCHIO GIORGIO

 

 

Home page  |  L'autrice del sito  Le pagine del sito     

          |